Sentenza 4277/2023
Decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo – Sentenza di rigetto dell’opposizione – Cassazione con rinvio – Natura di titolo esecutivo del decreto ingiuntivo – Permanenza
La natura di titolo esecutivo del decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo permane anche in caso di cassazione con rinvio della sentenza di rigetto dell’opposizione, fino all’eventuale revoca dello stesso da parte del giudice del rinvio. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, la quale aveva statuito che l’azione esecutiva era stata legittimamente condotta dal creditore procedente, dapprima in forza di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo e, dopo la cassazione della pronuncia di rigetto della relativa opposizione, dalla statuizione condannatoria sostitutiva conseguente alla revoca del decreto ingiuntivo stesso da parte del giudice del rinvio).
Cassazione Civile, Sezione 3, Sentenza 10-2-2023, n. 4277 (CED Cassazione 2023)
Art. 653 cpc (Efficacia esecutiva del decreto ingiuntivo opposto)
FATTI DI CAUSA
1. In forza della sentenza della Corte di Appello di Napoli n. 583 del
1998, la (OMISSIS) S.p.A., nella qualità
di cessionaria dal Banco di Napoli del credito portato dalla pronuncia,
intimò alla società (OMISSIS) S.r.l. precetto per il
pagamento della complessiva somma di euro 222.976,00.
2. L’opposizione spiegata dalla società intimata avverso detto
precetto è stata disattesa in ambedue i gradi di merito.
3. Ricorre per cassazione la società (OMISSIS)
S.r.l., affidandosi a nove motivi, cui resiste con controricorso la
(OMISSIS) S.p.A. (nuova denominazione della
(OMISSIS)).
4. Fissato per l’udienza pubblica del 09 novembre 2022, il ricorso è
stato in pari data trattato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 23,
comma 8 bis, del d.l. n. 137 del 2020, convertito nella legge n. 176 del
2020, e successive modifiche, senza l’intervento del Procuratore
Generale e dei difensori delle parti, non essendo stata formulata
richiesta di discussione orale.
5. Entro il quindicesimo giorno precedente l’udienza, il P.G. ha
formulato conclusioni motivate.
6. Parte ricorrente ha depositato memoria illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. In via preliminare, ritiene la Corte: non accoglibile l’istanza di
riunione del presente procedimento a quello iscritto al R.G. n. 21536
dell’anno 2020, difettando il presupposto, richiesto dall’art. 335 cod.
proc. civ., della identità dei provvedimenti impugnati; altresì non
opportuna la trattazione congiunta, avuto riguardo alla già disposta
fissazione dei ricorsi in differenti udienze ed all’avvenuto espletamento
dei relativi incombenti di Cancelleria.
2. Con il primo motivo si denuncia «nullità della sentenza per
violazione dell’art. 281-quinquies, primo e secondo comma, cod. proc.
civ.», in relazione all’art. 360, primo comma, num. 4, del codice di rito,
nonché «violazione del diritto di difesa e del diritto a un giusto processo
(artt. 24 e 111 della Costituzione)».
Ad avviso del ricorrente, il giudice di primo grado «ha abusato dei
suoi poteri di direzione del processo» allorché ne ha disposto di ufficio
la definizione ai sensi dell’art. 281-quinquies, secondo comma, cod.
proc. civ., ovvero secondo il modello della c.d. trattazione mista, in
difetto della necessaria istanza di parte, consentendo alla parte
opposta la produzione di un documento (l’ordinanza resa sulla istanza
di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo) unitamente alla
comparsa conclusionale e provvedendo al deposito della sentenza ben
oltre il termine di trenta giorni dalla discussione orale della causa.
Da ciò il lamentato pregiudizio al diritto di difesa.
2.1. La doglianza è inammissibile.
Al fine di disattendere l’appello in parte qua lamentante l’erroneo
svolgimento della fase decisoria, la Corte territoriale ha svolto plurime
argomentazioni, ciascuna delle quali idonea, ex se considerata, a
giustificare il dictum adottato.
Più specificamente, la sentenza gravata ha ritenuto:
(a) l’equipollenza tra i modelli decisionali a trattazione scritta ed a
trattazione mista, escludendo così qualsivoglia nullità della sentenza;
(b) la mancata dimostrazione, ad opera della parte appellante a
tanto onerata, di uno specifico pregiudizio derivante dall’adozione dello
schema decisorio ex art. 281-quinquies, secondo comma, cod. proc.
civ., motu proprio imposto dal giudice;
(c) «in ogni caso», la mancata deduzione del vizio nel giudizio di
prime cure da parte appellante, non essendo stata sollevata la relativa
eccezione «né all’udienza di discussione del dì 07/10/2014, in cui ha
regolarmente trattato la causa, e neppure con la comparsa
conclusionale del 16/07/2014».
Avverso quest’ultimo rilievo (sufficiente, isolatamente apprezzato,
a suffragare il convincimento del giudice), parte ricorrente non ha
rivolto alcuna considerazione critica, nemmeno generica, nell’unica
sede all’uopo deputata e possibile, ovvero il ricorso introduttivo del
giudizio di legittimità, irrilevante, al riguardo, il contenuto della
memoria depositata ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ., avente
funzione di mera illustrazione di censure già articolate, con
inammissibilità di motivi nuovi o di integrazione di motivi esplicati
nell’atto d’impugnazione (cfr. Cass. 27/08/2020, n. 17893; Cass.
12/10/2017, n. 24007; Cass. 20/12/2016, n. 26332).
Ed è noto che qualora la sentenza sia sorretta da una pluralità di
ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e
logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa
impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di
interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta
definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe
produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza (principio di
diritto affermato ai sensi dell’art.360-bis cod. proc. civ. da Cass.
03/11/2011, n. 22753, ribadito, ex plurimis, da Cass. 06/07/2020, n.
13880; Cass. 27/07/2017, n. 18641; Cass. 21/06/2017, n. 15350;
Cass. 29/05/2015, n. 11169; Cass. 29/03/2013, n. 7931; Cass.
28/01/2013, n. 1891; Cass. 23/01/2013, n. 1610).
3. Il secondo motivo prospetta «nullità della sentenza impugnata –
in relazione all’art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ. – per
violazione degli artt. 474 e 480, secondo comma, cod. proc. civ., a
causa dell’errata individuazione del titolo esecutivo azionato con l’atto
di precetto» nonché «violazione degli artt. 2934 e ss. cod. civ., in
relazione all’art. 360, primo comma, num. 3 cod. proc. civ.».
Si assume come erronea l’individuazione della sentenza della Corte
d’appello di Napoli n. 583/1998 quale unico titolo esecutivo fondante
l’azione minacciata con l’atto di precetto.
A parere dell’impugnante, invece, per effetto della sentenza della
Suprema Corte n. 9791/1994, di parziale cassazione della pronuncia n.
30/1991 della Corte d’appello di Campobasso, quest’ultima aveva
acquisito efficacia ed autorità di giudicato in ordine all’accertamento
sulla sorte capitale e sul saggio degli interessi dovuti dalla scadenza
delle singole ricevute bancarie, mentre la sentenza n. 583/1998 della
Corte d’appello di Napoli aveva validità ed efficacia di titolo esecutivo
unicamente circa il debito relativo agli interessi inerenti lo scoperto di
conto corrente acceso dalla società presso l’istituto bancario.
Per conseguenza, il diritto di credito nella sua interezza era da
reputarsi estinto per prescrizione, dovendo ancorarsi il dies a quo del
relativo termine alla data di pubblicazione della sentenza della Corte di
Cassazione, risalente al giorno 11 aprile 1994.
3.1. Il motivo è infondato.
Giova, per dare conto della enunciata conclusione, riportare, in
successione cronologica, gli accadimenti processuali rilevanti ai fini
dello scrutinio della doglianza:
– con decreto ingiuntivo del 30 maggio 1985, provvisoriamente
esecutivo, il Presidente del Tribunale di Campobasso ingiunse alla s.r.l.
(OMISSIS) il pagamento in favore del Banco di Napoli
della somma di lire 108.350.134, oltre interessi nella misura del
24,50% dal 17 aprile 1994 su lire 62.647.787 e dalla scadenza delle
singole ricevute bancarie insolute su lire 46.702.347;
– l’opposizione al decreto ingiuntivo venne disattesa in ambedue i
gradi di merito: in appello, più precisamente, con sentenza della Corte
di Appello di Campobasso n. 30/1991 del 27 febbraio 1991;
– con sentenza n. 9791/1994 resa il giorno 11 aprile 1994, la
Suprema Corte, in accoglimento del motivo di ricorso concernente
l’entità degli interessi spettanti sullo scoperto di conto corrente, cassò
la sentenza di appello e dispose rinvio alla Corte d’appello di Napoli;
– con sentenza n. 593/1998 pubblicata il 4 marzo 1998, la Corte
d’appello di Napoli, quale giudice del rinvio, revocò il decreto ingiuntivo
del 30 maggio 1985 e condannò la s.r.l. (OMISSIS) al
pagamento della somma di lire 108.350.134, con gli interessi nella
misura legale dal 17 aprile 1994 su lire 62.647.787 e nella misura del
24,50% dalla scadenza delle singole ricevute bancarie insolute su lire
46.702.347, con capitalizzazione trimestrale;
– in forza di quest’ultima sentenza, la (OMISSIS) S.p.A., con atto
notificato nel settembre 2011, ha intimato il precetto di pagamento
avverso il quale è stata sollevata l’opposizione in discorso.
3.2. Tale il (pacifico) svolgimento della vicenda controversa, non è
conforme a diritto la (pur diffusamente articolata) tesi del ricorrente
circa la ravvisabilità di un duplice titolo esecutivo: l’uno, costituito dalla
combinazione tra il decreto ingiuntivo e la sentenza della Corte di
Appello di Campobasso n. 30/1991, azionabile in executivis, dopo la
pronuncia della Suprema Corte del 1994, limitatamente al capitale
portato dalle ricevute bancarie, con i relativi interessi; l’altro,
rappresentato dalla sentenza resa in sede di rinvio, suscettibile di
coatta attuazione unicamente per gli importi ascrivibili a interessi su
scoperto di conto corrente (e non già per l’intero credito, come invece
illegittimamente intimato).
È dirimente osservare, onde confutare l’argomentazione, come la
pretesa creditoria dell’istituto bancario trovi fondamento in un decreto
ingiuntivo sin dalla sua genesi provvisto di idoneità esecutiva e che tale
attitudine ha conservato pur all’esito dei vari gradi del giudizio di
opposizione e fino alla sentenza resa in sede di rinvio, recante espressa
statuizione di revoca del provvedimento monitorio.
Orbene, secondo il costante indirizzo del giudice della nomofilachia,
in ipotesi di integrale rigetto dell’opposizione dispiegata avverso un
decreto ingiuntivo, l’unico titolo legittimante l’esecuzione forzata è
costituito, in ragione dell’inequivoco disposto dell’art. 653 cod. proc.
civ., dal decreto monitorio, quanto a sorte capitale, accessori e spese
dallo stesso recati, rappresentando, invece, la sentenza titolo esecutivo
solo per le eventuali, ulteriori voci di condanna in essa contenute.
Specificamente, il rigetto integrale dell’opposizione è presupposto
per il conferimento (o il consolidamento, nelle ipotesi contemplate
dall’art. 642 cod. proc. civ.) di esecutorietà in via definitiva al decreto
d’ingiunzione, fermo restando che a passare in giudicato non è il
decreto, ma il comando ricavato dalla combinazione del decreto e della
sentenza di rigetto dell’opposizione al medesimo: sicché, fino a quando
«il giudizio di opposizione permanga senza espressa revoca di questo,
l’unico titolo idoneo ad acquisire efficacia esecutiva resta il decreto»
(così, testualmente, Cass. 27/08/2013, n. 19595; conforme, da ultimo,
Cass. 26/08/2021, n. 23500; in precedenza, nello stesso senso, Cass.
03/06/1978, n. 2795; Cass. 30/12/1968, n. 4082).
E tale natura di titolo esecutivo del decreto perdura anche quando
la sentenza di rigetto dell’opposizione sia cassata con rinvio dalla
Suprema Corte: a conferma di ciò, basti por mente al fatto che in
ipotesi di estinzione del giudizio di rinvio successiva ad una pronuncia
di cassazione di una decisione di rigetto dell’opposizione proposta
avverso un decreto ingiuntivo si produce il passaggio in giudicato del
decreto opposto, ancora una volta in virtù della disposizione dell’art.
653, primo comma, cod. proc. civ., che, limitatamente a questo caso,
prevale sul dettato dell’art. 393 cod. proc. civ. (così Cass., Sez. U,
22/02/2010, n. 401; Cass. 06/04/2011, n. 7871).
3.3. In applicazione degli illustrati princìpi, nella fattispecie deve
ritenersi che il decreto ingiuntivo del 30 maggio 1985, dichiarato ab
origine provvisoriamente esecutivo, abbia integrato il titolo fondante
un’azione esecutiva per la soddisfazione della pretesa ivi accertata per
l’intero corso del giudizio e sino alla pronuncia adottata in sede di rinvio
dalla Corte d’appello di Napoli n. 583/1998, la quale (non rileva qui se
in maniera conforme a diritto o meno) ha espressamente disposto la
revoca del decreto stesso e reso statuizione condannatoria sostitutiva,
avente ad oggetto il credito dell’istituto bancario nella sua interezza e
nelle sue plurime ragioni causali considerato.
Ben correttamente, pertanto, in forza di quest’ultima sentenza è
stato intimato il precetto contestato dalla società oggi ricorrente.
4. Con il terzo motivo la parte ricorrente lamenta «violazione e falsa
applicazione delle norme sostanziali (artt. 2934 e ss. cod. civ., in
relazione all’art. 360, n.3, cod. proc. civ.) in tema di prescrizione del
diritto azionato con l’atto di precetto opposto, sul riflesso dell’art. 499
cod. proc. civ. (in riferimento all’art. 360, primo comma, num. 4, cod.
proc. civ.), intendendo il ricorso per intervento svolto in altra procedura
esecutiva quale valido atto interruttivo della prescrizione».
Si sostiene, in sintesi, che all’epoca dell’intervento del precettante
in altra procedura esecutiva, il credito oggetto della intimazione era
prescritto, stante l’integrale trascorrere del periodo temporale di dieci
anni «dalla pubblicazione della sentenza della Corte di Appello di Napoli
n. 583/1998, avvenuta il 19.03.1998, data che rappresenta il dies a
quo per il decorso del termine prescrizionale».
4.1. La doglianza è destituita di fondamento.
Ne è errato l’assunto fondativo, cioè a dire la individuazione della
decorrenza del termine di prescrizione dalla data di pubblicazione della
sentenza in sede di rinvio.
Per scolastica nozione, positivamente scolpita nell’art. 2953 cod.
civ., la c.d. actio iudicati, ovvero l’azione diretta all’esecuzione di diritti
riconosciuti in provvedimenti giudiziali di condanna a carattere
definitivo, si prescrive infatti con il decorso di dieci anni dal passaggio
in giudicato del provvedimento stesso.
Nel caso in esame, individuata (con accertamento operato dalla
gravata sentenza e non contestato dal ricorrente) nel 24 novembre
1998 l’irrevocabilità della sentenza n. 583/1998 della Corte di Appello
di Napoli, al momento del deposito del ricorso per intervento in altra
procedura esecutiva (sia esso risalente al 16 aprile 2008, come
acclarato dalla sentenza impugnata oppure al 2 maggio 2008, come
asserito dal ricorrente), il richiamato termine prescrizionale decennale
non era di certo elasso.
Ed è appena il caso di rammentare che – come condivisibilmente
affermato dal giudice territoriale – nell’espropriazione forzata, il ricorso
per intervento, recante istanza di partecipazione alla distribuzione della
somma ricavata, è equiparabile alla «domanda proposta nel corso di
un giudizio» idonea, ai sensi dell’art. 2943, secondo comma, cod. civ.,
ad interrompere la prescrizione dal giorno del deposito del ricorso ed a
sospenderne il corso sino all’approvazione del progetto di distribuzione
del ricavato della vendita (da ultimo, Cass. 09/07/2020, n. 14602;
conf. Cass. 19/12/2014, n. 26929).
Sul decorso del termine di prescrizione non spiega infine alcuna
incidenza la successione dal lato attivo nella titolarità del credito, nella
specie peraltro verificatasi in epoca anteriore alla formazione del titolo
esecutivo poi azionato con il precetto de quo.
5. Il quarto motivo di ricorso prospetta la nullità della sentenza –
per violazione dell’art. 479, primo e secondo comma, cod. proc. civ.,
in relazione all’art. 360, primo comma, num. 4 cod. proc. civ. – nella
parte in cui essa ha ritenuto che la creditrice non avesse bisogno di
notificare alla ricorrente il titolo esecutivo prima di procedere alla
notifica del decreto ingiuntivo opposto.
Si evidenzia inoltre il vizio logico e giuridico in cui è incorso il giudice
territoriale nel reputare correttamente notificata la sentenza posta a
base della azione esecutiva presso il domicilio del procuratore costituito
e non direttamente alla parte interessata.
5.1. La censura conduce alla cassazione in parte qua della gravata
sentenza, ancorché per ragioni differenti da quelle illustrate da parte
impugnante.
Preliminare, al riguardo, è il corretto inquadramento sub specie
iuris della questione sollevata con l’atto introduttivo dell’opposizione,
segnatamente al fine della riconduzione del motivo nell’alveo della
opposizione all’esecuzione oppure della opposizione agli atti esecutivi.
Sotto tale profilo, non è dubbio che la deduzione dell’invalidità della
notificazione del titolo esecutivo integri ragione di opposizione
preventiva agli atti esecutivi ex art. 617, primo comma, cod. proc. civ.
(tra le tantissime, cfr. Cass. 21/01/2021, n. 1096; Cass. 26/06/2015,
n. 13212; Cass. 31/10/2013, n. 24662).
Da ciò deriva che, avendo il giudice di prime cure statuito su
un’opposizione sul punto configurabile come agli atti esecutivi, l’appello
interposto sul relativo capo di pronuncia doveva essere dichiarato
inammissibile ai sensi dell’art. 617 del codice di rito.
Infatti, quando un’opposizione in materia esecutiva possa scindersi
in un duplice contenuto, in parte qualificabile come opposizione agli atti
esecutivi e in parte riconducibile ad una opposizione all’esecuzione,
l’impugnazione della conseguente sentenza deve seguire il diverso
regime previsto per i distinti tipi di opposizione (Cass. 11/02/2020, n.
3166; Cass. 27/08/2014, n. 18312; Cass. 31/05/2010, n. 13203).
Nemmeno può invocarsi, a giustificazione del mezzo impiegato
dall’opponente per reagire alla decisione di primo grado, il principio c.d.
dell’apparenza, in forza del quale l’identificazione del mezzo di
impugnazione esperibile avverso un provvedimento giurisdizionale
deve essere fatta con riferimento esclusivo alla qualificazione
dell’azione proposta effettuata dal giudice a quo, sia essa corretta o
meno (in tema di opposizioni esecutive, tra le tante, Cass. 08/11/2021,
n.32514; Cass. 18/03/2021, n. 7588; Cass. 31/08/2020, n. 18061;
Cass. 03/03/2020, n. 5712; Cass. 21/09/2017, n. 21379; Cass.
26/05/2017, n. 13381; Cass. 17/06/2014, n. 13578): nella specie, non
risulta né dal tenore della sentenza di primo grado, né da quella qui
impugnata e neppure è stato dedotto dal ricorrente con l’illustrazione
dei fatti di causa, che il Tribunale avesse espressamente qualificato
l’opposizione come proposta ai sensi dell’art. 615 del codice di rito.
In definitiva, la corte territoriale, valutando nel merito il gravame,
ha deciso su una sentenza non appellabile.
Tanto acclarato, l’inammissibilità dell’appello è rilevabile d’ufficio
anche nel giudizio di legittimità, trattandosi di questione che determina
l’accertamento dell’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza di
primo grado, non ritualmente impugnata (ex multis, Cass. 12/02/2019,
n. 3967; Cass. 19/10/2018, n. 26525; Cass. 25/09/2017, n. 22256).
Sulla scorta delle esposte argomentazioni, a mente dell’art. 382
cod. proc. civ., va disposta la cassazione senza rinvio della sentenza
impugnata nella parte in cui ha statuito sulla ritualità della notifica del
titolo esecutivo, in quanto l’appello non poteva essere proposto.
6. Il quinto motivo prospetta violazione e falsa applicazione degli
artt. 99 e 100 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma,
num. 4, cod. proc. civ., perpetrata mediante il rigetto delle eccezioni
relative alla carenza di legittimazione ad agire della (OMISSIS) S.p.A. ed
alla carenza di titolarità del credito in capo alla stessa.
Nell’assunto dell’impugnante, l’error iuris dell’impugnata sentenza
risiede nell’aver ritenuto assolto l’onere, gravante sulla (OMISSIS) S.p.A.,
di provare la qualità di cessionaria del credito azionato mediante il
deposito di copia della Gazzetta Ufficiale del 16 gennaio 1997 ed il mero
richiamo della scrittura privata autenticata (atto per notar Marzocca del
31 dicembre 1996) di cessione «in blocco» dei crediti dal Banco di
Napoli alla (OMISSIS) S.p.A., necessariamente occorrendo invece, a tal
fine, la (nel caso mancata) produzione del contratto di cessione.
6.1. Il motivo è infondato.
In linea generale, va ribadito il principio secondo cui la parte che
agisce affermandosi successore a titolo particolare del creditore
originario, in virtù di un’operazione di cessione in blocco secondo la
speciale disciplina di cui all’art. 58 del d.lgs. 1° dicembre 1993, n. 385,
ha l’onere di dimostrare l’inclusione del credito medesimo in detta
operazione, in tal modo fornendo la prova documentale della propria
legittimazione sostanziale (così Cass. 22/02/2022, n. 5857; Cass.
05/11/2020, n. 24798).
Del pari, occorre rammentare che il menzionato art. 58 del d.lgs.
n. 385 del 1993, nel consentire «la cessione a banche di aziende, di
rami d’azienda, di beni e rapporti giuridici individuabili in blocco» detta
una disciplina (ampiamente e sotto plurimi profili) derogatoria rispetto
a quella ordinariamente prevista dal codice civile per la cessione del
credito e del contratto (per questi aspetti, vedi, diffusamente, Cass.
31/12/2017, n. 31188): regolamentazione giustificata principalmente
dall’oggetto della cessione, costituito, oltre che da intere aziende o rami
di azienda, da interi «blocchi» di beni, crediti e rapporti giuridici,
individuati non già singolarmente, ma per tipologia, sulla base di
caratteristiche comuni, oggettive o soggettive, motivo per cui la norma
prevede la sostituzione della notifica individuale dell’atto di cessione
con la pubblicazione di un avviso di essa sulla Gazzetta Ufficiale, cui
possono aggiungersi forme integrative di pubblicità (da ultimo, Cass.
16/04/2021, n. 10200).
Alla luce di siffatte, peculiari, caratteristiche dell’istituto, questa
Corte ha più volte – con indirizzo ermeneutico cui si intende dare
convinta continuità – affermato che in tema di cessione in blocco dei
crediti da parte di una banca ex art. 58 del d.lgs. n. 385 del 1993 –
contratto a forma libera – è sufficiente a dimostrare la titolarità del
credito in capo al cessionario la produzione dell’avviso di pubblicazione
sulla Gazzetta Ufficiale recante l’indicazione per categorie dei rapporti
ceduti in blocco, senza che occorra una specifica enumerazione di
ciascuno di essi, allorché sia possibile individuare senza incertezze i
rapporti oggetto della cessione (in questo ordine di idee, oltre alla
citata Cass. n. 31118 del 2017, cfr. Cass. 13/06/2019, n. 15884).
6.2. Ciò precisato, sulla questione oggetto della censura de qua, la
Corte d’appello si è così espressa: «la cessione di tutti i crediti che
risultavano nella contabilità del Banco di Napoli alla data del
30/06/1996, è effettivamente avvenuta con atto del 31/12/1996 per
notar Mazzocca di Napoli, rep. n. 45847, ed è stata pubblicata sulla
Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana del 16/01/1997 (doc. n. 5
fasc. prime cure parte appellata) e ha avuto come oggetto appunto
tutti i crediti c.d. “in sofferenza” e cioè anche quelli “incagliati”, da
intendersi con tale lemma quelli che erano stati oggetto di
contestazione giudiziale del debitore, tra cui anche quello qui
contestato dalla s.r.l. appellante con l’opposizione al decreto ingiuntivo,
che era stato reso il 30/05/1985 dal Presidente del Tribunale di
Campobasso, definita alla fine, in seguito a rinvio, con la sentenza della
Corte di Appello di Napoli n. 593/1998».
Il trascritto passaggio motivazionale pone in luce come il giudice
territoriale abbia ritenuto l’idoneità asseverativa dell’avviso pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale (versato agli atti del giudizio) in ordine a
plurime circostanze: l’esistenza di una cessione di crediti «in blocco»
dal Banco di Napoli alla (OMISSIS) S.p.A., la chiara determinazione
dell’oggetto della stessa, riferita ai crediti «in sofferenza», la univoca
definizione di siffatta categoria di crediti, l’inclusione nell’àmbito di essa
della pretesa creditoria azionata con il contestato precetto.
Si tratta allora, in tutta evidenza, di accertamenti di fatto, devoluti
tipicamente al prudente apprezzamento degli elementi istruttori ad
opera del giudice di merito: valutazione, dunque, sottratta al sindacato
di legittimità, se non nell’angusto recinto delle anomalie motivazionali
rilevanti in base all’art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ.,
anomalie pervero qui nemmeno adombrate.
Né è sollecitabile in questa sede, siccome del tutto estraneo alla
natura ed alla funzione del giudizio di legittimità, un riesame della
valenza probatoria dell’avviso di pubblicazione della cessione, di cui,
peraltro, in ricorso non si riporta né si trascrive il contenuto, in chiara
inosservanza del requisito della specifica indicazione degli atti
processuali su cui il ricorso si fonda (art. 366, primo comma, num. 6,
cod. proc. civ.).
7. Il sesto motivo deduce nullità della sentenza per omesso esame
ovvero per motivazione inesistente o apparente circa il motivo di
appello con cui era stata contestato l’utilizzo ad opera della (OMISSIS)
S.p.A. ai fini della intimazione del precetto di un titolo esecutivo spedito
in forma esecutiva in favore di altro soggetto (Banco di Napoli S.p.A.).
7.1. Analogamente a quanto statuito sopra con riferimento al
quarto motivo di ricorso e sulla scorta di argomentazioni in tutto
sovrapponibili a quelle ivi (§ 5.1.) rappresentate (cui, pertanto, si opera
ampia relatio), va pronunciata la cassazione senza rinvio ex art. 382
cod. proc. civ. della sentenza in parte qua.
Indubbio che i vizi inerenti alla spedizione in forma esecutiva del
titolo integrino fattispecie di opposizione agli atti esecutivi (da ultimo,
Cass. 05/05/2022, n. 14275; Cass. 09/11/2021, n. 32838; in passato,
Cass. 18/11/2014, n. 24548; Cass. 03/09/1999, n. 9297), la Corte
d’appello ha deciso su sentenza sul punto non appellabile.
8. Il settimo motivo di ricorso evoca la nullità della sentenza
impugnata, ai sensi dell’art. 360 primo comma, num. 4 cod. proc. civ.,
nella parte in cui ha ritenuto legittima la sentenza di primo grado che,
«senza motivazione alcuna ma semplicemente richiamando per
relationem l’ordinanza» resa sull’istanza di sospensione dell’efficacia
esecutiva del titolo, ha respinto i motivi di opposizione a precetto.
8.1. Il motivo è infondato.
A tacer della generica articolazione della doglianza (nemmeno si
chiarisce in cosa consisterebbe l’error in procedendo inficiante la
decisione), la Corte territoriale, nel disattendere il motivo di appello,
ha sottolineato come il richiamo della sentenza di primo grado alla
ordinanza cautelare emessa ex art. 615, primo comma, cod. proc. civ.,
fosse circoscritto a due (su cinque) motivi di opposizione (essendo stati
gli altri tre motivi esaminati ex professo con autonoma motivazione),
rimarcando che «il dibattito processuale» dipanatosi successivamente
al provvedimento interinale non aveva «evidenziato ulteriori elementi
di giuridica novità sui proposti temi di opposizione».
Orbene, appare del tutto legittimo, in linea di principio, che nella
sentenza conclusiva di un grado di giudizio il giudice espliciti le ragioni
del proprio convincimento anche mediante il richiamo all’apparato
argomentativo sulle medesime questioni litigiose già illustrato in un
provvedimento reso precedentemente in corso di causa, dunque ben
conosciuto dai contraddittori: nella specie, peraltro, detto richiamo è
stato operato soltanto per estrinsecare l’apprezzamento compiuto su
alcuni motivi della spiegata opposizione a precetto.
Al fondo, poi, è del tutto improprio il riferimento di parte ricorrente
alla nozione di motivazione «per relationem», situazione che invece
vizia le sentenze rese in grado di appello formulate in termini di mera
ed acritica adesione alla pronuncia di prime cure, colpite da nullità
dacché non consentono di comprendere se alla condivisione della prima
decisione il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la
valutazione di infondatezza dei motivi di gravame, cioè previa
un’adeguata considerazione delle allegazioni difensive e degli elementi
di prova addotti (sul concetto di motivazione «per relationem», cfr., tra
le tante, Cass. 23/07/2020, n. 15757; Cass. 05/08/2019, n. 20883;
Cass. 05/11/2018, n. 28139; Cass. 05/10/2018, n. 24452; Cass.
21/09/2017, n. 22022; Cass. 06/05/2015, n. 9068).
9. L’ottavo motivo prospetta la nullità della sentenza impugnata, ai
sensi dell’art. 360, primo comma, num. 4 cod. proc. civ., per violazione
degli artt. 132 e 183, sesto comma cod. proc. civ., per aver ritenuto
legittimo l’utilizzo, ai fini della decisione di primo grado, della ordinanza
emessa a conclusione della fase cautelare, quantunque detta ordinanza
fosse stata depositata dalla parte opposta soltanto con la memoria
conclusionale, «allorché la fase istruttoria era conclusa e non vi era
stata rimessione in termini».
10. Il nono motivo denuncia nullità della sentenza, in relazione
all’art. 360, primo comma, num. 4 cod. proc. civ. e per violazione
dell’art. 345, terzo comma, cod. proc. civ., per aver disatteso la
eccezione di inutilizzabilità della documentazione (precisamente, della
ordinanza resa in primo grado sull’istanza di sospensione dell’efficacia
esecutiva del titolo) prodotta da parte appellata in uno alla comparsa
di costituzione in grado di appello.
11. I motivi – da scrutinare congiuntamente, in ragione del vincolo
di stretta connessione che li avvince – sono infondati.
L’ordinanza pronunciata ai sensi dell’art. 615, primo comma, cod.
proc. civ., sull’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo
integra un provvedimento giudiziale reso in seno alla controversia (a
struttura monofasica unitaria) di opposizione all’esecuzione soltanto
minacciata: essa, pertanto, compone, facendone parte integrante, il
fascicolo di ufficio del relativo giudizio.
Esclusa così, in radice, ogni equiparazione (o anche soltanto una
qualche suggestiva assimilazione) agli atti ed ai documenti che si
formano all’infuori del giudizio e che in questo fanno ingresso per
iniziativa delle parti o per impulso officioso, non è neppure ipotizzabile
l’operatività – postulato dalle doglianze in esame – del regime dettato
in tema di produzioni documentali e, nello specifico, delle preclusioni
all’uopo stabilite nel primo e nel secondo grado di giudizio.
12. In conclusione: pronunciando sul ricorso, va disposta la
cassazione senza rinvio dei capi della sentenza impugnata relativi ai
motivi di opposizione agli atti esecutivi, sopra in dettaglio specificati; è
dichiarato inammissibile il primo motivo e sono rigettati gli altri.
13. Le spese del grado di legittimità vanno poste a carico del
ricorrente, avuto riguardo alla complessiva e globale soccombenza.
Resta fermo il regolamento delle spese di lite concernenti il giudizio
di secondo grado, non incidendo la diversa statuizione che avrebbe
dovuto rendere il giudice d’appello (inammissibilità, e non rigetto, del
gravame relativo ai motivi integranti opposizione agli atti esecutivi)
sull’esito finale della lite, cui va riferito il criterio della soccombenza (da
ultimo, Cass. 18/05/2021, n. 13356), la quale resta in ogni caso
integrale in capo ai destinatari della relativa condanna.
14. Il tenore della presente pronunzia – che è di parziale cassazione
della sentenza impugnata, quindi non di rigetto, inammissibilità o
improponibilità del gravame – esclude l’applicabilità dell’art. 13, comma
1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto
dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, per cui si
dà atto che non sussistono i presupposti per il versamento, da parte
del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in
misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art.
1-bis dello stesso art. 13.
P. Q. M.
Pronunciando sul ricorso, cassa senza rinvio i capi della sentenza
impugnata relativi ai motivi di opposizione agli atti esecutivi, nei sensi
di cui in motivazione.
Dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso e rigetta per il
resto.
Condanna parte ricorrente al pagamento in favore di parte
controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in
euro 6.000 per compensi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15
per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori, fiscali
e previdenziali, di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Terza Sezione
Civile, il giorno 9 novembre 2022.