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Cassazione Civile 3736/2023 – Ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali – Rinuncia pattizia – Presupposti

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Ordinanza 3736/2023

Ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali – Rinuncia pattizia – Presupposti

In tema di ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, alla stregua dell’art. 7 del d.lgs. n. 231 del 2002 (nella formulazione antecedente alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 192 del 2012) – come interpretato dalla CGUE nella sentenza del 26 febbraio 2017, causa C-555/14 -, il creditore può rinunciare agli importi dovutigli a titolo di interessi moratori, a condizione che tale rinuncia si fondi su un consenso liberamente prestato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la nullità della suddetta rinuncia, in quanto liberamente espressa, nell’ambito di una transazione, relativamente a interessi di mora già maturati).

Cassazione Civile, Sezione 3, Ordinanza 8-2-2023, n. 3736   (CED Cassazione 2023)

Art. 1965 cc (Transazione) – Giurisprudenza

 

 

RILEVATO CHE:

1. Nel 2010, la società (OMISSIS) S.r.l. convenne in giudizio, dinanzi al Tribunale di Prato, l’Azienda USL, n. (OMISSIS) di Prato (oggi Azienda USL (OMISSIS)), chiedendo di dichiararsi nullo Decreto Legislativo n. 231 del 2002, ex art. 7, ovvero di annullarsi ex art. 1969 c.c., ovvero di dichiararsi risolto per inadempimento ex art. 1457 c.c., l’atto di transazione concluso in data 19.09.2005-05.10.2006 e ogni ulteriore atto transattivo e/o di rinuncia relativamente alla percezione di interessi legali o moratori sottoscritto tra l’attrice e la convenuta con riferimento ad una serie di fatture allegate all’atto di citazione; per l’effetto, applicarsi i termini legali, ovvero ricondursi ad equità i contenuti dell’accordo e, quindi, condannarsi la convenuta al pagamento di interessi moratori di legge.

A sostegno della propria pretesa, l’attrice sosteneva di esercitare l’attività di fornitura di prodotti medicali alla AUSL (OMISSIS); che l’attrice aveva puntualmente adempiuto ai propri obblighi, fornendo regolarmente i prodotti richiesti dalla convenuta; che quest’ultima invece aveva adempiuto sempre con cospicuo ritardo, provocando ingenti perdite economiche alla società attrice; che tuttavia, al fine di favorire il permanere nel tempo del rapporto con la convenuta, si era vista costretta a sottoscrivere l’atto di transazione impugnato; che tale atto doveva ritenersi gravemente iniquo ai sensi del Decreto Legislativo n. 231 del 2002, art. 7, poichè teso a procurare liquidità aggiuntiva all’Azienda debitrice a spese del creditore; che la convenuta aveva perdurato nei gravi ritardi di pagamento di ogni successiva fattura.

Si costituì l’Azienda sanitaria convenuta, chiedendo di rigettarsi tutte le domande attorce in quanto infondate in fatto e in diritto. Dedusse in particolare che, con Delib. Giunta Regionale della Toscana n. 455 del 2006, aveva attivato una procedura tesa al pagamento di tutti i crediti vantati dai fornitori del SSN; che la procedura prevedeva il pagamento di tutte le fatture emesse sino alla data del (OMISSIS) entro il (OMISSIS), la certificazione dei crediti vantati dai fornitori alla data suddetta da parte delle ASL, al fine della richiesta alla Regione della cassa necessaria al pagamento dei debiti, e la sottoscrizione, tra le ASL, e i creditori, di un apposito atto transattivo nel quale i fornitori dichiarassero la propria disponibilità all’annullamento delle richieste di interessi passivi già emesse e l’impegno a non richiedere interessi passivi sulle fatture oggetto di pagamento tramite la procedura in questione; che tale Delibera era stata assunta non solo per finalità di pubblico interesse, ma anche al fine di evitare che i crescenti ritardi nei pagamenti delle aziende fornitrici potessero creare problemi al sistema economico e alle piccole e medie imprese; che pertanto la società attrice non era stata costretta ad assoggettarsi all’accordo transattivo, nè lo stesso poteva ritenersi gravemente iniquo.

Il Tribunale di Prato, con sentenza n. 23/2014, rigettò la domanda della (OMISSIS) srl.

Quanto alla domanda di declaratoria di nullità della transazione per violazione del Decreto Legislativo n. 231 del 2002, art. 7, il Giudice di primo grado escluse l’iniquità dell’accordo, evidenziando che lo stesso era stato adottato a seguito di Delibera della Giunta regionale avente l’obiettivo di estinguere progressivamente le pendenze del SSN nei confronti dei fornitori privati, previa rinuncia di questi ultimi alla pretesa di interessi moratori, e quindi era rispondente a finalità di interesse pubblico.

Il Tribunale ritenne del pari infondata la domanda di annullamento, in quanto l’attrice non poteva non essere a conoscenza della Delibera della Giunta, i cui estremi e contenuti erano riportati nella premessa dell’atto di transazione e che comunque era pubblicata nel BURT.

Con riferimento alla domanda di risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1457 c.c., il Giudice ritenne che l’attrice, accettando il pagamento avvenuto a distanza di pochi giorni dal termine del 30.9.2006 senza eccepire alcunchè, avesse manifestato per fatti concludenti la volontà di dare comunque esecuzione all’accordo negoziale, essendo tale condotta incompatibile con l’intenzione di avvalersi della clausola del termine essenziale, anche alla luce dell’obbligo di buona fede contrattuale.

2. La sentenza è stata confermata dalla Corte di Appello di Firenze con la sentenza n. 1294/2019, depositata il 29 maggio 2019.

La Corte ha innanzitutto respinto l’impugnazione della (OMISSIS) srl nella parte in cui lamentava che il Tribunale non si fosse pronunciato sull’intero oggetto della domanda, rilevando che la richiesta di declaratoria di nullità relativa a “ogni ulteriore atto transattivo o di rinuncia” sottoscritto tra le parti era generica e indeterminata, attesa la mancata produzione o specificazione di tali ulteriori atti, e che l’appellante non aveva fornito alcuna indicazione in ordine alla determinazione dell’importo richiesto. Nè in merito potevano sopperire i mezzi istruttori richiesti (esibizione documentale e ctu contabile) in quanto puramente esplorativi.

La Corte territoriale ha poi osservato che, come già affermato dal Giudice di primo grado, non emergeva alcuna ragione di iniquità dell’accordo transattivo sottoscritto inter pades, mancandone i presupposti individuati dal Decreto Legislativo n. 231 del 2002, art. 7 (nella versione applicabile ratione temporis). Infatti, da un lato, sussistevano ragioni oggettive che giustificavano l’accordo, date dalle problematiche finanziarie dell’ente. Dall’altro lato, l’accordo non poteva dirsi ispirato a volontà lucrative dell’ente pubblico di procurarsi liquidità aggiuntiva, ma era volto a riequilibrare i pagamenti in favore del soggetto creditore, prevedendo il versamento in un’unica soluzione dei debiti scaduti e il pagamento nei termini dei successivi debiti. La rinuncia agli interessi moratori costituiva quindi un accordo delle parti in deroga alla disciplina del Decreto Legislativo n. 231 del 2002, ammesso in base all’art. 5 dello stesso testo normativo.

La Corte di Firenze ha poi ritenuto inammissibile il motivo di appello avverso la pronuncia di rigetto della domanda di annullamento della transazione de qua, con cui si sosteneva che l’errore che avrebbe giustificato tale annullamento consisteva nell’aver l’appellante ritenuto che la Delibera della Giunta Regionale fosse un atto coercitivo.

Al riguardo, i giudici dell’appello hanno osservato che il motivo non investiva in alcun modo le argomentazioni spese dal primo Giudice, secondo cui era rilevante il solo errore di diritto sulla situazione costituente un presupposto della “res” controversa (e quindi un antecedente logico della transazione) e non anche quello ricadente su una questione oggetto di controversia.

Per le stesse ragioni, la Corte di merito ha ritenuto inammissibile il motivo d’appello relativo alla pronuncia di rigetto della domanda di risoluzione per violazione del termine essenziale. A fronte della motivazione del Tribunale, il quale aveva sottolineato come l’attrice avesse accettato il pagamento a pochi giorni di distanza dalla scadenza senza eccepire alcunchè, l’appellante si era limitata a negare di aver voluto rinunciare ad avvalersi del termine essenziale, senza nulla argomentare in ordine al fatto che la rinuncia potesse assumere forma implicita.

3. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione, sulla base di quattro motivi, la (OMISSIS) S.r.l.u., intervenuta nel processo ex art. 110 c.p.c., quale socio unico della cessata (OMISSIS) S.r.l..

3.1. Resiste con controricorso l’Azienda USL (OMISSIS), che ha presentato anche memoria.

CONSIDERATO CHE:

4.1. Con il primo motivo di ricorso, parte ricorrente impugna la sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omessa pronuncia, e ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non aver la Corte d’appello disposto la ctu richiesta nonostante fosse l’unico o il principale mezzo di accertamento e/o di valutazione sul piano tecnico dei fatti allegati dalla parte.

La dichiarazione di nullità dell’accordo transattivo avrebbe comportato il riconoscimento degli interessi di mora con esso rinunciati, relativi solo alle 23 fatture ad esso allegate (relative al periodo da (OMISSIS)). Tuttavia, una parte del petitum sarebbe consistito nella condanna della AUSL di Prato agli interessi legali e moratori maturati a causa del ritardo nel pagamento di un numero maggiore di fatture (complessivamente 146, relative al periodo dal (OMISSIS)), indicate in un elenco allegato all’atto di citazione, che conteneva anche l’importo, le date di emissione, di scadenza e di pagamento di ciascuna fattura, e che non era mai stato contestato dalla controparte.

Pertanto, il giudice avrebbe avuto a disposizione tutti gli elementi per valutare la fondatezza della domanda o, comunque, avrebbe dovuto ammettere la richiesta ctu contabile al fine di verificare, sulla base di tali elementi, la correttezza dei conteggi.

Il motivo è infondato.

Innanzitutto non sussiste il vizio di omessa pronuncia, avendo la Corte d’appello affrontato, rigettandola, la doglianza con cui la società ricorrente sosteneva che il Giudice di primo grado non si fosse espresso sull’intero oggetto della domanda.

Sul punto, i giudici dell’appello hanno infatti evidenziato che la (OMISSIS) aveva chiesto la declaratoria di nullità dell’atto di transazione del 2005-2006 e di “ogni ulteriore atto transattivo o di rinuncia sottoscritto tra le parti”, ma che tali ulteriori atti transattivi non erano stati prodotti nè individuati, con conseguente genericità della domanda sul punto.

Inoltre, la Corte d’appello ha ritenuto corretto il rigetto della domanda dell’importo complessivamente richiesto a titolo di interessi moratori, non risultando fornita alcuna giustificazione in merito alla quantificazione dello stesso importo e non potendosi supplire a tale mancanza attraverso i mezzi di prova richiesti (ordine di esibizione e ctu contabile), che sarebbero stati puramente esplorativi

Al riguardo, va evidenziato ulteriormente che, a fronte della contestazione della pretesa della (OMISSIS) da parte della AUSL, la mera produzione in allegato all’atto di citazione di un elenco di fatture è del tutto inidoneo a fornire la prova del credito, non rientrando tale documento nemmeno tra le scritture contabili dell’impresa cui la legge attribuisce valore ai fini dell’emissione di decreto ingiuntivo, nei limiti di cui all’art. 634 c.p.c..

Nè, come vorrebbe la ricorrente, si verte in un’ipotesi in cui l’accertamento dei fatti dedotti in giudizio sarebbe possibile soltanto mediante l’esperimento di indagini supportate da specifiche competenze tecniche. Pertanto, correttamente i giudici dell’appello hanno respinto la richiesta di ctu contabile, che avrebbe avuto natura esplorativa, andando a supplire all’inerzia dell’attrice nell’offrire la prova del suo supposto credito.

4.2.Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1343, 1344, 1418, 1965 c.c. e del Decreto Legislativo n. 231 del 2002, artt. 5 e 7.

Lamenta che l’atto transattivo impugnato non sarebbe stato frutto di libera contrattazione ma sarebbe stato unilateralmente imposto dalla P.A. a tutte le imprese fornitrici, come condizione per saldare in tempi ragionevoli i debiti risultanti al 28 febbraio 2006. Ciò emergerebbe dalle premesse dell’atto, in cui non si faceva alcun riferimento alla tutela delle ragioni dell’azienda fornitrice, e dal fatto che il contenuto fosse già stato predisposto.

Contrariamente a quanto affermato dalla Corte d’appello, dalle premesse dell’atto di transazione emergerebbe in maniera palese che il sistema sanitario toscano cercava di imporre ai fornitori soluzioni contrattuali illegittime, lucrando sulla rinuncia da parte degli stessi agli interessi di mora onde ottenere per tale via liquidità aggiuntiva a spese dei creditori.

Un eventuale accordo in deroga potrebbe prevedere termini o misura degli interessi diversi rispetto a quelli previsti dal Decreto Legislativo n. 231 del 2002, ma non la rinuncia totale degli interessi, che sarebbe gravemente iniqua ai sensi dell’art. 7 del medesimo testo normativo.

La transazione sottoscritta tra le parti sarebbe inoltre nulla per mancanza di causa, non sussistendo l’elemento delle reciproche concessioni. L’ente pubblico, infatti, si era impegnato ad effettuare il pagamento di fatture che erano comunque scadute e che dovevano in ogni caso essere pagate nel più breve tempo possibile, a prescindere la transazione. Nè nel caso di specie sussisterebbe una situazione giuridica controversa non essendovi incertezza circa il credito della (OMISSIS).

Il motivo è infondato, ma la motivazione della Corte d’appello deve essere corretta.

Il Decreto Legislativo n. 231 del 2002, ha dato attuazione alla direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Nel 16 considerando della direttiva si legge che: “I ritardi di pagamento costituiscono una violazione contrattuale resa finanziariamente attraente per i debitori nella maggior parte degli Stati membri per i bassi livelli dei tassi degli interessi di mora e/o dalla lentezza delle procedure di recupero. Occorre modificare decisamente questa situazione anche con un risarcimento dei creditori, per invertire tale tendenza e per far sì che un ritardo di pagamento abbia conseguenze dissuasive”. Nel 19 considerando si legge che: “La presente direttiva dovrebbe proibire l’abuso della libertà contrattuale in danno del creditore. Nel caso in cui un accordo abbia principalmente l’obiettivo di procurare al debitore liquidità aggiuntiva a spese del creditore, o nel caso in cui l’appaltatore principale imponga ai propri fornitori o subappaltatori termini di pagamento ingiustificati rispetto ai termini di pagamento ad esso concessi, si può ritenere che questi elementi configurino un siffatto abuso”.

Il legislatore del 2002, nel recepire la direttiva di tutela rafforzata del creditore ha perseguito tale obiettivo seguendo tre direttrici principali: termini di pagamento predeterminati con una forte limitazione alla eventuale deroga pattizia; automatica decorrenza degli interessi senza bisogno dell’atto formale di costituzione in mora; la misura del saggio degli interessi per il ritardato pagamento pari al tasso di riferimento della Banca centrale Europea maggiorato di sette punti e, anche in questo caso, possibilità di deroga pattizia al saggio previsto.

Successivamente la dir. 2011/7/UE, prima, e il Decreto Legislativo n. 192 del 2012, poi, hanno – in parte – modificato la disciplina sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Per quel che in questa sede rileva, l’art. 5 ha previsto che “nelle transazioni commerciali tra imprese è consentito alle parti di concordare un tasso di interesse diverso ma con esplicito riferimento ai limiti previsti dall’art. 7”. Il nuovo art. 7, a sua volta, ha, da un lato, incluso espressamente la deroga al tasso degli interessi moratori tra le clausole nulle in caso di loro grave iniquità, dall’altro ha previsto che la clausola che esclude l’applicazione di interessi di mora si presume gravemente iniqua e non è ammessa prova contraria.

Dal 2012, dunque, è stato espressamente previsto un limite all’autonomia contrattuale anche per la derogabilità della debenza degli interessi moratori, prevedendo testualmente la nullità della clausola che esclude l’applicazione di interessi di mora.

Occorre pertanto verificare se, come ritenuto dalla Corte d’Appello, il Decreto Legislativo n. 231 del 2002, art. 5, nella precedente formulazione, consentisse, oltre che di derogare al saggio previsto per gli interessi moratori, anche di escluderne pattiziamente l’applicazione, oppure se la clausola pattizia di deroga fosse soggetta ai suddetti limiti già nel regime precedente le modifiche intervenute nel 2012.

L’art. 7, comma 1, nella precedente formulazione prevedeva che l’accordo sulla data del pagamento, o sulle conseguenze del ritardato pagamento, è nullo se, avuto riguardo alla corretta prassi commerciale, alla natura della merce o dei servizi oggetto del contratto, alla condizione dei contraenti ed ai rapporti commerciali tra i medesimi, nonchè ad ogni altra circostanza, risulti gravemente iniquo in danno del creditore.

Alla luce del testo del suddetto art., appare preferibile l’interpretazione che riconosce continuità tra vecchia e nuova formulazione delle norme in esame. Infatti, è del tutto evidente che la principale conseguenza del ritardato pagamento sia l’obbligo di pagare gli interessi e, dunque, l’esclusione di un tale obbligo doveva necessariamente rientrare tra le clausole suscettibili di valutazione di grave iniquità anche prima delle modifiche introdotte con il Decreto Legislativo n. 192 del 2012 (cfr. per quanto riguarda l’ipotesi di deroga al saggio degli interessi Cass. civ., Sez. II, 19/05/2022, n. 16273).

Tuttavia, nel caso di specie, la suddetta disciplina normativa deve essere interpretata tenendo conto di quanto stabilito dalla Corte di Giustizia nella sentenza IOS Finance EFC del 16 febbraio 2017. In tale occasione, la Corte Ue ha evidenziato che lo scopo dell’art. 7 della direttiva 2011/7 – il quale, per le transazioni commerciali, prevede che qualsiasi clausola contrattuale o prassi che escluda l’applicazione degli interessi di mora si debba considerare gravemente iniqua – è di evitare che la rinuncia da parte del creditore agli interessi di mora o al risarcimento per i costi di recupero non intervenga a partire dalla conclusione del contratto, vale a dire nel momento in cui si esercita la libertà contrattuale del creditore e vi è il possibile rischio di un abuso di tale libertà da parte del debitore a danno del creditore.

Per contro, qualora le condizioni previste dalla direttiva 2011/7 siano soddisfatte e gli interessi di mora nonchè il risarcimento per i costi di recupero siano esigibili, il creditore, tenuto conto della sua libertà contrattuale, deve rimanere libero di rinunciare agli importi dovuti a titolo di tali interessi e del risarcimento, in particolare quale corrispettivo del pagamento immediato del capitale.

I giudici Europei ammettono quindi che il creditore possa rinunciare agli importi dovuti a titolo di tali interessi e del risarcimento, ma una simile rinuncia è subordinata alla condizione che il consenso sia stato effettivamente libero. Spetta pertanto al giudice nazionale verificare se il creditore avrebbe realmente potuto disporre di tutti i mezzi di ricorso effettivi per richiedere (se lo avesse voluto) il pagamento del suo intero credito, ivi compresi gli interessi di mora.

Nel caso di specie, contrariamente a quanto sostiene la ricorrente, i creditori della AUSL di Prato erano liberi di aderire all’accordo transattivo in questione ovvero di procedere giudizialmente al recupero del proprio intero credito.

Ciò emerge anche dall’atto introduttivo del giudizio, nel quale la (OMISSIS) affermava di aver sottoscritto l’accordo transattivo “al fine di favorire il permanere nel tempo del rapporto con la convenuta”.

Occorre pertanto concludere che non è configurabile la nullità della transazione per violazione del Decreto Legislativo n. 231 del 2002, art. 7, in quanto tale norma – concernente la nullità delle clausole disciplinanti la previsione e la determinazione degli interessi – non è idonea ad incidere sulla validità della transazione che comporti la libera rinuncia da parte dell’avente diritto agli interessi già maturati ed esigibili.

Peraltro, contrariamente a quanto sostiene la ricorrente, la rinuncia agli interessi moratori può costituire una concessione nell’ambito dell’accordo transattivo, con conseguente infondatezza anche della censura di nullità della transazione per difetto di causa.

4.3. Con il terzo motivo di ricorso, la ricorrente censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nonchè ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con riferimento al motivo di appello relativo al mancato annullamento della transazione ex art. 1969 c.c..

Si duole che la Corte d’appello abbia pronunciato l’inammissibilità di tale motivo senza indicare sotto quale aspetto ha ritenuto inammissibile e comunque al di fuori delle ipotesi previste dalla legge.

Lamenta che in ogni caso, la Corte ha errato nel ritenere che la doglianza riguardasse un errore su una questione controversa tra le parti, atteso che in realtà la questione della vincolatività o meno della Delibera regionale non è stata oggetto di controversia, investendo un presupposto della stessa controversia.

Deduce che il legale rappresentante della (OMISSIS) aveva erroneamente ritenuto di essere costretto, in virtù di tale Delibera, a sottoscrivere la transazione per ottenere il pagamento della somma capitale dovuta. Tale erronea convinzione sarebbe stata la ragione unica che aveva indotto la (OMISSIS) a stipulate il contratto e sarebbe stata riconoscibile dalla AUSL, la quale la avrebbe anzi indotta, dando atto nelle premesse dell’accordo transattivo di una asserita “necessità” alla stipula di tale accordo per ottenere il pagamento delle fatture.

Il motivo è inammissibile.

L’art. 1969 c.c., con la formula “la transazione non può essere annullata per errore di diritto relativo alle questioni che sono state oggetto di controversia tra le parti” pone una limitazione al principio generale dettato in materia di contratti dell’art. 1429 c.c., n. 4, a tenore del quale l’errore di diritto è rilevante quando sia stata la ragione unica o principale del contratto.

Tale limitazione si giustifica in base alla peculiarità del contratto transattivo. In esso, l’errore non è una situazione anomala ma è un elemento naturale posto che, se sussiste la “res controversa”, una delle parti ha “torto” e quindi “erra” nel valutare gli aspetti giuridici della questione. Viene così in rilievo la distinzione tra “caput controversum” (quanto è oggetto della lite) e “caput non controversum” (quanto ne costituisce il presupposto considerato pacifico). Ne consegue la rilevanza dell’errore su questo “presupposto”, in quanto estraneo al contrasto che con la transazione si intende comporre (Cass. civ., Sez. II, 06/08/1997, n. 7219; Cass., 3/4/2003, n. 5141; Cass., 2/8/2007, n. 17015. Cfr. altresì Cass., 14/1/2005, n. 690).

Nel caso in esame, la questione della portata vincolante della Delibera della Giunta regionale – ovvero se la stessa imponesse ai creditori delle AUSL, al fine di ottenere il pagamento del proprio credito, di sottoscrivere l’accordo transattivo contenente la rinuncia agli interessi moratori – non ha costituito oggetto di controversia tra le parti.

L’unica questione che le stesse parti hanno regolato con la transazione riguardava la debenza degli interessi moratori.

Il lamentato errore circa la portata giuridica della Delibera non investe in alcun modo un presupposto della transazione. La portata della Delibera era chiara e il giudice del merito l’ha valutata ed ha ritenuto che si era fuori dall’ambito degli atti coercitivi. Pertanto, al di là della forma il ricorrrente richiede una nuova valutazione di fatto su cui si è già espresso il giudice di merito e non sindacabile in questa sede.

4.4. Con il quarto motivo di ricorso, la ricorrente censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per aver la Corte d’appello dichiarato erroneamente la rinuncia implicita dell’appellante ad avvalersi del termine essenziale.

Secondo la ricorrente, non si può sostenere l’esistenza di una rinuncia tacita per non aver la (OMISSIS) srl, sollevato contestazioni circa il ritardo atteso che la stessa società ha addirittura promosso un giudizio, chiedendo la risoluzione per violazione del termine essenziale.

Il pagamento della somma oggetto di transazione riguardava fatture già emesse per prestazioni eseguite da tempo e la (OMISSIS) srl non avrebbe potuto rinunciare a ricevere il prezzo di forniture solo per far acclarare l’inadempimento alla transazione. La (OMISSIS) srl ha pertanto accettato il pagamento in quanto comunque dovuto, a prescindere dalla risoluzione di transazione.

Il motivo è infondato.

La giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo in più occasioni di esprimersi nel senso che la rinuncia al termine essenziale, anche dopo la sua scadenza successiva ai tre giorni di cui all’art. 1457 c.c., ben può assumere forma implicita e risultare da atti univoci ed indicativi della circostanza che il creditore, accettando l’adempimento tardivo del debitore, abbia ritenuto più conforme ai propri interessi l’esecuzione del contratto che non la risoluzione di diritto del medesimo (Cfr. Cass., 5/7/2013, n. 16880; Cass., 4/2/2009, n. 2720; Cass. civ., Sez. Il, 03/07/2000, n. 8881; Cass. civ., 3/9/1998 n. 8733).

Nella specie la Corte di appello, con compiuta ed ineccepibile motivazione, incensurabile in questa sede in quanto relativa ad una questione in fatto, ha ritenuto che il comportamento della (OMISSIS), che aveva accettato il pagamento oltre il termine senza alcuna eccezione relativa al ritardo, abbia nella specie integrato una rinuncia implicita all’essenzialità del termine, e quindi alla possibilità di chiedere la risoluzione di diritto dell’accordo transattivo.

Nè, ovviamente, potrebbe rilevare, quale eccezione, la circostanza che, quasi quattro anni dopo il suddetto pagamento, la società abbia promosso il presente giudizio per ottenere la risoluzione per violazione del termine essenziale.

5. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo seguono la soccombenza.

6. Infine, poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono i presupposti processuali (a tanto limitandosi la declaratoria di questa Corte: Cass. Sez. U. 20/02/2020, n. 4315) per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. n. 115 del 2002 (e mancando la possibilità di valutazioni discrezionali: tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra le innumerevoli altre successive: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) – della sussistenza dell’obbligo di versamento, in capo a parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità in favore della controricorrente che liquida in complessivi Euro 4.200,00 di cui Euro 200 per esborsi, oltre ad accessori di legge e spese generali.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della 1. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 -bis del citato art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte suprema di Cassazione in data 22 settembre 2022.