Sentenza 38054/2022
Impugnazioni – Interesse ad agire di cui all’art. 100 cpc
In tema di impugnazioni, l’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c. postula la soccombenza nel suo aspetto sostanziale, correlata al pregiudizio che la parte subisca a causa della decisione da apprezzarsi in relazione all’utilità giuridica che può derivare al proponente il gravame dall’eventuale suo accoglimento.(In attuazione del predetto principio, la S.C. ha confermato la pronuncia di merito che, nell’ambito di un giudizio elettorale, aveva ritenuto che il ricorrente avesse interesse ad impugnare la pronuncia di cessazione della materia del contendere, conseguente alle sue dimissioni dalla carica in contestazione di Sindaco, ritenendo che, per effetto dell’accoglimento dell’impugnazione, egli avrebbe potuto conseguire il risultato pratico favorevole del riesame del merito della controversia).
Giudizio elettorale – Dimissioni dalla carica in contestazione – Cessazione della materia del contendere
Nel giudizio elettorale le dimissioni dalla carica in contestazione (nella specie, si trattava della carica di Sindaco), ancorché non allegate dalle parti, possono determinare la dichiarazione officiosa della cessazione della materia del contendere, atteso che tale circostanza costituisce fatto notorio rilevabile d’ufficio, tenuto conto della peculiarità di tali giudizi ove l’interesse pubblico riveste un rilievo preminente rispetto a quello individuale dei litiganti, tanto da non potersi ritenere che essi siano governati interamente dal principio dispositivo, con conseguente riconoscimento di ampi poteri ufficiosi in capo al giudice.
Cassazione Civile, Sezione 1, Sentenza 29-12-2022, n. 38054 (CED Cassazione 2022)
Art. 100 cpc (Interesse ad agire) – Giurisprudenza
FATTI DI CAUSA
1. (OMISSIS) convenne in giudizio (OMISSIS), per sentirne dichiarare nulla l’elezione a Sindaco del Comune di Termini Imerese e pronunciarne la decadenza dalla carica, sostenendo che lo stesso versava nella condizione d’incandidabilità prevista dal Decreto Legislativo 31 dicembre 2012, n. 235, art. 10, lettera d), per essere stato condannato, con sentenza di patteggiamento emessa dal Giudice per le indagini preliminari di Palermo e passata in giudicato, alla pena di sedici mesi di reclusione per i delitti di truffa aggravata di cui all’art. 640 c.p., comma 2, n. 1, in continuazione con i reati previsti dagli artt. 480, 493 c.p. e art. 61 c.p., n. 2, commessi in qualità di mandatario per conto della S.I.A.E..
Si costituì il (OMISSIS), e resistette alla domanda, chiedendone il rigetto.
Si costituirono inoltre il Ministero dell’interno, la Prefettura di Palermo, l’Ufficio Elettorale Territoriale, l’Ufficio Centrale Elettorale, la Commissione Elettorale e l’Assessorato alle Autonomie Locali della Regione Siciliana, ed eccepirono il proprio difetto di legittimazione passiva.
Spiegarono intervento nel giudizio (OMISSIS), (E ALTRI OMISSIS)
1.1. Il giudizio fu successivamente riunito a quello separatamente promosso da (OMISSIS), (E ALTRI OMISSIS)
1.2. Con ordinanza del 9 gennaio 2018, il Tribunale di Termini Imerese dichiarò il difetto di legittimazione passiva del Ministero dell’interno, della Prefettura, dell’Ufficio Elettorale Territoriale, dell’Ufficio Centrale Elettorale, della Commissione Elettorale e dell’Assessorato alle Autonomie Locali, e rigettò i ricorsi.
2. L’impugnazione proposta dal (OMISSIS), dal (OMISSIS), dal (OMISSIS) e dal (OMISSIS) è stata parzialmente accolta dalla Corte d’appello di Palermo, che con sentenza del 10 luglio 2020 ha dichiarato cessata la materia del contendere.
Premesso che nelle more del giudizio il (OMISSIS) aveva rassegnato le dimissioni dalla carica di Sindaco, e precisato di avere per tale ragione rinviato l’udienza di discussione, in modo da consentire alle parti di dedurre in ordine all’incidenza della predetta circostanza, la Corte ha rilevato che in memoria il (OMISSIS) si era limitato ad eccepire l’omessa formalizzazione di tale sopravvenienza, senza tuttavia negarla, nonchè a precisare che alle dimissioni non aveva fatto seguito il subentro del (OMISSIS) nelle funzioni di Sindaco, ma la nomina di un Commissario straordinario, incaricato d’indire nuove elezioni.
Ciò posto, e ritenuto che le parti non avessero più alcun interesse alla decisione, la Corte ha affermato di dover ugualmente esaminare la controversia, ai fini della valutazione della soccombenza virtuale. In proposito, ha osservato che del Decreto Legislativo n. 235 del 2012, art. 10, lettera d), non richiede in alcun modo che per i reati per i quali è stata riportata la condanna sia stata contestata l’aggravante di cui all’art. 69 c.p., o che si tratti di reati aventi come elementi costitutivi l’abuso dei poteri o la violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio, ma si limita a fare riferimento a reati comunque commessi, nella loro materialità, con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio. Precisato che l’abuso dei poteri o la violazione dei doveri sussiste se la commissione del fatto è stata anche soltanto agevolata dalle qualità soggettive dell’agente, ha rilevato che nella specie le condotte criminose contestate al (OMISSIS) erano state commesse approfittando della qualità di mandatario della SIAE, che gli aveva consentito di venire in possesso di somme di denaro spettanti all’Ente. Ha ritenuto tali considerazioni estensibili anche ai reati di falso, commessi nella medesima qualità, precisando che in riferimento agli stessi la violazione dei doveri inerenti al pubblico servizio era in re ipsa, in quanto compresa nella materialità del reato. Ha aggiunto che, trattandosi in entrambi i casi di reati riconducibili alla fattispecie di cui dell’art. 10, lettera d), occorreva prendere in considerazione la pena detentiva complessivamente comminata con la sentenza penale di patteggiamen-to, che risultava superiore a sei mesi di reclusione, concludendo pertanto per la fondatezza della domanda.
3. Avverso la predetta sentenza il (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi. Il (OMISSIS), il (OMISSIS), il (OMISSIS) ed il (OMISSIS) hanno resistito con controricorso, illustrato anche con memoria. Il Ministero dell’interno ha resistito mediante il deposito di un atto di costituzione, ai fini della partecipazione alla discussione orale. Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.
Con ordinanza interlocutoria del 14 gennaio 2022, il ricorso, già avviato alla trattazione in Camera di consiglio, è stato rinviato alla pubblica udienza, ai fini dell’approfondimento delle seguenti questioni: a) entro quali limiti l’intervenuta cessazione della materia del contendere possa essere rilevata dal giudice d’ufficio, anche in appello, a fronte di fatti che non risultino documentati ex actis, b) se l’intervenuta cessazione della materia del contendere possa essere desunta dal notorio, e se la Corte di cassazione possa qualificare come notorio un fatto che il giudice di merito non abbia qualificato come tale.
Per la decisione del ricorso, questa Corte ha peraltro proceduto in Camera di consiglio, senza l’intervento del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, ai sensi del Decreto Legge 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8-bis, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, in combinato disposto con il Decreto Legge 30 dicembre 2021, n. 228, art. 16, comma 1 (che ne ha prorogato l’applicazione alla data del 31 dicembre 2022).
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., rilevando che la Corte d’appello ha introdotto d’ufficio nel giudizio la circostanza di fatto delle sue dimissioni dalla carica di Sindaco, mai dedotta da alcuna delle parti, senza neppure indicare gli atti da cui ha desunto la relativa informazione.
2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 100 e 112 c.p.c., osservando che, nel dichiarare cessata la materia del contendere, la Corte d’appello non ha tenuto conto delle conclusioni rassegnate dalle parti, le quali confermavano la persistenza dell’interesse ad agire.
3. Non merita consenso, al riguardo, l’eccezione sollevata dalla difesa dei controricorrenti, secondo cui il ricorrente non ha interesse a censurare la dichiarazione di cessazione della materia del contendere, non potendo conseguire alcun risultato pratico favorevole per effetto dell’accoglimento dell’impugnazione, dal momento che, in caso di annullamento della predetta pronuncia, non potrebbe comunque evitare la dichiarazione d’incandidabilità alla carica di Sindaco.
In tema di impugnazioni, l’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c., postula infatti la soccombenza nel suo aspetto sostanziale, correlata al pregiudizio che la parte subisca a causa della decisione, e dev’essere quindi apprezzato in relazione all’utilità giuridica che può derivare al proponente il gravame dall’eventuale suo accoglimento (cfr. Cass., Sez. III, 29/05/2018, n. 13395; Cass., Sez. I, 12/04/2013, n. 8934; Cass., Sez. V, 4/04/2004, n. 6546). Nella specie, tale utilità dev’essere individuata nella riapertura del dibattito processuale in ordine all’incandidabilità del ricorrente, ricollegabile all’eventuale accoglimento delle censure mosse alla pronuncia di cessazione della materia del contendere, il cui annullamento imporrebbe di procedere al riesame del merito della controversia, rimasto impregiudicato per effetto della decisione di natura processuale adottata dalla Corte d’appello; nessun rilievo può assumere, in contrario, la circostanza che quest’ultima, dopo aver accertato il venir meno dell’interesse delle parti alla decisione, abbia riconosciuto la fondatezza della domanda, ai soli fini del regolamento delle spese processuali, trattandosi di una statuizione che, in quanto accessoria a quella di cessazione della materia del contendere, è destinata a restare automaticamente travolta, ai sensi dell’art. 336 c.p.c., comma 1, in caso di cassazione della statuizione principale.
4. I due motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto profili diversi della medesima questione, sono peraltro infondati.
In linea generale, questa Corte ha infatti affermato che la cessazione della materia del contendere, incidendo sul diritto sostanziale e rendendo superflua la decisione del giudice, impone a quest’ultimo di darne atto anche d’ufficio, tutte le volte che, indipendentemente da una formale rinuncia al giudizio o al merito delle pretese avanzate, i fatti da cui deriva risultino acquisiti agli atti. Essa non forma quindi oggetto di un’eccezione in senso stretto, e può essere rilevata in ogni stato e grado del giudizio, costituendo espressione di un potere il cui esercizio non è subordinato a una specifica e tempestiva allegazione della parte, purchè i fatti da cui emerge il venir meno dell’interesse delle parti alla decisione risultino documentati ex actis (cfr. Cass., Sez. II, 17/07/2020, n. 15309; 3/05/2017, n. 10728; Cass., Sez. VI, 4/05/2016, n. 8903). Tale principio ha trovato applicazione anche alle controversie in materia elettorale, con particolare riguardo all’ipotesi in cui nel corso del giudizio l’eletto sia cessato dalla carica per dimissioni, scioglimento dell’organo elettivo o scadenza del mandato elettorale: si è infatti osservato che, tanto nelle controversie riguardanti la legittimità delle operazioni elettorali quanto in quelle aventi ad oggetto la sussistenza dei requisiti di eleggibilità o candidabilità, la sopravvenuta cessazione dalla carica rende impossibile l’attuazione dell’eventuale statuizione di accoglimento della domanda, mediante la correzione del risultato delle elezioni e la sostituzione del candidato proclamato con quello illegittimamente escluso; si è quindi ritenuto che le predette circostanze comportino il venir meno dell’interesse alla decisione, rilevabile anche d’ufficio, ed impongano la dichiarazione di cessazione della materia del contendere, anche se l’evento che l’ha determinata emerga nel corso del giudizio di legittimità (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. Un., 4/08/2010, n. 18047; Cass., Sez. I, 16/09/2009, n. 19988; 6/10/ 2008, n. 24642).
Nella specie, è pacifico che la cessazione della materia del contendere è stata dichiarata in virtù della rilevazione di una circostanza di fatto non risultante dagli atti nè allegata dalle parti, e cioè dell’intervenuta presentazione delle dimissioni da parte dell’appellante, che, avendo determinato la decadenza di quest’ultimo dalla carica di Sindaco del Comune di Termini Imerese, ha comportato, secondo la sentenza impugnata, il venir meno dell’interesse alla decisione in ordine alla sussistenza della denunciata causa d’incandidabilità alla medesima carica. L’introduzione della predetta circostanza ad iniziativa esclusiva della Corte d’appello si è tradotta, ad avviso del ricorrente, in una violazione del divieto della scienza privata, non esclusa dalla rilevabilità d’ufficio della cessazione della materia del contendere, la quale implica l’attribuzione al giudice soltanto del potere di conferire rilevanza a determinati fatti modificativi, estintivi o impeditivi, ma non fa venire meno la necessità che gli stessi risultino legittimamente acquisiti al processo.
In realtà, il divieto della scienza privata, posto dall’art. 97 disp. att. c.p.c., attiene all’impiego di quelle nozioni particolari, estranee al patrimonio di conoscenza della collettività, la cui utilizzazione da parte del giudice, sulla base d’informazioni attinte da fonti esterne al processo, deve ritenersi esclusa, comportando un’alterazione della posizione di terzietà ed imparzialità dell’organo giudicante, nonchè una lesione del diritto di difesa delle parti. Le dimissioni dell’eletto dalla carica di Sindaco, configurandosi come un fatto acquisito alle conoscenze dell’uomo medio o della collettività, con un grado di certezza tale da risultare incontestabile, quanto meno nella località in cui si sono svolte le elezioni, sono semmai riconducibili alla nozione di fatto notorio, la cui utilizzazione da parte del giudice deve ritenersi consentita ai sensi dell’art. 115 c.p.c., comma 2, in deroga al principio dispositivo ed al contraddittorio (cfr. Cass., Sez. II, 16/12/2019, n. 33154; Cass., Sez. III, 20/03/2019, n. 7726; Cass., Sez. I, 19/03/2014, n. 6299).
Nel caso in esame, d’altronde, la rilevazione d’ufficio della predetta circostanza non ha pregiudicato in alcun modo l’esercizio del diritto di difesa da parte del ricorrente, avendo la Corte d’appello provveduto, prima di dichiarare la cessazione della materia del contendere, a provocare il contraddittorio tra le parti in ordine alla rilevata sopravvenienza delle dimissioni dalla carica, mediante la fissazione di una nuova udienza collegiale, in vista della quale ha invitato le parti ad interloquire in ordine all’incidenza di tale evento sulla prosecuzione del giudizio. Quanto invece alla violazione del principio dispositivo asseritamente conseguente alla mancanza di un’allegazione di parte, anche a voler ritenere, conformemente ad alcuni isolati precedenti di legittimità, che in linea generale il ricorso al notorio comporti la dispensa delle parti soltanto dall’onere della prova, e non anche da quello dell’allegazione del fatto (cfr. Cass., Sez. V, 4/12/2020, n. 27810; Cass., Sez. II, 26/03/1999, n. 2878), l’individuazione dei margini d’intervento spettanti all’organo giudicante nel caso in esame non può prescindere dalla considerazione delle particolari caratteristiche dei giudizi in materia elettorale, e segnatamente del rilievo preminente che negli stessi riveste l’interesse pubblico rispetto a quello individuale dei litiganti, nonchè del conseguente riconoscimento di ampi poteri ufficiosi in favore del giudice: in tali giudizi, la posizione soggettiva dell’eletto trova infatti tutela in ragione non già di una sua astratta capacita a conseguire o a conservare la carica elettiva, ma della necessità d’identificare il soggetto legittimato ad impersonare o a comporre l’organo, sulla base delle regole che ne disciplinano l’elezione, in modo tale da consentire all’organo di funzionare regolarmente (cfr. Cass., Sez. Un., 23/02/2001, n. 73; Cass., Sez. I, 12/11/2003, n. 17020; 15/02/1973, n. 466); in quanto strettamente congiunti con l’esercizio e la titolarità di diritti indisponibili, qualificati dalla Corte costituzionale come diritti fondamentali ed inviolabili, i giudizi in questione non possono ritenersi interamente governati dal principio dispositivo che caratterizza il giudizio civile ordinario, ma esigono un chiaro impulso ufficioso, capace di sopperire alle eventuali deficienze dovute alla negligente o addirittura carente difesa delle parti (cfr. Cass., Sez. I, 11/12/2007, n. 25946; 28/07/2004, n. 14199). Avuto riguardo a tali caratteristiche, nulla si oppone alla possibilità che il giudice, avvedutosi della sopravvenienza di fatti idonei ad escludere l’interesse pubblico sotteso alla decisione della controversia, sulla base di elementi di conoscenza attinti di propria iniziativa da informazioni diffuse nella comunità locale, dia atto dell’intervenuta cessazione di ogni ragione di contrasto tra le parti, chiudendo il giudizio con una pronuncia di carattere meramente processuale.
Non merita dunque censura la sentenza impugnata, nella parte in cui, nonostante la mancanza di un’allegazione in tal senso, ha dato atto dell’avvenuta presentazione delle dimissioni da parte del ricorrente, desumendone il venir meno dell’interesse delle parti alla decisione della controversia, e dichiarando pertanto cessata la materia del contendere. è pur vero che, nello attribuire rilievo alle predette dimissioni, la Corte territoriale ha omesso non solo d’indicare la fonte dalla quale ne ha tratto la conoscenza, ma anche di qualificare tale circostanza come fatto notorio: è noto peraltro che il ricorso al notorio costituisce oggetto di un potere discrezionale il cui esercizio, riservato giudice di merito, risulta sindacabile in sede di legittimità esclusivamente se sia stata posta a fondamento della decisione un’inesatta nozione del notorio, e non anche per inesistenza o insufficienza della motivazione, non essendo il giudice tenuto ad indicare gli elementi sui quali la determinazione si fonda (cfr. Cass., Sez. VI, 22/05/2019, n. 13715; Cass., Sez. I, 18/05/2007, n. 11643). A ciò si aggiunga che nei giudizi in materia elettorale questa Corte è giudice non solo di legittimità, ma anche di merito, e, disponendo di poteri di diretta cognizione dei fatti di causa, sia pure nell’ambito delle risultanze probatorie già acquisite nei precedenti gradi di giudizio (cfr. Cass., Sez. I, 17/02/2021, n. 4227; 18/10/2006, n. 22346; 27/03/2000, n. 3684), può provvedere essa stessa alla qualificazione del fatto come notorio, esercitando il relativo potere discrezionale indipendentemente dalla valutazione compiuta dal giudice d’appello.
Nessun ostacolo alla dichiarazione di cessazione della materia del contendere può essere infine ravvisato nella circostanza, fatta valere dal ricorrente, che le parti, invitate dalla Corte di merito ad interloquire in ordine all’incidenza delle dimissioni sullo svolgimento del giudizio, non abbiano concordato in ordine all’idoneità delle stesse a determinare il venir meno dell’interesse alla decisione, rassegnando conclusioni conformi: in mancanza di accordo tra le parti, la valutazione dell’incidenza del fatto sopravvenuto spetta infatti al giudice, il quale, ove ritenga che lo stesso abbia fatto venir meno ogni ragione di contrasto, lo dichiara, regolando le spese giudiziali in base al criterio della soccombenza virtuale, ed in caso contrario pronuncia sul merito della domanda (cfr. Cass., Sez. V, 16/03/2015, n. 5188; Cass., Sez. lav., 30/01/2014, n. 2063; Cass., Sez. III, 8/07/2010, n. 16150).
5. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione del Decreto Legislativo n. 235 del 2012, art. 10, lettera d), censurando la sentenza impugnata per aver attribuito rilevanza, sul piano elettorale, alla pena complessivamente applicata con la sentenza di patteggiamento, senza procedere alla suddivisione dell’aumento applicato ai sensi dell’art. 81 c.p., comma 2. Premesso inoltre che le limitazioni del diritto di elettorato passivo devono essere interpretate restrittivamente, afferma che la mancata contestazione dell’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 9, escludeva la configurabilità della fattispecie di cui all’art. 10, lettera d), cit., rilevando, in subordine, che la sentenza penale non conteneva alcun elemento idoneo ad evidenziare l’abuso dei poteri inerenti alla pubblica funzione.
5.1. Il motivo è infondato.
Correttamente, infatti, la sentenza impugnata ha ritenuto configurabile, nel caso in esame, la fattispecie di cui al Decreto Legislativo n. 235 del 2012, art. 10, comma 1, lettera d), in considerazione della pena detentiva unitariamente irrogata al ricorrente per il reato di cui all’art. 640 c.p., comma 2, n. 1, commesso in continuazione con quelli di cui agli artt. 480 e 493 c.p. e art. 61 c.p., n. 2, nella qualità di mandatario per conto della SIAE: il tenore letterale della norma in esame, ricollegando l’incandidabilità alle cariche elettive degli enti territoriali e locali indicati alla circostanza che l’eletto sia stato condannato alla pena della reclusione “complessivamente” superiore a sei mesi per “uno o più delitti” commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione, risulta infatti incompatibile con il frazionamento della pena tra il reato principale ed i reati c.d. satellite, effettuato dal Giudice di primo grado in virtù del richiamo ad un precedente della giurisprudenza penale di legittimità assolutamente inconferente, in quanto riguardante il computo dei termini di durata massima della custodia cautelare (cfr. Cass. pen., Sez. Un., 26/02/1997, n. 1). Nessun rilievo può assumere, in contrario, l’eterogeneità delle fattispecie criminose contestate ed accertate nel giudizio penale, alcune soltanto delle quali aventi come elemento costitutivo del fatto materiale la commissione ad opera di pubblici ufficiali o pubblici impiegati incaricati di un pubblico servizio, risultando le condotte unificate dal nesso di strumentalità intercorrente tra i reati di falso e quello di truffa aggravata dalla commissione in danno dell’ente pubblico.
Parimenti irrilevante deve ritenersi la circostanza che nel giudizio penale non sia stata accertata la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 9, la cui contestazione sarebbe risultata peraltro incompatibile con quella dei reati di cui agli artt. 480 e 493 c.p., già aventi come elemento costitutivo la commissione ad opera di un pubblico ufficiale o di un pubblico impiegato incaricato di un pubblico servizio, e quindi implicanti un abuso dei poteri o una violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione ed al pubblico servizio: condivisibile risulta, in proposito, il richiamo della sentenza impugnata al principio, enunciato dalla giurisprudenza di legittimità in riferimento all’incandidabilità prevista della L. 19 marzo 1990, n. 55, art. 15, comma 1, lettera c), e dal Decreto Legislativo 18 agosto 2000, n. 267, art. 58, comma 1, lettera c), aventi una formulazione pressocchè identica a quella del Decreto Legislativo n. 235 del 2012, art. 10, comma 1, lettera d), e recentemente ribadito anche in riferimento a quest’ultima disposizione, secondo cui la stessa reca una norma di chiusura, volta ad impedire l’esclusione dall’area della decadenza di comportamenti non specificamente previsti dalla lettera che la precede, ma ugualmente lesivi dell’interesse protetto, con la conseguenza che l’incandidabilità opera in riferimento ad ogni condotta che integri la componente materiale di una fattispecie criminosa autonoma ovvero una circostanza aggravante che si estrinsechi nell’abuso dei poteri o nella violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione (cfr. Cass., Sez. I, 7/10/2020, n. 21582; 14/02/2004, n. 2896; 27/07/2002, n. 11140). è stato infatti precisato che il giudice cui è devoluto l’accertamento della causa d’incandidabilità, pur essendo tenuto a verificare la sussistenza di tali estremi nel comportamento della persona di cui si tratta sulla base di quanto già accertato in sede penale, senza poter esperire ulteriori indagini di merito, deve stabilire se il fatto realizzi quell’abuso di poteri o quella violazione di doveri che costituisce componente dell’elemento oggettivo di una fattispecie delittuosa tipica ovvero di una circostanza aggravante di un delitto non immediatamente diretto alla tutela della Pubblica Amministrazione (cfr. Cass., Sez. I, 29/12/1999, n. 14707; 10/03/1999, n. 2065; 6/08/1998, n. 7697). Tale accertamento è stato puntualmente compiuto dalla sentenza impugnata, la quale, nel ritenere sussistente la causa d’incandidabilità, ha correttamente evidenziato che la violazione da parte del ricorrente dei doveri inerenti al pubblico servizio da lui esercitato nell’interesse della SIAE emergeva dallo stesso tenore dei capi d’imputazione relativi ai reati di truffa aggravata contestatigli, dai quali si evinceva che egli aveva profittato della qualità di mandatario dell’Ente, che gli aveva permesso di venire in possesso di somme di denaro spettanti a quest’ultimo, parte delle quali erano state da lui indebitamente trattenute mediante le false attestazioni contestate negli altri capi d’imputazione.
6. Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore dei controricorrenti, che liquidano come dal dispositivo.
Trattandosi di procedimento esente dal contributo unificato, non trova applicazione l’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Così deciso in Roma il 19/10/2022