Ordinanza 4007/2020
Diffamazione a mezzo email – Risarcimento danni – Danno morale e danno all’immagine
In tema di responsabilità civile, il danno all’immagine e alla reputazione, in quanto costituente “danno conseguenza”, non può ritenersi sussistente “in re ipsa”, dovendo essere allegato e provato da chi ne domanda il risarcimento. Sicchè la sua liquidazione deve essere compiuta dal giudice sulla base, non di valutazioni astratte, ma del concreto pregiudizio presumibilmente patito dalla vittima, per come da questa dedotto e provato. La sussistenza del pregiudizio non patrimoniale, tuttavia, può essere oggetto di allegazione e prova anche attraverso presunzioni, assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima. (Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’appello, che nella fattispecie in esame, ha svolto il suo scrutinio alla luce dei suddetti criteri, ritenendo allegato e provato il danno conseguente alla diffusione a terzi di notizie diffamatorie, realizzatosi per mezzo di una e.mail inviata a quattro persone, ritenuta intrinsecamente lesiva del decoro professionale e personale del professore, e ciò in considerazione della sua posizione professionale di studioso).
Cassazione Civile, Sezione 3, Ordinanza 18-2-2020, n. 4007
Art. 2043 cc (Risarcimento per fatto illecito) – Giurisprudenza
Art. 2059 cc (Danni non patrimoniali) – Giurisprudenza
Rilevato che :
1. Con ricorso notificato il 21 maggio 2018 Gi. Sc. ricorre per la cassazione della sentenza emessa dalla Corte d’appello di Roma, pubblicata il 23 novembre 2017, con cui è stato accolto il gravame di Au. Si. avverso la sentenza del Tribunale di Roma che, in data 11 aprile 2013, aveva rigettato la richiesta di danni per diffamazione avanzata da Au. Si., o indicati nella misura complessiva di € 50.000, per danno morale e danno all’immagine subiti in conseguenza del contenuto diffamatorio di una e-mail, inviata a terzi dal convenuto Gi. Sc., concernente la persona e la professione del Prof. Au. Si., docente di storia.
2. La sentenza della Corte d’appello riformava la sentenza del Tribunale rilevando, da un lato, che si era formato un giudicato interno sulla sussistenza dell’illecito di diffamazione, in quanto il convenuto appellato non aveva proposto gravame incidentale sul punto; dall’altro, richiamando il consolidato orientamento giurisprudenziale in tema di risarcimento del danno non patrimoniale che incida su diritti inviolabili della persona, riteneva che per quanto il danno morale soggettivo, inteso quale perturbamento psichico, non debba ritenersi in re ipsa, ma come «conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto, esonerando il danneggiato non già dall’onere di specifica deduzione del danno, ma da quello di concreta di dimostrazione dello stesso», tuttavia in tale caso l’ allegazione della parte appellante valevano a fondare una liquidazione del danno in via equitativa, dovendosi ritenere che il contenuto della e.mail inviata a terzi incidesse sul complesso delle condizioni da cui dipende il valore sociale dell’attore. Valutava, pertanto, il danno nella misura di € 20.000,00.
3. Il ricorso è affidato a due motivi. Parte resistente ha notificato controricorso in data 27 giugno 2018.
Considerato che :
1. Con il primo motivo, ex articolo 360 1 comma , n. 3 cod. proc. civ., si deduce violazione ed errata interpretazione dell’articolo 2059 cod.civ., laddove la Corte di merito ha ritenuto che, una volta accertato il carattere ingiurioso della condotta, è indubbio che si debba presumere che essa abbia determinato la lesione dell’onore. Ritiene il ricorrente che dall’atto di citazione si evince che l’attore abbia voluto intendere il danno in re ipsa, proponendo una interpretazione superata dalla giurisprudenza, ma accolta dalla Corte d’appello.
2. Il motivo è infondato.
2.1. La Corte d’appello, in realtà, ha ritenuto che il ristoro «consegue automaticamente al gesto diffamatorio» rivolto all’attore «proprio in quanto professore universitario e professionista dedicatosi alla nota vicenda delle foibe». Ed invero, in tema di responsabilità civile, il danno all’immagine e alla reputazione, in quanto costituente “danno conseguenza”, non può ritenersi sussistente “in re ipsa”, dovendo essere allegato e provato da chi ne domanda il risarcimento. Sicché la sua liquidazione deve essere compiuta dal giudice sulla base, non di valutazioni astratte, ma del concreto pregiudizio presumibilmente patito dalla vittima, per come da questa dedotto e provato (cfr. Sez. 3 -, Ordinanza n. 31537 del 06/12/2018; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 7594 del 28/03/2018; Cass.Sez. 3 – , Ordinanza n. 25420 del 26/10/2017). La sussistenza del pregiudizio non patrimoniale, tuttavia, può essere oggetto di allegazione e prova anche attraverso presunzioni, assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima (cfr. Cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 25420 del 26/10/2017).
2.2. A tal fine il giudice può avvalersi anche di presunzioni gravi, precise e concordanti sulla base di elementi indiziari diversi dal fatto in sé considerato (Cass.Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 19434 del 18/07/2019). Pertanto, una volta applicato il suddetto principio, lo stabilire se una espressione, uno scritto, un documento, siano o non siano lesivi dell’onore e della reputazione altrui, costituisce un accertamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità, ove congruamente motivato (ex multis, in tal senso, Cass. Sez. 3 -, Ordinanza n. 6133 del 14/03/2018, Rv. 648418 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 80 del10/01/2012, Rv. 621133 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 17395 del 08/08/2007, Rv. 598662 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 15510 del 07/07/2006, Rv. 593558 – 01).
2.3. La Corte d’appello, nella fattispecie in esame, ha svolto il suo scrutinio alla luce dei suddetti criteri, ritenendo allegato e provato il danno conseguente alla diffusione a terzi di notizie diffamatorie, realizzatosi per mezzo di una e.mail inviata a quattro persone, ritenuta intrinsecamente lesiva del decoro professionale e personale del professore, qui resistente, e ciò in considerazione della sua posizione professionale di studioso, dedicatosi alla nota vicenda delle “foibe”, e per questo motivo definito nella e.mail come ” un fascista ignorante e maleducato, tra l’altro difensore dei regimi militari latinoamericani, dei torturatori, nonché delle cosidette vittime delle foibe”. La statuizione, oggetto di censura, è che il danno all’immagine che ne è derivato, per il grado di lesività delle affermazioni contenute nella e.mail , debba ritenersi provato in quanto «conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto, esonerando il danneggiato non già dall’onere di specifica deduzione del danno, ma da quello di concreta dimostrazione dello stesso». Dal che la Corte ha desunto che le allegazioni in ordine al particolare disdoro recato all’immagine dell’attore per effetto del contenuto della e.mail, «valgano a fondare una liquidazione equitativa….dovendosi ritenere necessariamente incidenti le asserzioni diffamatorie di cui s’è detto sul complesso delle condizioni da cui dipende il valore sociale della persona medesima».
2.4. In tale caso, quindi, la valutazione è stata fatta in concreto, con argomenti presuntivi, in riferimento all’effetto dannoso del fatto oggettivamente illecito, perché non rispettoso del principio di continenza e di pertinenza nel muovere una critica all’operato altrui, riverberatosi pertanto sulla sua persona, con valutazione in fatto insindacabile, perché condotta alla stregua dei criteri sopra menzionati.
3. Con il secondo motivo si denuncia, ex art. 360 numero 3 cod. proc.civ., violazione ed errata interpretazione dell’ art. 324 cod.proc.civ., laddove la Corte d’appello ha ritenuto che si sia formato un giudicato sulla commissione dell’illecito, in relazione alla e.mail di cui il ricorrente ha eccepito non essere certa la provenienza, mancandone la certificazione circa la provenienza, con argomenti ed eccezioni reiterati nella comparsa di costituzione in appello.
3.1. Il motivo è infondato. Il giudicato interno non si determina in relazione a un fatto, ma a una statuizione minima della sentenza, costituita dalla sequenza “fatto, norma ed effetto”, suscettibile di acquisire autonoma efficacia decisoria nell’ambito della controversia, rinvenibile nella locuzione utilizzata dal giudice (Cass. Sez. 2 -, Ordinanza n. 10760 del 17/04/2019; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 12202 del 16/05/2017.). L’accertamento della sussistenza dell’illecito deve, pertanto, intendersi passato in giudicato, laddove esso assume il connotato di una “minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno”, e dunque di decisione, con efficacia autonoma, non espressamente impugnata dall’appellato, anche solo in via incidentale. L’accertamento della commissione dell’ illecito in discussione, difatti, non è stato reso oggetto di autonoma impugnazione, e la mera reiterazione dell’eccezione, collegata al mero fatto della mancata prova della ricezione della e.mail ,non è in grado di scalfire la statuizione circa l’ oggettiva commissione dell’illecito.
4. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato, con ogni conseguenza in ordine alle spese, che si liquidano in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014 a favore della parte resistente.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e, per l’effetto, condanna il ricorrente alle spese, liquidate in € 5.200,00, oltre € 200,00 per spese, spese forfettarie al 1 5 % e oneri di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del/la ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, il 4 novembre 2019, nella Camera di Consiglio della Terza Sezione Civile.