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Cassazione Civile 35932/2021 – Interruzione dell’usucapione – Principio fissato dall’art. 1167, comma 2, c.c. – Ambito di applicazione

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Ordinanza 35932/2021

Interruzione dell’usucapione – Principio fissato dall’art. 1167, comma 2, c.c. – Ambito di applicazione

Il principio fissato dall’art. 1167, comma 2, c.c. per il quale l’interruzione dell’usucapione si ha per non avvenuta ove, entro l’anno dalla privazione del possesso, sia stata proposta l’azione diretta a recuperarlo e questa sia stata, anche in epoca successiva, accolta, non è limitato al campo della usucapione, ma costituisce applicazione particolare di un principio di carattere generale per cui, alle indicate condizioni, gli effetti della privazione del possesso vengono retroattivamente rimossi, come confermato dagli artt. 1168 e 1170 c.c., che fissano in un anno il termine di decadenza per l’esercizio dell’azione di spoglio.

Cassazione Civile, Sezione 2, Ordinanza 22-11-2021, n. 35932   (CED Cassazione 2021)

Art, 1168 cc (Azione di reintegrazione) – Giurisprudenza

Art. 1170 cc (Azione di manutenzione) – Giurisprudenza

 

 

FATTI DI CAUSA

La. Ra. chiamava in giudizio il Fallimento di Be. Do., chiedendo accertarsi l’acquisto per usucapione di due box auto posti al secondo piano interrato di uno stabile in Martina Franca (TA).

Il giudice di primo grado, eseguita l’istruzione, rigettava la domanda. Contro la sentenza il La. proponeva appello nei confronti dell’eredità giacente di Be. Do., tornato in bonis ma nel frattempo deceduto.

La Corte d’appello rigettava il gravame, riconoscendo, sulla base delle deposizioni testimoniali, l’avvenuta interruzione del possesso dei due box, in conseguenza della rimozione delle serrature esistenti e sostituzione con serratore nuove ad opera della curatela del fallimento.

La stessa Corte d’appello prendeva inoltre posizione sulla ulteriore deduzione dell’appellante, il quale aveva sostenuto che non fosse stata data prova, da parte della curatela, che la privazione del possesso si fosse protratta per oltre un anno. Al riguardo essa osservava che la relativa deduzione era inammissibile, in quanto introdotta per la prima volta nel grado; e che la stessa era ad ogni modo infondata, non essendo stata data la prova del recupero del possesso tramite il vittorioso esercizio dell’azione di spoglio da parte del possessore. In conseguenza di quanto sopra la Corte d’appello confermava la valutazione del primo giudice che non era maturato il tempo occorrente per l’usucapione.

Per la cassazione della sentenza La. Ra. ha proposto ricorso, affidato a due motivi. Con il primo motivo il ricorrente si duole, sotto complessa rubrica (violazione di legge, omesso esame di fatti decisivi e difetto di motivazione), perché la Corte d’appello non ha tenuto nel debito conto, trascurando la relativa deduzione, del mancato sgombero dei locali. Tale circostanza significava che l’attuale ricorrente aveva mantenuto il possesso dei locali. Si aggiunge ancora che l’ulteriore affermazione della Corte d’appello, nella parte in cui si privilegiano alcune deposizioni testimoniali a scapito di altre, ritenute irrilevanti, non trovava riscontro in un’adeguata indicazione delle ragioni idonee a sorreggere un tale convincimento. Con il secondo motivo, sempre sotto complessa rubrica (violazione di legge e omesso esame di fatti decisivi), il ricorrente, nel riproporre la questione oggetto del precedente motivo circa la mancata prova della perdita del possesso, censura la sentenza nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto la novità della deduzione, non comprendendosi quale sia stata la ragione posta a fondamento di tale valutazione. La decisione è poi censurata laddove la stessa Corte d’appello ha ritenuto che il recupero del possesso implicasse l’esercizio dell’azione possessoria. Si sostiene che la necessità del recupero del possesso, tramite esercizio dell’azione possessoria, implica, ai sensi dell’art. 1167 c.c., che la privazione si sia protratta per oltre un anno, laddove nella specie tale prova mancava, essendoci per contro la prova che il possesso fu conservato dall’attuale ricorrente, anche dopo l’accesso della curatela, come risultava dal relativo verbale del 22 marzo 1999.

Il curatore dell’eredità giacente ha resistito con controricorso.

Il ricorrente ha depositato memoria, alla quale ha allegato la dichiarazione dell’amministratore del condominio circa il pagamento degli oneri, afferenti ai due box.

RAGIONI DELLA DECISIONE

In primo luogo, deve essere dichiarata l’inammissibilità della produzione documentale operata con la memoria.

Nel giudizio di legittimità, secondo quanto disposto dall’art. 372 c.p.c., non è ammesso il deposito di atti e documenti che non siano stati prodotti nei precedenti gradi del processo, salvo che non riguardino l’ammissibilità del ricorso e del controricorso ovvero concernano nullità inficianti direttamente la decisione impugnata, nel qual caso essi vanno prodotti entro il termine stabilito dall’art. 369 c.p.c., rimanendo inammissibile la loro produzione in allegato alla memoria difensiva di cui all’art. 378 c.p.c. (Cass. n. 28999/2018; n. 7515/2011).

Il primo motivo è infondato. La Corte d’appello ha accertato l’avvenuta perdita del possesso in conseguenza del cambio della serratura di accesso ai box. Il ricorrente censura tale valutazione perché non si sarebbe tenuto nel debito conto il mancato sgombero dei locali. Ma in questi termini il ricorrente si duole della ricostruzione del fatto da parte del giudice di merito, pretendendo di accreditare, in questa sede di legittimità, una diversa lettura della prove assunte nel giudizio. Ciò è in contrasto con il principio, da sempre riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui spetta, in via esclusiva, al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. n. 19547/2017). Il principio vale a rendere ragione anche della infondatezza della censura riguardante la valutazione di rilevanza di alcune deposizioni testimoniali a scapito di altre: il giudizio sull’attendibilità dei testi e sul valore probatorio delle singole deposizioni, unitamente a quello sulla prevalenza da attribuire all’uno od all’altro mezzo di prova attiene al potere discrezionale del giudice di merito (Cass. n. 21187/2019), che nella specie ha dato adeguata motivazione della scelta compiuta, avendo ritenuto che la deposizione del teste Di Giuseppe fosse coerente con atti pubblici.

Il secondo motivo è inammissibile nella parte in cui si censura la statuizione della sentenza impugnata, di inammissibilità della deduzione sulla protrazione della perdita del possesso per oltre un anno. La Corte d’appello, infatti, pur avendo rilevato la novità della deduzione, l’ha poi esaminata nel merito, rigettandola. Il rilievo della tardività degrada così a un semplice passaggio motivazionale, privo di incidenza sulla decisione. Si sa che la censura che investa una considerazione della sentenza impugnata che non abbia spiegato alcuna rilevanza sul dispositivo è inammissibile per difetto di interesse (Cass. n. 10420/2005; n. 8087/2007).

Quanto alle restanti censure, il secondo motivo è infondato.

L’interruzione dell’usucapione per il caso in cui il possessore sia stato privato del possesso per oltre un anno, prevista dall’art 1167, primo comma c.c., non presuppone che detta perdita sia determinata da spoglio, ma si verifica ogni qual volta il possessore stesso venga posto nell’obiettiva impossibilita di continuare ad esercitare il possesso, sia per fatto del terzo, che per eventi naturali (Cass. n. 1025/1976). Il secondo comma della norma aggiunge che l’interruzione si ha come non avvenuta se, entro l’anno dalla perdita del possesso, sia proposta l’azione diretta a recuperare il possesso e questo sia stato recuperato. È stato precisato che il principio per il quale l’interruzione dell’usucapione si ha per non avvenuta ove, entro l’anno dalla privazione del possesso, sia stata proposta l’azione diretta a recuperarlo e questa sia stata, anche in epoca successiva, accolta, non è limitato al campo della usucapione, ma costituisce un principio generale, per cui, alle indicate condizioni, gli effetti della privazione del possesso vengono retroattivamente rimossi, principio generale del quale l’art 1167, comma secondo, c.c. è applicazione particolare, e ne sono conferma gli artt. 1168 e 1170 c.c., i quali fissano il termine di decadenza di un anno per l’esercizio dell’azione di spoglio (Cass. n. 3570/1971).

La Corte d’appello ha ritenuto che non fosse stata data la prova del recupero. In verità il ricorrente, come risulta anche dai rilievi proposti con la memoria, ripropone pur sempre la tesi che il possesso non era stato neanche perduto, non essendo «mai intervenuta la sostituzione delle chiavi» (pag. 5 della memoria). Fatto è, però, che la Corte d’appello ha ritenuto diversamente sulla base delle prove assunte e il relativo apprezzamento, immune da vizi logici e giuridici, è incensurabile in questa sede. Infatti, la sostituzione della serratura della porta di accesso a un immobile, non accompagnata dalla consegna di copia delle chiavi, è di per sé atto idoneo a costituire spoglio (Cass. n. 1426/2004; n. 14819/2014).

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con addebito di spese.

Ci sono le condizioni per dare atto ex art. 13, comma 1-quater d.P.R. n. 115/02, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto”.

P.Q.M.

rigetta il ricorso; condanna il ricorrente, al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida nell’importo di € 2.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in € 200,00 e agli accessori di legge; ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 25 giugno 2021.