Sentenza 3857/2016
Termine di prescrizione delle servitù negative e di quelle continue
Il termine di prescrizione delle servitù negative e di quelle continue, accomunate dalla peculiarità per cui il loro esercizio non implica lo svolgimento di alcuna specifica attività da parte del relativo titolare, decorre dal giorno in cui è stato compiuto un fatto impeditivo dell’esercizio del diritto medesimo.
Cassazione Civile, Sezione 2, Sentenza 26 febbraio 2016, n. 3857 (CED Cassazione 2016)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 30 giugno 2001 (OMISSIS) evocava, dinanzi al Tribunale di Cagliari, (OMISSIS) e premesso di essere proprietario dell’appartamento posto al primo piano della palazzina sita in (OMISSIS), per acquisto fattone dall’originario proprietario e costruttore dell’intero edificio, atto che prevedeva anche la costituzione di servitù di veduta in favore del suo immobile ed a carico delle aree circostanti l’intero stabile, assumeva che il convenuto, acquistato con atto del 24.5.1993 appartamento posto al piano rialzato, con annessa terrazza a livello e sottostante tratto di terreno destinato a cortile, avente sulla terrazza una copertura precaria, aveva apportato delle modifiche alla tettoia in questione, così impedendogli di esercitare il suo diritto di veduta dalla porta-finestra dell’appartamento di sua proprietà posto al piano superiore, oltre a non rispettare il disposto di cui all’art. 907 codice civile, per cui ne chiedeva la demolizione.
Instaurato il contraddittorio, nella resistenza del convenuto, il quale deduceva anche di avere usucapito, per possesso ultraventennale, il diritto a mantenere la copertura della terrazza, il giudice adito, espletata istruttoria, accoglieva la domanda attorea ritenendo la servitù di veduta in appiombo costituita per destinazione del padre di famiglia, non provata l’intervenuta usucapione, per essere stata la tettoia che impediva l’esercizio del diritto di servitù di veduta realizzata dal convenuto solo nel 2000, oltre ad essere posta a distanza non legale.
In virtù di rituale appello interposto dal (OMISSIS), con il quale lamentava la erroneità della decisione del giudice di prime cure che aveva riconosciuto una servitù di veduta in appiombo non contemplata dai rispettivi atti di acquisto, la Corte di appello di Cagliari, nella resistenza dell’appellato, accoglieva il gravame e per l’effetto – in riforma della sentenza impugnata – respingeva la domanda attorea per intervenuta prescrizione per non uso del diritto di servitù vantato.
A sostegno della decisione adottata la corte territoriale – precisato che l’appellante non aveva introdotto fatti nuovi con l’atto di gravame, ma semplicemente riformulate le originarie istanze – evidenziava che la tettoia per cui era controversia era stata realizzata, da un lato, quanto meno nel 1978, impedendo fin da subito la veduta, come conseguenza della sostituzione delle precedenti tavelle con un’unica lastra in policarbonato, mentre dall’altro lato, le modifiche apportate dall’appellante nel corso degli anni non avevano sostanzialmente mutato la situazione precedente all’acquisto del (OMISSIS), con la conseguenza che alla data dell’introduzione del giudizio (anno 2001) il diritto dell’attore era già prescritto per non uso ex art. 1073 codice civile, nei limiti precisati.
Avverso la indicata sentenza della Corte di appello di Cagliari ha proposto ricorso per Cassazione l’originario attore, articolato su tre motivi.
Scaduti i termini per la proposizione del controricorso, il (OMISSIS) ha depositato un “atto di costituzione” al solo fine dell’eventuale partecipazione alla discussione della causa.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo ed il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1073 codice civile, commi 1 e 2 e art. 2697 codice civile, nonchè dell’art. 115 codice procedura civile, commi 1 e 2, oltre a vizio di motivazione, per non avere la controparte provato che già con le originarie tavelle non era consentito l’esercizio della servitù di veduta e ciò nonostante la corte di merito ha ritenuto essere intervenuta la prescrizione sulla base di una circostanza di fatto non provata dalla controparte. In particolare, la corte distrettuale ha ritenuto che la circostanza della idoneità delle tavelle di ostacolare l’esercizio della servitù di veduta costituisse un fatto incontestabile e dunque un fatto notorio che a norma dell’art. 115 codice procedura civile, comma 2, giustificava la deroga al principio dispositivo delle prove.
Con il terzo mezzo il ricorrente nel denunciare la violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 codice civile, oltre che dell’art. 115 codice procedura civile, lamenta che la corte abbia seguito un ragionamento presuntivo al fine di ritenere accertata la prescrizione della servitù di veduta in questione.
Partendo le tre doglianze dal medesimo assunto relativo all’erroneo accertamento della intervenuta prescrizione della vantata servitù di veduta, seppure illustrato sotto diversi profili, ne è consentita la trattazione congiunta per la evidente connessione che le connota.
Esse sono infondate.
Secondo la prospettazione del ricorrente l’interpretazione fornita nella sentenza impugnata integrerebbe la violazione e falsa applicazione degli artt. 1073 e 2697 codice civile, poichè con essa – difformemente da quanto statuito con la sentenza di primo grado – non si sarebbe tenuto conto delle differenze strutturali (tanto per i presupposti quanto per gli effetti) intercorrenti tra i due tipi di copertura della tettoia che si erano succeduti nel tempo (prima costituita da tavelle frangisole – negli anni 70 – e poi modificata nel 2001 con una lastra continua in policarbonato non trasparente). Pertanto, con l’inizio dell’attività di ristrutturazione da parte dell’originario convenuto si era venuta a verificare l’impossibilità di uso della controversa servitù, con la conseguenza che, a partire da tale momento, si sarebbe dovuto ritenere che la servitù fosse entrata in uno stato di quiescenza, tale da sospendere il decorso del termine ventennale di prescrizione indicato nell’art. 1073 codice civile (che, perciò, nella fattispecie, non poteva dirsi maturato).
Le suesposte doglianze si risolvono in una serie di censure in fatto, che senza evidenziare alcuna carenza o illogicità della motivazione, nè effettive violazioni di principi sull’onere della prova ed in materia di estinzione delle servitù, rimettono in discussione, attaccandone singolarmente la varie componenti, un giudizio di merito che appare adeguatamente sorretto da un complesso di elementi concorrenti, attraverso i quali i giudici di appello sono pervenuti all’argomentata conclusione che la servitù non era stata esercitata per oltre un ventennio. Nell’ambito di tale valutazione il mancato esercizio del diritto di veduta non è stato assunto di per sè, quale fatto e circostanza determinante l’estinzione del diritto prediale in questione, ma solo in quanto elemento convergente con la tipologia di struttura realizzata fin dagli anni 70, che i giudici di merito hanno ritenuto di per sè già significativa di una impossibilità di esercizio di vista ex art. 1174 codice civile, in considerazione della totale schermatura del panorama anche con le tavelle frangisole.
Con giudizio di fatto, correttamente motivato sulla base delle risultanze processuali – in particolare dalle dichiarazioni dello stesso ricorrente e dei testimoni, nonchè dalla documentazione fotografica allegata – perciò insindacabile in questa sede di legittimità, la corte di merito ha ritenuto che la nuova copertura della tettoia, avendo il (OMISSIS) proceduto a sostituire la preesistente struttura, senza effettuare nessun ampliamento (solo genericamente dedotto dal ricorrente), non aveva creato una situazione nuova, osservando come già la situazione precedente all’acquisto del (OMISSIS), realizzata la copertura dell’intera terrazza dall’originario unico proprietario dello stabile, il (OMISSIS), non consentisse all’ (OMISSIS) la vista sulla sottostante terrazza “perchè il posizionamento delle tavelle in successione obliqua ai fini di schermare la terrazza dai raggi solari non poteva consentire a chi fosse più in alto e guardasse da quella posizione” di avere la veduta in appiombo sulla terrazza stessa. La Corte di appello ha valutato la struttura installata dal (OMISSIS), ne ha considerato le caratteristiche e le dimensioni, operando, così, una valutazione autonoma dei fatti di causa sottoposti al suo esame e, quindi, dopo aver equiparato la suddetta (tettoia) al pannello unico posto dal convenuto, ha concluso che essa interferiva con la linea di visuale in appiombo partente dalla veduta dell’attore e la impedivano. Orbene, secondo la giurisprudenza di questa Corte, spetta al giudice di merito stabilire nell’ambito dei rapporti di vicinato, se tettoie, tendaggi fissi, estensibili o retraibili, con intelaiatura fissata stabilmente al muro, costituiscano costruzioni o possano a queste equipararsi e se, per la loro struttura, dimensione e conformazione, esse interferiscano, impedendola o limitandola, con la veduta in appiombo esercitata dalle aperture altrui.
All’accertamento dei giudizi di merito il ricorrente oppone inammissibilmente la propria interpretazione delle prove, pretendendo di togliere ogni valore alle sue dichiarazioni, nonchè ad altri elementi (deposizioni testimoniali e descrizione dello stato dei luoghi), sostenendo la carenza di prova.
Quanto sopra del resto rappresenta un principio più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui “l’art. 1073 codice civile, comma 2, seconda parte, non regola una particolare ipotesi di usucapio libertatis, ma si limita a disciplinare il dies a quo del termine di prescrizione estintiva per le servitù negative e per quelle continue, disponendo – in considerazione della peculiarità di tali servitù, il cui esercizio non implica lo svolgimento di una specifica attività da parte del titolare – che quel termine inizia a decorrere dal giorno in cui è stato compiuto un fatto impeditivo dell’esercizio del diritto” (cfr. Cass. n. 2338 del 1976; Cass. n. 3164 del 1974).
Essendosi conformata la Corte territoriale ai suddetti principi svolgendo una motivazione logica ed adeguata per giustificare la soluzione adottata, le doglianze dedotte con i tre mezzi vanno rigettate e con esse lo stesso ricorso.
Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, tenendo conto della sola partecipazione del difensore di parte controricorrente alla pubblica udienza, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi euro 1.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso delle spese forfettarie e degli accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2″ Sezione Civile, il 27 ottobre 2015.