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Cassazione Civile 5368/2018 – Appalto – Recesso unilaterale del committente

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Sentenza 5368/2018

Appalto – Recesso unilaterale del committente ai sensi dell’art. 1373 c.c. – Esercizio del diritto di recesso ex art. 1671 c.c. da parte del committente

La domanda dell’appaltatore volta a conseguire dal committente il corrispettivo previsto per l’esercizio della facoltà di recesso pattuita in suo favore ai sensi dell’art. 1373 c.c. presuppone l’esistenza di un patto espresso che attribuisca al committente la facoltà di recedere dal contratto prima che questo abbia avuto un principio di esecuzione, nonché l’avvenuto esercizio del recesso entro tale limite temporale, ed ha per oggetto la prestazione, in corrispettivo dello “ius poenitendi”, di una somma (“multa poenitentialis”) integrante un debito di valuta e non di valore; diversa, invece è, la domanda dello stesso appaltatore di essere tenuto indenne dal committente avvalsosi del diritto di recesso riconosciutogli dall’art. 1671 c.c., la quale presuppone l’esercizio, in un qualsiasi momento posteriore alla conclusione del contratto e quindi anche ad iniziata esecuzione del medesimo, di una facoltà di recesso che al committente è attribuita direttamente dalla legge ed ha per oggetto un obbligo indennitario.

Cassazione Civile, Sezione 2, Sentenza 7 marzo 2018, n. 5368   (CED Cassazione 2018)

Art. 1671 cc (Recesso unilaterale dal contratto di appalto) – Giurisprudenza

Art. 1373 cc (Recesso unilaterale dal contratto) – Giurisprudenza

 

  

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO

  1. Con atto di citazione notificato il 14 gennaio 1997 (OMISSIS) e (OMISSIS), in proprio e quali legali rappresentanti della (OMISSIS) S.n.c. di (OMISSIS) e (OMISSIS), convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Firenze la (OMISSIS), poi divenuta (OMISSIS) S.p.A., deducendo che avevano sottoscritto con la convenuta un contratto di appalto di servizi in data 18 maggio 1994 con il quale era stata affidata all’attrice l’attività di ritiro, trasporto e consegna documenti per conto della controparte e nella zona del forlivese, in favore di terzi di volta in volta richiedenti.

Assumevano che nel contratto era prevista la clausola di rinnovazione annuale in assenza di comunicazione della disdetta da parte della committente da effettuare almeno sessanta giorni prima della scadenza naturale.

Pertanto, poichè la controparte aveva disdettato il contratto in data 15/11/1996, omettendo di dare seguito alla sua esecuzione sino alla prevista scadenza, la convenuta andava condannata ad indennizzare la società attrice per il recesso unilaterale dal contratto di appalto, con la condanna altresì all’importo dovuto per le prestazioni già eseguite sino alla data del recesso, al rimborso delle spese sostenute per l’acquisto dei mezzi e degli strumenti indispensabili per adempiere agli obblighi contrattuali, nonchè al pagamento del mancato guadagno non realizzato tra la data del recesso sino alla normale scadenza del contratto di appalto.

Sì costituiva la convenuta che si opponeva all’accoglimento della domanda, assumendo la piena legittimità del proprio recesso.

All’esito dell’istruttoria, il Tribunale adito con la sentenza n. 498 del 9 febbraio 2007, condannava la convenuta al pagamento in favore della società attrice della somma di Euro 65.000,00, oltre interessi legali.

A seguito di appello proposto da (OMISSIS), la Corte d’Appello di Firenze, con la sentenza n. 358 del 27 febbraio 2013, in parziale riforma della decisione appellata, ha condannato l’appellante al pagamento della somma di Euro 35.171,10 oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla domanda al saldo, condannando il (OMISSIS) ed il (OMISSIS) alla restituzione di quanto percepito in eccedenza in virtù della provvisoria esecuzione della sentenza del Tribunale.

In primo luogo, dopo avere disatteso alcune eccezioni preliminari di carattere processuale, rilevava che risultava corretta la riconducibilità della fattispecie nella previsione di cui all’articolo 1671 c.c. e che a tal fine occorreva rilevare che una prima missiva inviata dalla committente in data 27/11/1995 non poteva reputarsi espressiva del diritto di recesso, sia per il tenore letterale della missiva, sia per il fatto che il rapporto aveva avuto la sua regolare prosecuzione sino alla data in cui era pervenuta una seconda dichiarazione questa volta effettivamente contenente un recesso (15/11/1996).

Tale posteriore missiva era, infatti, effettivamente espressiva della volontà di recedere unilateralmente da parte della committente ma esponeva, in quanto manifestata non in conformità della previsione temporale prevista nel contratto, alle conseguenze indennitarie di cui all’articolo 1671 c.c..

Peraltro la norma de qua, proprio perchè non contrastata da alcuna diversa previsione in materia di somministrazione, ben poteva trovare applicazione anche al contratto in esame correttamente riconducibile ad un’ipotesi di appalto di servizi, e ciò giusta la previsione di rinvio alle norme in tema di appalto dettata dall’articolo 1677 c.c..

Passando alla determinazione dell’indennizzo, in primo luogo riconosceva l’importo di Euro 6.955,74 emergente dalle fatture emesse dalla società attrice per prestazioni eseguite in data anteriore alla comunicazione del recesso, e che non risultavano saldate.

Quindi, e sempre sulla base degli accertamenti condotti dall’ausiliario di ufficio nominato in grado di appello, individuava l’ammontare delle spese sostenute dalla (OMISSIS), e da porsi in relazione allo svolgimento del servizio di appalto.

Infine, procedeva alla determinazione del mancato guadagno.

A tale scopo, tenuto conto dell’ammontare delle varie fatture emesse dall’attrice nel corso dei vari anni in cui l’appalto aveva avuto esecuzione, individuava quello che era il fatturato medio mensile, che però non poteva essere considerato corrispondente al mancato guadagno, occorrendo detrarre da tale importo i costi sostenuti.

La sentenza, dando contezza delle indicazioni fornite dal CTU, rilevava come la percentuale delle spese generali potesse essere individuata avvalendosi del parametro fornito dalle previsioni di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 207 del 2010, articolo 32, in tema di appalti pubblici, lievemente incrementato di una percentuale del 3% (al fine di compensare alcune spese variabili insuscettibili di poter essere bloccate al momento della cessazione del contratto di appalto).

Tale percentuale andava poi incrementata di un ulteriore 10%, quale utile dell’esecutore dell’appalto, tenendo quindi conto del valore di realizzo dei beni acquistati e che erano stati considerati ai fini del calcolo delle spese sostenute dall’appaltatore.

Dalle indagini peritali era però emerso che la (OMISSIS) non operava in esclusiva per conto della convenuta, sicchè parte delle spese sostenute dalla appellata andavano imputate anche ai rapporti contrattuali intrattenuti con altri diversi committenti, dovendosi quindi pervenire a determinare il mancato guadagno nell’importo di Euro 13.215,36.

La sentenza procedeva poi alla disamina delle varie osservazioni critiche mosse all’operato dell’ausiliario, dando conto delle risposte fornite dal CTU, ritenendo tuttavia opportuno ridurre solo in parte l’indennizzo legato alle spese sostenute, dovendosi in via equitativa ipotizzare che parte dei costi potevano essere ammortizzati grazie ad una probabile attività collaterale e successiva al recesso.

(OMISSIS) e (OMISSIS), in proprio e quali legali rappresentanti della (OMISSIS) S.n.c. hanno proposto ricorso per la cassazione di tale sentenza sulla base di tre motivi.

(OMISSIS) S.p.A. ha resistito con controricorso.

  1. Preliminarmente deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dalla controricorrente per la pretesa violazione della previsione di cui dell’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 3, sul presupposto che la sua formulazione, con l’integrale riproduzione di buona parte degli atti del giudizio di merito, non consentirebbe di ricostruire in maniera adeguata il contenuto delle domande proposte, delle difese della controparte e del reale andamento del processo nei gradi di merito.

Reputa il Collegio che in realtà il ricorso, sebbene in parte appesantito da riferimenti non pertinenti alla materia attuale del contendere (si pensi alla domanda autonomamente proposta dal (OMISSIS) per la sua attività di procacciatore d’affari) ovvero dalla riproduzione integrale di atti, consenta, tramite la opportuna individuazione delle varie fasi processuali succedutesi ed il richiamo alle difese delle parti, di poter reputare soddisfatto il requisito di carattere formale in ordine alla necessaria esposizione sommaria dei fatti di causa.

  1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione o falsa applicazione degli articoli 1655, 1671 e 1223 c.c..

Si osserva che il rapporto contrattuale intercorso tra le parti è riconducibile ad un contratto di appalto di servizi, e precisamente di servizi di trasporto, così che nella realtà dei fatti la società ricorrente ebbe ad eseguire varie ed autonome prestazioni di trasporto.

Il recesso esercitato dalla committente va quindi ricondotto alla diversa previsione di cui all’articolo 1373 c.c., che implica il diritto dell’appaltatore al risarcimento del danno ex articolo 1223 c.c., che non può essere limitato al solo pregiudizio maturato sino alla data del 18/5/1997, occorrendo invece avere riguardo anche all’annualità successiva.

Inoltre il recesso esercitato dalla committente deve essere qualificato come manifestazione di abuso del diritto, essendo finalizzato a far conseguire alla società intimata dei vantaggi ulteriori e diversi rispetto a quelli conseguibili in base all’ordinaria disciplina contrattuale.

Il motivo è evidentemente privo di fondamento.

Risultano in primo luogo evidenti profili di novità delle questioni trattate che ne determinano in larga misura l’inammissibilità, non essendo dato sollevare in sede di legittimità questioni che non risultano essere state già dibattute nei precedenti gradi di merito, soprattutto laddove le medesime implichino, come nel caso di specie, evidenti accertamenti in fatto.

Ed, invero la riconducibilità della fattispecie alla previsione di cui all’articolo 1671 c.c., come si evince dalla lettura della sentenza gravata, era stata affermata già dal Tribunale, e tale conclusione era stata condivisa anche dai giudici di appello, senza che emerga che la società ricorrente abbia mai posto in discussione la correttezza della qualificazione giuridica operata. In tal senso va poi ricordato che secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 4750/1991) la domanda dell’appaltatore volta a conseguire dal committente il corrispettivo previsto per l’esercizio della facoltà di recesso pattuita in suo favore ai sensi dell’articolo 1373 c.c. e la domanda dello stesso appaltatore di essere tenuto indenne dal committente avvalsosi del diritto di recesso riconosciutogli dall’articolo 1671 c.c., sono sostanzialmente diverse in quanto la prima presuppone l’esistenza di un patto espresso che attribuisca al committente la facoltà di recedere dal contratto prima che questo abbia avuto un principio di esecuzione, nonchè l’avvenuto esercizio del recesso entro tale limite temporale, ed ha per oggetto la prestazione, in corrispettivo dello “ius poenitendi”, di una somma (“multa poenitentialis”) integrante un debito di valuta e non di valore; la seconda, invece, presuppone l’esercizio, in un qualsiasi momento posteriore alla conclusione del contratto e quindi anche ad iniziata esecuzione del medesimo, di una facoltà di recesso che al committente è attribuita direttamente dalla legge ed ha per oggetto un obbligo indennitario.

Nella vicenda in esame, come si ricava dalla lettura degli atti di causa, la società attrice lamentava che la committente avesse receduto dal contratto nel novembre del 1996, facendo cessare l’esecuzione del contratto, una volta che, in assenza di una disdetta intervenuta per l’anno in corso nel rispetto della scansione cronologica di cui all’articolo 10, il rapporto di appalto doveva reputarsi rinnovato per un altro anno, e cioè sino alla successiva scadenza del 18/5/1997.

La pretesa applicabilità della diversa previsione di cui all’articolo 1373 c.c., oltre che contrastare con la causa petendi sottoposta all’attenzione dei giudici di merito, venendo quindi a configurarsi la proposizione di una diversa domanda in questa sede, appare contrastata anche dalla diversa modalità di esercizio del recesso, operato dalla committente nel caso in esame, allorquando il contratto di appalto aveva già avuto esecuzione, e senza che peraltro, in violazione del requisito di specificità del ricorso ex articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6, la ricorrente abbia richiamato il contenuto del contratto di appalto, onde poter rinvenire al suo interno una previsione che legittimasse un esercizio del recesso ai sensi della diversa norma in questa sede invocata.

Del pari connotata da inammissibilità per novità della questione proposta solo in questa sede, è la deduzione secondo cui il recesso esercitato dalla committente andrebbe qualificato in termini di illiceità o comunque di abusività.

Ed, invero, a fronte di una pacifica previsione contrattuale che prevedeva il rinnovo automatico del contratto, e per una sola annualità, in assenza di una formale disdetta da inviare almeno sessanta giorni prima della scadenza annualmente prorogata, il recesso ante tempus esercitato dalla convenuta va indubbiamente ricondotto alla previsione di cui all’articolo 1671 c.c., esponendo la stessa alle conseguenze di carattere indennitario precisate dalla stessa norma.

Manca dalla lettura della sentenza gravata un riferimento alla figura dell’abuso del diritto, nè la ricorrente ha indicato in quali atti processuali del giudizio di merito la questione sia stata sollevata, trattandosi peraltro di tema che implica la verifica in fatto circa la intenzione della committente di conseguire vantaggi (peraltro nemmeno specificamente indicati dalla ricorrente) esorbitanti rispetto a quelli scaturenti dall’esercizio di un diritto che la legge riconosce al committente.

A tal fine va poi ricordato che (cfr. Cass. n. 9645/2011; Cass. n. 8565/1983) il recesso unilaterale del committente previsto dall’articolo 1671 c.c., costituisce esercizio di un diritto potestativo e, come tale, non esige che ricorra una giusta causa, potendo essere esercitato ad nutum (cfr. Cass. n. 11642/2003) in qualsiasi momento dell’esecuzione del contratto di appalto, ben potendo essere giustificato anche dalla sola sfiducia verso l’appaltatore (conf. Cass. n. 2236/1985).

In assenza di una diversa previsione contrattuale, ben potendo le parti (cfr. Cass. n. 12368/2002) prevedere, nell’esercizio della loro autonomia che il recesso del committente debba essere esercitato, con determinati requisiti di tempo e di forma, attesa la derogabilità convenzionale della norma in parola, correttamente i giudici di merito hanno riconosciuto la sola indennizzabilità delle conseguenze derivanti dall’esercizio del recesso, essendo, come detto, solamente affermata dalla ricorrente la natura abusiva del suo esercizio, senza però indicare, a fronte della sua pacifica configurazione come atto di esercizio di un diritto potestativo, quale sarebbe stato l’uso distorto in concreto compiuto da parte della committente.

Va altresì evidenziato che, attesa la disciplina convenuta tra le parti, che appunto prevedeva la rinnovazione annuale del contratto, in assenza di una tempestiva manifestazione di recesso almeno sessanta giorni prima della sua scadenza (cfr. per la giurisprudenza meno recente Cass. n. 3545/1975, a mente della quale anche laddove un contratto di appalto, prevedendo il diritto di recesso ad nutum del committente, si limiti a prescrivere un termine di preavviso e la forma scritta per l’esercizio del recesso medesimo, senza disciplinarne gli effetti, si deve ritenere operante, ad integrazione del contratto, la norma di cui all’articolo 1671 c.c., in base alla quale l’appaltatore, in caso di recesso unilaterale del committente, ha diritto al solo indennizzo previsto dalla norma in questione), l’appaltatore poteva legittimamente fare affidamento, una volta mancato il recesso, su di una proroga annuale, dovendo mettere in conto l’eventualità che il rinnovo non potesse verificarsi anche per l’annualità successiva, ed in mancanza di elementi, derivanti dalla condotta della controparte, che potessero indurre il legittimo affidamento circa un’ulteriore prosecuzione del rapporto.

Ciò oltre ad evidenziare l’assenza di una legittima aspettativa circa la persistenza del vincolo contrattuale per un periodo superiore a quello in relazione al quale è stato determinato l’indennizzo dovuto, esclude altresì qualsivoglia legittimità della pretesa della ricorrente di dover determinare il mancato guadagno anche in relazione al periodo successivo alla data del 18/5/1997, risultando del tutto apodittica l’affermazione fatta a pag. 59 del ricorso secondo cui occorreva considerare ai fini della determinazione dell’indennizzo ex articolo 1671 c.c., la data del 18 maggio 1998, tenuto conto di un “anno automatico di rinnovo come da documentata consuetudine nel settore di riferimento”.

  1. Il secondo motivo di ricorso denuncia ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per la sussistenza di una motivazione apparente.

Si sostiene che, in relazione alla funzione costituzionale che svolge la motivazione, la decisione gravata non consente di apprezzare la rilevanza delle censure mosse dalle parti ai mezzi istruttori, mancando in ogni caso una giustificazione esauriente e completa della decisione presa.

Anche tale motivo va disatteso.

Ed, infatti, va in limine ricordato che la sentenza impugnata risulta essere pubblicata in data successiva all’entrata in vigore della L. n. 134 del 2012 (questione che rileva anche ai fini della valutazione del terzo motivo di ricorso) ed è quindi censurabile per vizi di motivazione sulla scorta della novellata previsione di cui dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Le Sezioni Unite della Corte che con la sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053, hanno ribadito che la riformulazione dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, articolo 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’articolo 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione, ed è solo in tali ristretti limiti che può essere denunziata la violazione di legge, sotto il profilo della violazione dell’articolo 132, comma 2, n. 4.

Nella fattispecie, atteso il tenore della sentenza impugnata, deve escludersi che ricorra un’ipotesi di anomalia motivazionale riconducibile ad una delle fattispecie che, come sopra esposto, in base alla novella consentono alla Corte di sindacare la motivazione, dolendosi nella sostanza la ricorrente che la sentenza abbia recepito per relationem le conclusioni ed i passi salienti di una relazione di consulenza tecnica d’ufficio di cui ha dichiarato, sebbene con alcuni distinguo (si pensi alla riduzione operata in via equitativa dell’importo da riconoscere a titolo di spese) di condividere il merito.

Trattasi di modalità argomentativa che non incorre nel vizio di carenza di motivazione (in tal senso si veda Cass. 13845/07; 7392/94; 16368/14; 19475/05), occorrendo ricordare che la deduzione circa la mancata disamina delle critiche mosse alla consulenza tecnica si risolve pertanto in una censura sotto il profilo dell’insufficienza argomentativa, occorrendo a tal fine che il ricorrente evidenzi la loro rilevanza ai fini della decisione e l’omesso esame in sede di decisione, ma pur sempre nell’ambito della previsione di cui dell’articolo 360 c.p.c., n. 5 e non già quale error in procedendo.

Le suesposte argomentazioni, escludono che quindi le censure nella loro concreta formulazione possano essere esaminate dalla Corte, atteso che tramite le medesime si mira surrettiziamente a veicolare sotto il vizio della violazione di legge quella che è in realtà una denunzia di insufficienza motivazionale, non senza doversi altresì evidenziare che la già citata Cass. n. 8054/2014 ha altresì sottolineato che “L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie”, essendo quindi evidente che il motivo, ove anche ritenuta ammissibile la proposizione del ricorso ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, non appare idoneo a denunziare l’omesso esame di un fatto decisivo.

  1. Il terzo motivo di ricorso, infine, denuncia l’omessa ed insufficiente motivazione ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto basata esclusivamente su di una CTU lacunosa e carente.

Il motivo appare già prima facie inammissibile in quanto si avvale ai fini della denuncia del vizio di motivazione, della formulazione non più applicabile della norma indicata in rubrica, omettendo di confrontarsi con il novellato testo di legge, che impone la denuncia dell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

La censura si risolve nella critica al giudice di merito per avere fatto proprie le conclusioni del CTU, essendosi omessa la necessaria indicazione dello specifico fatto decisivo ai fini del giudizio di cui sarebbe stata omessa la disamina.

La critica si rivolge nella sostanza all’apprezzamento ed alla ricostruzione dei dati probatori così come operata, nell’ambito delle sue competenze tecniche da parte dell’ausiliario d’ufficio, che avrebbero fuorviato anche la valutazione del giudice di appello, manifestandosi in tal modo come la censura attenga direttamente alla valutazione in fatto, e che come tale esuli dal novero delle censure legittimamente suscettibili di poter essere esaminate in sede di legittimità.

Oltre a contestarsi la metodologia seguita dall’ausiliario di ufficio (che peraltro, come si rileva dalla stessa lettura del ricorso – che contiene la pressochè integrale trascrizione della relazione tecnica d’ufficio – ha fornito ampie risposte ai rilievi formulati dai periti di parte), e la valutazione delle emergenze probatorie, sebbene in chiave tecnica (dovendosi peraltro escludere che nella fattispecie al CTU sia stato demandato il compito di integrare la valutazione in punto di diritto della vicenda controversa), al CTU si imputa di avere fornito una quantificazione del danno scaturente dal recesso della committente sulla base di elementi probatori nemmeno allegati dalle parti.

L’affermazione, oltre a non confrontarsi con il tenore della perizia d’ufficio, la quale ha proceduto alle sue conclusioni sulla scorta della documentazione versata in atti dalle parti, segnalando anche i punti nei quali la stessa appariva incompleta, e fornendo delle indicazioni utili per pervenire ad una valutazione del danno di tipo equitativo (per la legittimità del ricorso al criterio equitativo per il calcolo dell’indennizzo di cui all’articolo 1671 c.c., si veda Cass. n. 2608/1983) e peritandosi di fornire dei logici criteri per colmare le talvolta segnalate lacune documentali, non si avvede che in tal modo si perverrebbe a conclusioni sfavorevoli alla stessa ricorrente, che rendono la censura inammissibile per evidente difetto di interesse.

Ed, invero, una volta richiamato il principio per il quale (cfr. Cass. n. 8853/2017; Cass. n. 9132/2012), in ipotesi di recesso unilaterale del committente dal contratto d’appalto, ex articolo 1671 c.c., grava sull’appaltatore, che chieda di essere indennizzato del mancato guadagno, l’onere di dimostrare quale sarebbe stato l’utile netto da lui conseguibile con l’esecuzione delle opere appaltate, costituito dalla differenza tra il pattuito prezzo globale dell’appalto e le spese che si sarebbero rese necessarie per la realizzazione delle opere, salva la facoltà, per il committente, di provare che l’interruzione dell’appalto non ha impedito all’appaltatore di realizzare guadagni sostitutivi ovvero gli ha procurato vantaggi diversi, la dedotta assenza di elementi probatori, con la conseguente impossibilità per l’ausiliario di poter supplire a tali lacune, imporrebbe, in applicazione della regola di giudizio di cui all’articolo 2697 c.c., di dover pervenire al rigetto della domanda indennitaria, e non anche, come invece sotteso alla censura mossa, ad una liquidazione dell’indennizzo in termini più favorevoli di quanto determinato dal giudice di appello, sulla scorta delle risultanze della CTU.

Anche tale motivo va pertanto disatteso, con il conseguente rigetto del ricorso.

  1. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
  2. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’articolo 13 del testo unico di cui alDecreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115- della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al rimborso delle spese che liquida in complessivi Euro 4.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori come per legge.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, I. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^ Sezione Civile, in data 10 gennaio 2018.

 

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