Sentenza 4446/2014
Responsabilità civile – Obbligo di custodia – Riferimento alla concreta condotta colposa del danneggiante – Successivo richiama all’art. 2051 cc
Il riferimento ad una concreta condotta colposa del danneggiante, contenuto nella domanda di risarcimento danni, esclude che la parte attrice abbia inteso richiamare la fattispecie della responsabilità da cose in custodia, essendo questa fondata sulla mera esistenza di un nesso causale tra la cosa ed il danno a prescindere dall’accertamento del carattere colposo dell’attività o del comportamento del custode, ciò che preclude all’attore la possibilità di invocare, nei successivi gradi di giudizio, l’applicazione dell’art. 2051 cod. civ. (Principio applicato dalla S.C. con riferimento alla domanda risarcitoria proposta dai genitori di una minore vittima di un grave infortunio dopo aver partecipato ad una lezione di nuoto, avendo costoro, in primo grado, dedotto la colpa della società convenuta, in quanto, al momento del sinistro, il pavimento dello spogliatoio-doccia era sdrucciolevole perché bagnato e privo di tappetini antiscivolo, salvo poi dolersi della mancata applicazione – da parte del giudice di merito – dell’art. 2051 cod. civ.).
Cassazione Civile, Sezione 3, Sentenza 25-02-2014, n. 4446 (CED Cassazione 2014)
Art. 2051 cc (Danno cagionato da cosa in custodia) – Giurisprudenza
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione notificata in data 19.9.2001 (OMISSIS) e (OMISSIS), in proprio e quali esercenti la potestà genitoriale sulla figlia minore (OMISSIS), esponevano che in data 18.3.2000, alle ore 18 circa in Angri, via (OMISSIS), nei locali del centro sportivo (OMISSIS) srl, la minore subiva un grave infortunio dopo aver partecipato ad una lezione di nuoto scivolando sul pavimento bagnato, sdrucciolevole e privo di tappetini antiscivolo, in prossimità del gradino che separava lo spogliatoio dal vano docce. In conseguenza della caduta, la minore riportava la frattura del terzo distale della tibia e veniva ricoverata in ospedale ove le veniva ingessata la gamba. Ciò premesso, gli attori convenivano in giudizio la (OMISSIS) chiedendone la condanna al risarcimento dei danni. In esito al giudizio, in cui si costituivano la convenuta resistendo alla domanda e la Winterthur Assicurazioni Spa, chiamata in causa dall'(OMISSIS), il Tribunale di Nocera Inferiore condannava la convenuta al risarcimento danni nella misura di Euro 8.984,79 oltre interessi e rivalutazione; condannava la Winterthur al rimborso delle somme pagate dalla convenuta; provvedeva al governo delle spese. Avverso tale decisione proponeva appello la Aurora Assicurazioni Spa, succeduta alla Winterthur, ed in esito al giudizio, in cui si costituivano gli altri appellati, la Corte di Appello di Salerno con sentenza depositata in data 6 aprile 2007, dichiarava il concorso di colpa tra l'(OMISSIS) e gli attori e condannava la convenuta al risarcimento danni al pagamento della somma di Euro 3.649,95 oltre interessi dal giorno del sinistro, precisata in Euro 2.173,86 via via rivalutata; condannava l’Aurora a tenere indenne l'(OMISSIS) da ogni esborso; provvedeva infine al governo delle spese. Avverso la detta sentenza (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) hanno proposto ricorso per cassazione articolato in nove motivi. Resiste con controricorso l’Aurora Assicurazioni.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Deve accogliersi preliminarmente l’eccezione – formulata dalla controricorrente – di inammissibilità del ricorso, proposto da (OMISSIS) e (OMISSIS), quali esercenti la potestà genitoriale sulla figlia minore (OMISSIS). E ciò, per effetto del raggiungimento della maggiore età da parte della rappresentata:
circostanza quest’ultima riconosciuta dagli stessi ricorrenti nel ricorso in esame, in cui viene precisata la data di nascita della giovane Coppola (27.5.1987).
Passando all’esame della prima doglianza, va rilevato che i ricorrenti ((OMISSIS) e (OMISSIS) in proprio, nonché la stessa (OMISSIS)) deducendo la “nullità della sentenza per contraddittorietà della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, hanno censurato la sentenza impugnata perché dalla complessiva motivazione non sarebbe dato comprendere, neanche in modo implicito, se il giudice d’appello ha deciso la controversia sulla base dell’art. 2051 ovvero dell’art. 2043 c.c.. Ha quindi concluso il motivo con il seguente quesito di diritto: “in relazione ad un sinistro occorso alì utente di una piscina privata, scivolata sul pavimento bagnato – sfornito di tappetini in plastica – nel mentre si accingeva ad azionare la doccia tramite introduzione di un gettone in una gettoniera collocata lontana dalla predetta doccia – in un punto insicuro e di difficile accesso – è possibile ritenere, come ha fatto la Corte di appello, che la responsabilità del gestore della piscina concorra con quella del danneggiato per non aver percepito il pericolo insito nel suddescritto stato dei luoghi?”. Con la seconda doglianza per violazione e falsa applicazione dell’art. 2051 c.c., parte ricorrente lamenta che la Corte di Appello avrebbe dovuto decidere la controversia sulla base dell’art. 2051 c.c.. Ha quindi concluso il motivo con il seguente quesito di diritto “dica la Corte che la responsabilità non poteva essere accertata alla stregua dei principi della responsabilità aquilana di cui all’art. 2043 c.c., come ha fatto il giudice di merito, ma in virtù delle disposizioni di cui all’art. 2051 c.c., per danni cagionati da cose in custodia posto che tale norma trova applicazione anche nell’ipotesi in cui il danno si sia verificato in conseguenza dello sviluppo di un agente dannoso sorto nella cosa alterandone il carattere, originariamente non offensivo, cosi da provocarne un’intrinseca attitudine lesiva”.
Con la terza doglianza, deducendo la “nullità della sentenza per erronea e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, parte ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per aver il giudice del merito trascurato che il custode della piscina per liberarsi della presunzione aveva l’onere di fornire la prova liberatoria indicando la causa del danno estranea alla sua sfera di azione e, come tale, integrante il caso fortuito. Ha quindi concluso il motivo con il seguente quesito di diritto “in ipotesi di un sinistro occorso all’utente di una piscina privata, scivolata sul pavimento bagnato – sfornito di tappetini in plastica – nel mentre si accingeva ad azionare la doccia tramite introduzione di un gettone in una gettoniera collocata lontana dalla predetta doccia – in un punto insicuro e di difficile accesso – il comportamento del danneggiato, incamminatosi verso la suddetta gettoniera al fine di azionare la doccia, può di fatto integrare gli estremi del caso fortuito, nel senso di un fattore esterno che, interferendo nella situazione in atto, abbia di per sè concorso a produrre l’evento?”. I motivi in questione, che vanno esaminati congiuntamente in quanto sia pure sotto diversi ed articolati profili, prospettano ragioni di censura intimamente connesse tra loro, sono inammissibili. Il primo ed il terzo motivo, in particolare, sono inammissibili per un duplice ordine di considerazioni.
Ed invero, in primo luogo, l’inammissibilità deriva dal rilievo che entrambe le doglianze, pur afferendo a vizi motivazionali, sono accompagnati a quesiti di diritto e non già a quesiti di fatto o momento di sintesi, in cui siano espressamente e chiaramente indicati sia il fatto controverso, riguardo al quale si assuma l’omissione, la contraddittorietà o l’insufficienza della motivazione sia le ragioni per cui la motivazione sarebbe inidonea a sorreggere la decisione. Ed è appena il caso di osservare che il suddetto onere non può ritenersi rispettato qualora solo la completa lettura del motivo, all’esito dell’interpretazione svolta dalla Corte, consenta di comprendere quale sia il fatto controverso e quali siano le ragioni del dedotto vizio motivazionale.
In secondo luogo, l’inammissibilità – la considerazione investe tutte le tre doglianze – discende dal rilievo che gli attori in primo grado avevano invocato la responsabilità della convenuta ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., come si evince dalla lettura della sentenza impugnata e dallo stesso ricorso in esame, da cui risulta che a fondamento della domanda essi in primo grado avevano dedotto la colpa della società convenuta in quanto al momento del sinistro il pavimento dello spogliatoio-doccia era sdrucciolevole perché bagnato e privo di tappetini antiscivolo.
Del resto, ancor ora, nel presente ricorso, nella formulazione dei quesiti di diritto, i ricorrenti insistono nell’invocare la colpa della convenuta, fondandola sul pavimento bagnato – e quindi implicitamente sull’assenza di personale addetto al compito di asciugarlo -, sulla mancanza in loco di tappetini in plastica nonché sull’infelice scelta di collocare la gettoniera per l’attivazione della doccia lontano dalla stessa “in un punto insicuro e di difficile accesso”.
In definitiva, deve escludersi che gli attori avessero sin dall’atto introduttivo del giudizio enunciato in termini chiari situazioni di fatto suscettibili di essere valutate come idonee ad integrare la fattispecie contemplata dal detto art. 2051 c.c., avendo essi richiamato l’attenzione solo su circostanze atte ad evidenziare la colpa della convenuta, laddove la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia prevista dall’art. 2051 cod. civ., essendo fondata sulla mera esistenza d’un nesso causale tra la cosa ed il danno, prescinde dall’accertamento del carattere colposo dell’attività o del comportamento del custode. Ed è appena il caso di aggiungere che, per come può evincersi dalla lettura dell’impugnata sentenza, la stessa attività istruttoria svolta in primo grado investiva i profili della responsabilità per colpa della società convenuta, sicché può concludersi che sia il tema probatorio sia quello decisionale afferivano all’applicabilità, al caso dedotto, della fattispecie normativa delineata dall’art. 2043 c.c.. Tutto ciò premesso, va quindi osservato che il divieto di introdurre domande nuove (la cui violazione è rilevabile d’ufficio da parte del giudice) non consente ora agli attori, in considerazione delle diverse regole di imputazione della responsabilità previste dagli art. 2043 e 2051 c.c. (ed invero, le seconde sono più favorevoli per i danneggiati comportando un’inversione dell’onere della prova) di dolersi del fatto che i giudici di entrambi i gradi di merito abbiano accertato la responsabilità della società gerente la piscina alla stregua dei principi di cui all’art. 2043 cod. civ., piuttosto che alla stregua di quelle di cui all’art. 2051 c.c.. Con la conseguente inammissibilità delle relative doglianze alla stregua delle considerazioni svolte.
Passando alla quarta doglianza, svolta per violazione e falsa applicazione degli artt. 342 e 112 c.p.c., va rilevato che, ad avviso dei ricorrenti, il giudice di appello avrebbe dovuto dichiarare inammissibile il motivo di impugnazione avverso il capo della decisione relativo alla liquidazione del danno per difetto di specificità, essendosi l’appellante limitato a dedurre che il primo giudice, trattandosi di una lesione micro permanente, avrebbe dovuto tener presente che la stessa non incideva direttamente sul reddito della vittima per cui il danno andava liquidato in via equitativa e non con il criterio del metodo tabellare, senza indicare le ragioni per le quali l’applicazione dei parametri di cui alle citate tabelle aveva reso erronea la liquidazione equitativa.
La censura è infondata. Se è vero che l’art. 342, richiede espressamente che i motivi dell’appello siano specifici, occorre chiarire che la ratio di tale norma deve essere individuata nella necessità di consentire più agevolmente la corretta determinazione del quantum appellatimi, senza che il giudice e le parti appellate siano costrette ad un’attività di interpretazione delle ragioni di censura, che non solo la legge non affida loro ma che, soprattutto, e la considerazione è decisiva, potrebbe tradire il vero contenuto dei motivi di gravame. Ma se questo è vero non può trascurarsi che l’art. 342, non richiede una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell’impugnazione, in rigida e scolastica contrapposizione alle considerazioni contenute nella sentenza impugnata, purché l’appello – e si tratta del rilievo decisivo – consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, identificando esattamente i punti da esaminare, ed alle controparti di poter svolgere senza alcun concreto pregiudizio la propria attività difensiva in relazione alle ragioni di fatto e di diritto per le quali era stato proposto gravame. Quindi, sulla base dell’orientamento costante di questa Corte secondo cui l’atto di appello non esige particolari formalità, si deve affermare conclusivamente che il requisito della specificità può e deve ritenersi sussistente quando l’atto d’impugnazione consenta di individuare con certezza le statuizioni impugnate nonché le ragioni del gravame, secondo una verifica che va fatta in concreto, caso per caso. Ed è appena il caso di sottolineare come nel caso di specie i giudici di seconde cure ebbero occasione con tutta evidenza di soffermarsi dettagliatamente sulle ragioni dell’appello proposto e la parte appellata ebbe la possibilità di svolgere senza alcun concreto pregiudizio la propria attività difensiva in relazione alle ragioni di fatto e di diritto per le quali era stato proposto gravame. Passando alla quinta doglianza, va osservato che, deducendo l’omessa ovvero insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, parte ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per aver il giudice del merito operato una riduzione degli importi riconosciuti dal giudice di primo grado senza fornire alcuna motivazione a riguardo. Anche tale censura non coglie nel segno ove si consideri che la Corte di appello ha provveduto alla rideterminazione delle somme dovute, ritenuta l’eccessività di quelle stabilite dal primo giudice, sulla base di precisi parametri, specificamente indicati, dall’adozione dei quali derivava la riduzione delle somme. In particolare, il danno per ciascun giorno di inabilità assoluta andava determinato nella misura di Euro 40,16; il danno biologico andava liquidato in via equitativa, trattandosi di micro permanenti e di evento anteriore all’entrata in vigore della legge n.57/2001; il danno morale andava liquidato in un 1/4 ed 1/2 del danno biologico; le spese mediche, terapeutiche e farmaceutiche, andavano riconosciute nella misura documentata con ricevute, quietanze, scontrini, ritenuta giustificata dal CTU. Tutto ciò premesso e considerato, risulta con chiara evidenza come la Corte territoriale abbia argomentato adeguatamente sul merito della controversia con una motivazione sufficiente, logica, non contraddittoria e rispettosa della normativa in questione. Nè d’altra parte il motivo del ricorso in esame è riuscito ad individuare effettivi vizi logici o giuridici nel percorso argomentativo dell’impugnata decisione.
Con la sesta doglianza, svolta per violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 c.c., comma 2, nonché artt. 112, 180, 183 e 345 c.p.c., i ricorrenti lamentano che il giudice di appello non avrebbe
potuto ridurre di ufficio la misura del danno, in mancanza di una specifica eccezione del danneggiante.
Anche tale censura è infondata. Ciò, alla luce del costante orientamento di questa Corte, secondo cui l’ipotesi del concorso di colpa del danneggiato di cui all’art. 1227 cod. civ., comma 1, non concretando un’eccezione in senso proprio, ma una semplice difesa, dev’essere esaminata e verificata dal giudice anche d’ufficio, attraverso le opportune indagini sull’eventuale sussistenza della colpa del danneggiato e sulla quantificazione dell’incidenza causale dell’accertata negligenza nella produzione dell’evento dannoso, indipendentemente dalle argomentazioni e richieste formulate dalla parte; pertanto, anche il giudice d’appello può valutare d’ufficio tale concorso di colpa nel caso in cui il danneggiante si limiti a contestare “in toto” la propria responsabilità, (v. Cass. n. 6529/2011, Cass. n. 23734/09).
Passando alla settima doglianza, svolta per violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1227 e 2048 c.c., va rilevato che i ricorrenti lamentano che il giudice di appello avrebbe errato nel ritenere che la madre della minore avrebbe potuto accompagnare la figlia una volta percepita e ritenuta pericolosa l’esistenza del gradino e la collocazione della gettoniera. Ha concluso quindi il motivo di impugnazione con il seguente quesito di diritto: “dica la Corte che, per effetto della iscrizione al corso di nuoto organizzato dalla società (OMISSIS) srl, è sorto a carico esclusivo di quest’ultima l’obbligo di sorvegliare la minore Coppola Valerla al fine di evitare che, utilizzando le attrezzature in dotazione alla struttura ovvero muovendosi nei locali, l’iscritta possa subire danni. Conseguentemente, il verificarsi di un evento lesivo in relazione alla suddetta causa, fonda una presunzione di responsabilità del gestore” La censura è inammissibile in quanto il quesito di diritto non è linea con le prescrizioni di legge. Invero, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, il quesito di diritto “deve compendiare: a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito; b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice; c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie. È, pertanto, inammissibile il ricorso contenente un quesito di diritto che si limiti a chiedere alla S.C. puramente e semplicemente di accertare se vi sia stata o meno la violazione di una determinata disposizione di legge” (Cass., ord. n. 19769 del 2008; Cass., S.U., n. 6530 del 2008, Cass. n. 4856/09). Pertanto il quesito è inammissibile quando, come è avvenuto nel caso di specie, il ricorrente non pone alcun quesito ma chiede la conferma di una tesi esposta nel motivo del ricorso, risolvendosi ciò in una generica istanza di decisione posta nella forma dell’interpello ripetitivo, sia pure in sintesi, del contenuto della doglianza.
Parimenti, è inammissibile l’ottava doglianza, con cui, deducendo la “erronea e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, parte ricorrente ha censurato la sentenza impugnata perché la motivazione sarebbe assolutamente apodittica non ricorrendo la prova che i genitori conoscessero la pericolosità dei luoghi. Ha quindi concluso il motivo con il seguente quesito di diritto. ” in ipotesi di un sinistro occorso all’utente di una piscina privata, scivolata sul pavimento bagnato – sfornito di tappetini in plastica – nel mentre si accingeva ad azionare la doccia tramite introduzione di un gettone in una gettoniera collocata lontana dalla predetta doccia (in un punto insicuro e di difficile accesso) al fine di ritenere che i genitori della minore infortunata sapessero che i luoghi (spogliatoio-doccia) erano pericolosi, sono sufficienti le circostanze che altri genitori accompagnassero i propri figli attendendoli nello spogliatoio e che taluno avesse notizia di altri simili incidenti già accaduti presso la struttura?”.
Ed invero, l’inammissibilità deriva dal rilievo che la doglianza, pur afferendo a vizi motivazionali, è accompagnata a un quesito di diritto e non già a un momento di sintesi, in cui siano espressamente e chiaramente indicati sia il fatto controverso, riguardo al quale si assumeva l’omissione o l’insufficienza della motivazione sia le ragioni per cui la motivazione sarebbe inidonea a sorreggere la decisione.
Passando infine all’esame dell’ultima doglianza, svolta per violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2051, 2055, nonché art. 2697 c.c., i ricorrenti lamentano che il giudice di appello avrebbe errato per aver ridotto del 50% il risarcimento spettante alla minore sulla base della culpa in vigilando a carico dei genitori che avevano agito in nome e per conto del minore.
Quest’ultima censura, attinente alla quantificazione della misura di responsabilità della società convenuta, è infondata. A riguardo, occorre premettere che in un giudizio di risarcimento danni, a fronte della domanda attrice, il giudice deve proporsi d’ufficio l’indagine in ordine all’eventuale concorso di colpa del danneggiato; e ciò, ai fini di una corretta determinazione dell’incidenza dell’apporto causale di parte convenuta. Una volta verificata l’ipotesi del fatto colposo del creditore, che abbia concorso al verificarsi dell’evento dannoso, il giudice deve procedere ad un giudizio riguardante l’attribuzione delle percentuali di colpa, il quale è il risultato di una valutazione di fatto, rimessa al suo prudente apprezzamento, la quale, tradottasi in termini aritmetici, è insindacabile in sede di legittimità, se non esclusivamente sotto il profilo di una motivazione intrinsecamente contraddittoria, nel senso che l’espressione percentuale dell’apporto causale colposo stabilita dal giudice del merito sia incompatibile con le osservazioni logiche che la sorreggono. Tale ipotesi non ricorre nel caso di specie, in cui la Corte di merito, presi in considerazione i danni che la parte danneggiata (la stessa (OMISSIS) nonché i suoi genitori in proprio) avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, ha concluso in forza di una sua valutazione discrezionale, correttamente motivata, ponendo l’apporto causale delle condotte della parte danneggiata e della (OMISSIS) sul medesimo livello di responsabilità. Nè tale percorso decisionale merita censura alla luce della necessaria esigenza di provvedere alla determinazione dell’incidenza dell’apporto causale della condotta della società convenuta.
Considerato che la sentenza impugnata appare esente dalle censure dedotte, ne consegue che il ricorso per cassazione in esame, siccome infondato, deve essere rigettato. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, alla stregua dei soli parametri di cui al D.M. n. 140 del 2012, sopravvenuto a disciplinare i compensi professionali.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso di (OMISSIS) e (OMISSIS), quali genitori esercenti la potestà sulla figlia (OMISSIS) e rigetta il ricorso, proposto dai suddetti in proprio, nonché quello proposto da (OMISSIS). Condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, in favore di parte controricorrente, che liquida in complessivi Euro 5.200,00 di cui Euro 5.000,00 per compensi, oltre accessori di legge, ed Euro 200,00 per esborsi.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 gennaio 2014.