Ordinanza 36627/2021
Interruzione della prescrizione acquisitiva – Possesso ad usucapionem – Domanda giudiziale
La proposizione di una domanda giudiziale determina, sino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, l’interruzione della prescrizione acquisitiva che regola il possesso “ad usucapionem”. Ne consegue che, se il giudizio si conclude con il riconoscimento del diritto del titolare, il possessore potrà invocare l’usucapione in forza della protrazione del suo possesso solo a decorrere dal passaggio in giudicato, fatte salve le ipotesi di comportamenti provenienti dal possessore medesimo e comportanti, anche implicitamente, il riconoscimento del diritto del “dominus”.
Cassazione Civile, Sezione 2, Ordinanza 25-11-2021, n. 36627 (CED Cassazione 2021)
Art 2945 cc (Effetti e durata dell’interruzione della prescrizione) – Giurisprudenza
Art. 1158 cc (Usucapione di beni immobili e di diritti reali immobiliari) – Giurisprudenza
Art. 1141 cc (Mutamento della detenzione in possesso) – Giurisprudenza
FATTI DI CAUSA
Nel 1964 St. Gi. vendette a Ma. Ad. un appezzamento di terreno sul quale l’acquirente realizzò più fabbricati comprendente più unità immobiliari, alcune delle quali acquistate con atto notarile da Ru. On.. È poi intervenuta sentenza del Tribunale di Palermo su istanza del venditore St., il quale aveva chiamato in giudizio il fallimento della Ma. e gli aventi causa, deducendo l’inefficacia della originaria vendita intercorsa nel 1964 fra l’attore e la stessa Ma. in bonis, non essendosi realizzata la condizione, apposta al negozio, costituita dal pagamento delle rate di prezzo successive alla stipula. Il Tribunale ha accolto la domanda e conseguentemente ha accertato, con sentenza non definitiva n. 792 del 1979, l’inopponibilità al venditore St. degli ulteriori atti traslativi; condannò gli aventi causa al rilascio, previo pagamento da parte dello St. al curatore dell’indennità pattuita.
Con sentenza definitiva n. 2397 del 1981, il Tribunale determinò l’indennità e accertò che Ru. On. aveva diritto di rivalersi sulla Ma. per i danni subiti a causa dell’evizione.
Nei confronti del Ru. la sentenza che aveva ordinato il rilascio divenne definitiva in assenza di impugnazione.
Lo St. versò l’indennità dovuta ed il fallimento Ma. si chiuse con un concordato, al quale si opposero gli eredi del Ru., con intervento dichiarato inammissibile dal Tribunale di Palermo, con ordinanza del 24 ottobre 1986, cui seguì la sentenza n. 1333/86 di omologazione del concordato in data 30 ottobre 1986. Gli eredi Ru. proposero opposizione di terzo avverso la sentenza e l’impugnazione fu rigettata con sentenza n. 2311 del 3 ottobre 1991.
Lo St., non avendo ottenuto il rilascio, chiamò in giudizio gli eredi di Ru. On. nel 2005, chiedendo la condanna dei convenuti al rilascio dei beni. Si costituirono Ru. Gi., Ru. Pa. e Ru. An., opponendo di avere acquistato per usucapione le porzioni oggetto di trasferimento in favore del loro dante causa. Si costituirono separatamente Na. St. e Na. Al., i quali chiesero che fosse dichiarata inefficace la sentenza del 1979 a causa del mancato pagamento dell’indennità da parte dello St..
Il Tribunale dichiarò inammissibile la domanda proposta dallo St. in quanto già accolta con la sentenza n. 792 del 1979 e rigettò le domande riconvenzionale dei convenuti.
La Corte d’appello ha riformato la sentenza, riconoscendo l’usucapione in favore dei convenuti Ru.; dichiarò inammissibile l’appello incidentale proposto dai Na..
Per la cassazione della sentenza St. Gi. ha proposto ricorso affidato a un unico motivo.
Ru. Antonino, Ru. Pa. e gli eredi di Ru. Gi. (St. Ro. e St. Ma.) hanno resistito con controricorso.
Hanno depositato controricorso anche Na. St. e Na. Al..
Il ricorrente ha depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Deve in via preliminare essere dichiarata l’inammissibilità del controricorso di Na. St. e Na. Al., con il quale costoro hanno chiesto l’accoglimento del ricorso principale. Il controricorso è stato notificato il 24 gennaio 2017, decorsi oltre sessanta giorni dalla notificazione della sentenza, eseguita il 5 novembre 2016. «Qualora un atto, anche se denominato controricorso, non contesti il ricorso principale ma aderisca ad esso, deve qualificarsi come ricorso incidentale di tipo adesivo, con conseguente inapplicabilità dell’art. 334 c.p.c. in tema di impugnazione incidentale tardiva» (Cass. n. 24155/2017; n. 25505/2009).
2. L’unico motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1141, 1158 e 1265 c.c. e omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c.
La Corte d’appello ha riconosciuto il possesso sulla base dell’atto del 1964, senza considerare che questo era stato interrotto nel 1970 a seguito della causa di rilascio intrapresa dallo St. e che l’interruzione si è protratta fino al passaggio in giudicato della sentenza n. 792 del 1979. Si sostiene che da tale momento è iniziato un nuovo potere sulla cosa, diverso dall’iniziale possesso, la cui qualificazione non poteva prescindere dal riconoscimento giudiziale del diritto in favore dello St. e dall’accertamento dell’obbligo di rilascio a carico dei convenuti, previo pagamento dell’indennità da parte del proprietario. Il ricorrente evidenzia che i Ru. avevano tenuto un comportamento coerente con il compiuto accertamento giudiziale, opponendosi all’omologazione del concordato e poi proponendo opposizione di terzo contro la sentenza di omologazione, atti questi incompatibili con l’ animus rem sibi habench. Da tali atti emergeva che i possessori non avevano da opporre al proprietario nient’altro che un diritto di credito. Si doveva poi considerare che, deceduto Rosso On., i beni oggetto della pretesa usucapione non vennero inseriti nella dichiarazione di successione.
3. Il ricorso è infondato. Le regole relative al computo del termine per l’usucapione e al suo corso, cioè alla sua sospensione o alla sua interruzione, per il rinvio contenuto nell’art. 1165 c.c. sono quelle relative alla prescrizione estintiva. Il rinvio operato alle cause di sospensione ed interruzione incontra il limite della compatibilità (Cass. n. 9846/2003; n. 4837/1988; n. 323/1973).
Al contrario della sospensione che non annulla la rilevanza di quella parte del termine per l’usucapione che sia già decorso, l’interruzione opera più drasticamente, segnando il momento iniziale di un nuovo corso dell’usucapione, per il quale non si tiene alcun conto della situazione precedente (art. 2945, comma 1, c.c.). Di regola questo momento coincide con la data dell’atto interruttivo; ma se questo è costituito da una domanda giudiziale, l’interruzione dura sino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio (art. 2945, comma 2, c.c.). Se il giudizio si conclude con il riconoscimento del diritto del titolare, non per questo si può dire che il possesso, in ipotesi preesistente, sia di per sé incompatibile con il giudicato; tuttavia, il possessore non potrà invocare l’usucapione in forza della protrazione del suo possesso, se non a decorrere dal passaggio in giudicato. Si deve fare salva l’ipotesi, secondo le norme generali, di comportamenti, provenienti dal possessore e comportanti il riconoscimento, anche implicito, del diritto del dominus. L’art. 1165 c.c., come già chiarito, estende all’usucapione, oltre alle norme generali sulla prescrizione, anche quelle relative alle cause di interruzione, tra le quali vi sono non soltanto quelle dovute ad un atto del titolare che sta per prescriversi, ma anche quelle derivanti da un atto di riconoscimento del diritto altrui da parte di chi sta per prescrivere (art. 2944 c.c.) (Cass. n. 1778/1970).
La giurisprudenza giudica con rigore i requisiti del riconoscimento. Ai fini della configurabilità del riconoscimento del diritto del proprietario da parte del possessore, idoneo ad interrompere il termine utile per il verificarsi dell’usucapione, ai sensi degli artt. 1165 e 2944 c.c., non è sufficiente un mero atto o fatto che evidenzi la consapevolezza del possessore circa la spettanza ad altri del diritto da lui esercitato come proprio, ma si richiede che il possessore, per il modo in cui questa conoscenza è rivelata o per fatti in cui essa è implicita, esprima la volontà non equivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare (Cass. n. 13211/1992; n. 18207/2004; n. 14654/2006; n. 15926/2016).
La relativa valutazione costituisce apprezzamento riservato al giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità quando è sorretto da una motivazione sufficiente e non contraddittoria (Cass. n. 20692/2006).
Si precisa che il riconoscimento del diritto altrui da parte di colui contro il quale il diritto può essere fatto valere non deve necessariamente essere recettizio, potendo risultare anche da una manifestazione tacita di volontà purché univoca, senza richiedere per la sua efficacia di essere indirizzato all’avente diritto, né tantomeno di essere da lui accettato (Cass. n. 4428/1985).
Si nota in dottrina che il riconoscimento potrebbe operare in modo assai più radicale di quanto faccia una semplice causa di interruzione, mettendo in evidenza il venir meno dell’ animus possidendi e, perciò, dello stesso possesso, indispensabile ai fini dell’usucapione. Sicché sarebbe del tutto fuori luogo pensare all’inizio di un nuovo termine di usucapione.
Il riconoscimento del diritto altrui, da parte del possessore, quale atto unilaterale non recettizio incompatibile con la volontà di godere del bene uti dominus (Cass. n. 6203/1991; n. 23420/2019), interrompe il termine utile per l’usucapione (artt. 1165 e 2944 c.c.), anche quando sia effettuato nei confronti di un soggetto diverso dal titolare del diritto stesso (Cass. n. 2842/1982; n. 6203/1991; n. 18207/2004).
4. La Corte d’appello ha riconosciuto che l’iniziale potere di fatto, conseguito da Ru. On. in forza della vendita intercorso con la Ma., integrava possesso. Il punto è incontroverso, così come sono incontroversi: a) l’interruzione del corso dell’usucapione per effetto della domanda giudiziale proposta dallo St. nel 1970; b) la cessazione dell’effetto interruttivo in concomitanza con il passaggio in giudicato della sentenza che ha ordinato il rilascio; c) la successione nel possesso degli eredi del possessore (art 1146 c.c.), d) il decorso di oltre venti anni dal passaggio in giudicato alla data di introduzione del giudizio da parte dello St..
È stato anticipato che il giudicato favorevole per il proprietario non trasforma, per ciò solo, il possessore in detentore, salvo il riconoscimento del diritto in favore di chi ha ottenuto il giudicato favorevole secondo la regola generale. Non si ha difficoltà ad ammettere che il comportamento del possessore, volto a far valere un credito verso il proprietario, derivante dal riconoscimento del diritto in favore di questo, costituisca un comportamento in linea di principio incompatibile con l’ animus rem sibi habendi (cfr. per una fattispecie analoga Cass. n. 26327/2016), tuttavia non è questa l’ipotesi realizzatasi nel caso in esame. La pretesa creditoria non è stata rivolta contro il proprietario, ma è stata fatta valere, in conseguenza dell’evizione, nei confronti del venditore. Secondo la Corte d’appello i comportamenti dei Ru., costituiti nell’opposizione all’omologazione del concordato fallimentare nel fallimento della venditrice e l’opposizione di terzo contro la sentenza di omologazione, sono «del tutto compatibili con la continuazione del possesso animo domino, giacché semplicemente significative della volontà di conseguire l’utilità economica scaturente dal riconoscimento giudiziale di una situazione creditoria, e non implicanti il riconoscimento attuale e inequivoco della titolarità del diritto domenicale».
Tenuto conto del principio sopra richiamato, e cioè che a causare l’interruzione non basta la dichiarazione di scienza, ma occorre la volontà che la controparte sia titolare, tali considerazione della Corte di merito non rilevano errori logici o giuridici. Infatti, nelle iniziative rivolte a tutelare, nei confronti del venditore a non domino i diritti derivanti dall’evizione, non è necessariamente implicita la volontà di attribuire il diritto al vero proprietario.
In ordine al fatto che la Corte d’appello non avrebbe considerato che i Ru. non inserirono i cespiti nella dichiarazione di successione del loro dante causa, la circostanza è priva di decisività. Il titolo formale di attribuzione del diritto era venuto meno a seguito della vicenda giudiziale. Il mancato inserimento nella dichiarazione fiscale è atto del tutto neutro ai fini che qui rilevano. Trattasi di scelta che esprimeva la consapevolezza del possessore circa l’altrui proprietà del bene, che, di per sé, non esclude il possesso utile per l’usucapione, per il quale non si richiede la buona fede (art. 1147 c.c.) (Cass. n. 1172/1980, n. 6818/1988; n. 10230/2002; n. 9671/2014).
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
Tenuto conto della natura della questione, in particolare la rarità di precedenti sulla ripresa del possesso dopo il giudicato favorevole per il proprietario, si ravvisa la sussistenza dei presupposti per compensare le spese di lite.
Ci sono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater d.P.R. n. 115/02, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del con-ima 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto”.
P.Q.M.
rigetta – il ricorso; dichiara interamente compensate le spese di lite; ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 1° luglio 2021