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Cassazione Civile 5415/2019 – Opposizione a decreto ingiuntivo – Domanda riconvenzionale dell’opponente – Reconventio reconventionis

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Sentenza 5415/2019

Opposizione a decreto ingiuntivo – Domanda riconvenzionale dell’opponente – Reconventio reconventionis

Nell’ordinario giudizio di cognizione, che si instaura a seguito dell’opposizione a decreto ingiuntivo, l’opposto, rivestendo la posizione sostanziale di attore, non può avanzare domande diverse da quelle fatte valere con il ricorso monitorio, salvo il caso in cui, per effetto di una riconvenzionale formulata dall’opponente, egli si venga a trovare, a sua volta, nella posizione processuale di convenuto, al quale non può essere negato il diritto di difesa, rispetto alla nuova o più ampia pretesa della controparte, mediante la proposizione (eventuale) di una “reconventio reconventionis” che deve, però, dipendere dal titolo dedotto in causa o da quello che già appartiene alla stessa come mezzo di eccezione ovvero di domanda riconvenzionale. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di appello che, in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, aveva dichiarato l’inammissibilità della “reconventio reconventionis” degli opposti poiché, concernendo il pagamento delle competenze spettanti al loro “de cuius” per incarichi diversi e ulteriori rispetto a quelli oggetto dell’originario ricorso da essi presentato, era priva di collegamenti con la domanda riconvenzionale dell’opponente, che riguardava il risarcimento dei danni per colpa professionale relativa, invece, ai contratti con riguardo ai quali era stata avanzata la richiesta monitoria).

Attività negoziale “iure privatorum” posta in essere dalla Chiesa cattolica e dagli enti ecclesiastici

L’attività negoziale “iure privatorum” posta in essere dalla Chiesa cattolica e dagli enti ecclesiastici con riferimento a beni di loro proprietà sottoposti al codice civile – ove non diversamente previsto dalle leggi speciali che li riguardano – è disciplinata dalle norme di relazione, alla cui osservanza la medesima Chiesa e le sue istituzioni sono tenute, al pari degli altri soggetti giuridici, poiché da un lato, esse sono inidonee a comprimere la libertà religiosa e le connesse alte finalità tutelate, in ottemperanza al dettato costituzionale, dalla norma concordataria di cui all’art. 2 della l. n. 121 del 1985, e, dall’altro, lo Stato non ha inteso rinunciare alla tutela di beni giuridici primari garantiti dalla Costituzione. Pertanto, ai fini della validità ed efficacia dei contratti conclusi, è privo di rilievo l’assetto concordatario relativo alla piena autonomia riconosciuta alla Chiesa cattolica con riguardo alla sua organizzazione interna, nella parte in cui affida ai Parroci la titolarità della parrocchia e la gestione ed amministrazione del relativo patrimonio, escludendo ogni ruolo dell’Arcidiocesi, atteso che detta organizzazione riguarda il sistema canonico e non incide, in assenza di normativa specifica, sull’agire privatistico regolato dal codice civile. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto infondata la pretesa dell’Arcidiocesi ricorrente che aveva sostenuto di non essere contrattualmente responsabile dell’incarico di progettazione e direzione lavori conferito dal Vescovo ad un professionista rispetto a beni ricadenti nel patrimonio di singole parrocchie, enti forniti di propria autonomia giuridico-economica, perché egli era privo di potere di rappresentanza secondo le norme concordatarie e l’organizzazione interna della Chiesa cattolica, a nulla rilevando che la stessa Arcidiocesi avesse seguito i detti lavori fino alla loro ultimazione).

Cassazione Civile, Sezione 2, Sentenza 25-2-2019, n. 5415   (CED Cassazione 2019)

Art. 645 cpc (Opposizione a decreto ingiuntivo) – Giurisprudenza

 

 

FATTI DI CAUSA

Con ricorso depositato in data 3.4.1996, (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) (quali eredi dell’arch. (OMISSIS)), chiedevano e ottenevano dal Presidente del Tribunale di Salerno l’emissione nei confronti dell’ARCIDIOCESI di (OMISSIS) del decreto ingiuntivo n. 345/1996 di pagamento in loro favore, a titolo di compenso per prestazioni professionali del loro dante causa, della somma di Lire 345.756.172 (pari a Euro 178.578,16), oltre IVA, interessi legali dal 7.3.1994 e spese del procedimento monitorio. A sostegno della domanda d’ingiunzione i ricorrenti deducevano che il loro congiunto, per mandato conferitogli dall’Arcivescovo del tempo, aveva curato la progettazione e la direzione di lavori che avevano interessato edifici danneggiati dagli eventi sismici del 1980-1981, ubicati nella circoscrizione dell’Arcidiocesi.

Con atto di citazione del 28.5.1996, l’Arcidiocesi proponeva opposizione al decreto ingiuntivo, deducendo tra l’altro (per quanto qui interessa) l’inadempimento, da parte del professionista, degli obblighi scaturiti dal conferimento dell’incarico di provvedere a quanto necessario per attivare l’iter burocratico inteso a ottenere finanziamenti per i lavori da fare, ivi compresa la direzione di eventuali lavori affidati in concessione. Ciò a causa di gravissimi e ingiustificati ritardi nella predisposizione dei progetti, oltre che di gravi errori nel rilievo dello stato di fatto del (OMISSIS), con conseguente responsabilità del professionista per i danni cagionati alla committente, per la qual cosa spiegava domanda riconvenzionale.

Ciò premesso, l’opponente chiamava in causa gli opposti e il MINISTERO dei LAVORI PUBBLICI, nonchè la REGIONE CAMPANIA, chiedendo di revocare il decreto ingiuntivo n. 345/1996 e, tra l’altro, in accoglimento della domanda riconvenzionale, di condannare gli opposti al risarcimento dei danni derivanti da inadempimenti, errori e ritardi del loro dante causa, anche in relazione agli interventi di recupero su immobili non rientranti nel patrimonio dell’Ente, in caso di rigetto dell’eccezione di difetto di legittimazione passiva.

Si costituivano in giudizio gli opposti, i quali resistevano all’opposizione chiedendone il rigetto, e proponevano domanda riconvenzionale, deducendo di essere creditori, nei confronti dell’opponente, dell’ulteriore somma di Lire 466.589.072, oltre Lire 7.003.109, per diritti dell’Ordine Professionale, IVA e Cassa Previdenza. Contestavano l’eccepito inadempimento e i lamentati danni e rilevavano la mancata specifica indicazione dei pretesi danni, oltre che la mancanza di prova.

Si costituivano il Ministero dei Lavori Pubblici, che chiedeva, in via pregiudiziale, di dichiarare il difetto di giurisdizione dell’autorità adita e in subordine il rigetto della domanda; e la Regione Campania, che concludeva anch’essa per il rigetto della domanda.

Espletata C.T.U., alla quale si aggiungevano due relazioni di chiarimenti, la causa veniva decisa con sentenza n. 3692/2005, depositata in data 22.12.2005, con la quale il Tribunale: 1) revocava il decreto ingiuntivo e condannava l’opponente al pagamento, nei confronti degli opposti, della somma di Lire 159.500,457 (pari a Euro 82.375,11), con gli interessi legali dal 7.3.1994 sino al soddisfo; 2) rigettava la domanda riconvenzionale spiegata dall’opponente; 3) dichiarava improponibile la domanda formulata dall’opponente nei confronti del Ministero dei Lavori Pubblici; 4) rigettava la domanda formulata dall’opponente nei confronti della Regione Campania; 5) dichiarava inammissibile la domanda formulata dagli opposti nella comparsa di costituzione del 24.9.1996; 6) compensava per intero tra l’opponente e gli opposti le spese di lite, comprese quelle di CTU; 7) compensava per intero le spese tra opponente e chiamati in causa.

Avverso detta sentenza proponevano appello gli eredi (OMISSIS), deducendo: 1) che gli incarichi indicati nei punti da a) a f) del gravame, per tabulas erano riconosciuti dall’Arcidiocesi, come risultava dall’intestazione degli atti alla Curia Vescovile di (OMISSIS); 2) che il Giudice di primo grado aveva erroneamente dichiarato inammissibile la domanda riconvenzionale proposta dai medesimi; 3) che l’Arcidiocesi, per effetto della rilevante soccombenza, andava condannata alle spese di lite. Chiedevano che l’Arcidiocesi di (OMISSIS) fosse condannata anche al pagamento di Euro 31.708,89 per le prestazioni professionali richieste con il decreto ingiuntivo, nonchè di Euro 157.562,90 per le prestazioni professionali richieste con la domanda riconvenzionale, avanzata nella comparsa di costituzione di primo grado del 24.9.1996, per complessivi Euro 189.206,79, oltre interessi legali dal 7.3.1994.

Si costituiva in giudizio l’Arcidiocesi di (OMISSIS), chiedendo il rigetto dell’appello e proponendo appello incidentale. Sosteneva l’appellata che l’opera professionale dell’arch. (OMISSIS) si riferisse a beni estranei al patrimonio diocesano, ma ricadenti nel patrimonio delle singole parrocchie e che la circostanza che gli Arcivescovi avessero conferito l’incarico non era sufficiente a configurare una responsabilità contrattuale dell’Arcidiocesi, essendo evidente in essi la carenza di un potere di rappresentanza; in subordine, proponeva appello incidentale condizionato, deducendo che il Tribunale, dopo aver ricondotto all’Arcidiocesi alcuni degli incarichi professionali indicati nel ricorso monitorio, ingiustamente aveva rigettato la domanda di risarcimento dei danni, avanzata per i gravi ritardi e omissioni dell’arch. (OMISSIS). Specificava che il pregiudizio consisteva nell’esaurimento e nel mancato rifinanziamento dei contributi ex L. n. 219 del 1981, con perdita dei contributi stessi. Pertanto, chiedeva il rigetto dell’appello principale e l’accoglimento dell’appello incidentale, rigettando anche la parte della domanda degli appellanti principali, accolta dal primo Giudice; in subordine, l’accoglimento dell’appello incidentale condizionato e, previa declaratoria di responsabilità professionale dell’arch. (OMISSIS), condannare gli appellanti principali al risarcimento dei danni, con vittoria delle spese di lite del doppio grado.

Si costituivano anche gli altri appellati, i quali chiedevano darsi atto che la sentenza di primo grado non era stata impugnata relativamente ai capi del dispositivo con cui era stata, rispettivamente, dichiarata improponibile e rigettata la domanda proposta nei confronti del Ministero dei Lavori Pubblici e della Regione Campania.

Con sentenza n. 553/2013, depositata in data 30.9.2013, la Corte d’Appello di Salerno rigettava l’appello principale e quello incidentale, dichiarando interamente compensate tra le parti le spese del grado.

Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione l’Arcidiocesi di (OMISSIS), sulla base di due motivi; resistono gli eredi dell’Arch. (OMISSIS) con controricorso, proponendo a loro volta ricorso incidentale sulla base di quattro motivi; cui resiste l’Arcidiocesi con controricorso al ricorso incidentale. I controricorrenti hanno depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, l’Arcidiocesi lamenta la “Violazione e falsa applicazione del Concordato tra Santa Sede e Italia dell’11.2.1929, reso esecutivo con L. n. 810 del 1929, di cui costituisce allegato, nel testo originale (artt. 1 e 29) e in quello modificato con L. n. 121 del 1985 (artt. 3 e 7), nonchè delle norme dei rispettivi Codici di Diritto Canonico relativo alla titolarità degli Enti Ecclesiastici; violazione e falsa applicazione degli artt. 1398 e 1399 c.c.; il tutto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”. La ricorrente deduce che, nel primo motivo di appello incidentale, aveva affermato che – per fondare una propria responsabilità contrattuale nei confronti dell’arch. (OMISSIS), e quindi dei suoi eredi – non fosse rilevante che su alcuni elaborati tecnici, relativi a beni di proprietà di altri Enti Ecclesiastici, gli Arcivescovi dell’epoca fossero individuati e avessero firmato quali committenti, in quanto per le prestazioni affidate al professionista legittimato a contrarre non era il Vescovo, ma i singoli Parroci delle parrocchie a cui i beni rispettivamente appartenevano. Infatti, nel Concordato del 1929 – come in quello vigente – viene riconosciuta alla Chiesa Cattolica piena autonomia di organizzazione. L’art. 1 prevede la disciplina della rappresentanza degli Enti Ecclesiastici (elencati nell’art. 29) in base alle norme del diritto canonico (del tempo), le quali – come quelle attuali – affidavano e affidano al Parroco la titolarità della parrocchia, restando escluso alla Diocesi ogni potere e responsabilità circa la gestione e amministrazione dei patrimoni parrocchiali. Pertanto, l’Arcidiocesi non può essere chiamata a rispondere non solo degli incarichi conferiti all’arch. (OMISSIS) dai titolari di singoli e distinti Enti Ecclesiastici, quali risultano dalle sottoscrizioni sui prospetti dei progetti e da altri documenti prodotti dagli opposti, ma neppure degli incarichi conferiti al professionista dagli Arcivescovi dell’epoca in relazione a immobili estranei al patrimonio dell’Arcidiocesi, in quanto appartenenti ad altri Enti Ecclesiastici forniti di propria autonomia giruridico-economica; per tali prestazioni sussisterebbe una carenza di titolarità in capo all’Ente Diocesano e al suo legale rappresentante, che impedisce il sorgere di ogni obbligazione in capo al medesimo. Nè assumerebbe rilievo che i Vescovi avessero gestito direttamente l’esecuzione dei lavori fino alla loro ultimazione, in quanto tali comportamenti rivelano solo un’errata ingerenza in affari estranei all’Ente dai medesimi rappresentato.

1.1. – Il motivo non è fondato.

1.2. – La Corte di merito ha ritenuto, conformemente al giudice di prime cure, che vi fosse la prova che i 9 incarichi (riguardanti: 1) i lavori di installazione di un prefabbricato polivalente offerto dalla Caritas italiana alla Parrocchia (OMISSIS); 2) i lavori di installazione di un prefabbricato polivalente offerto dalla (OMISSIS) alla Parrocchia (OMISSIS); 3) i lavori di riparazione dei danni causati dagli eventi sismici al Seminario Diocesano di (OMISSIS); 4) il progetto per il consolidamento e il restauro della (OMISSIS); 5) i lavori di restauro del campanile della Cattedrale di (OMISSIS); 6) il progetto di consolidamento e restauro della Chiesa di (OMISSIS), con annessa casa colonica e locali di ministero pastorale; 7) i lavori di riparazione dei danni per il terremoto al campanile del (OMISSIS); 8) i lavori per il restauro del campanile del (OMISSIS); 9) i lavori di consolidamento e restauro della Chiesa di (OMISSIS) e annessa casa canonica in (OMISSIS) (sentenza impugnata, pag. 17)) fossero stati conferiti al professionista dalla Curia, assieme alla gestione dei lavori e delle pratiche amministrative, comprese quelle dirette a ottenere i finanziamenti pubblici; la qual cosa rendeva sicuramente riconducibili alla Curia i rispettivi rapporti di opera professionale, mentre la sola intestazione delle restanti 6 pratiche all’Arcidiocesi non era sufficiente a dimostrare la conclusione dei relativi contratti.

In particolare – evidenziando, peraltro, che i lavori per cui è causa potevano essere gestiti direttamente dal Provveditorato alle OO.PP. e dalla Regione (a seconda che si trattasse di finanziamento statale o regionale), ovvero dati in concessione agli Enti Ecclesiastici – la Corte territoriale, con riferimento ai predetti 9 incarichi, ha osservato che la Curia, relativamente ai beni in oggetto, non si fosse limitata a conferire ciascun incarico all’arch. (OMISSIS), ma avesse anche gestito direttamente l’esecuzione dei lavori fino alla loro ultimazione. Specificando che nella specie, l’Arcidiocesi ne aveva richiesto l’affidamento in concessione e, in tale veste, aveva stipulato contratti di appalto con le imprese esecutrici dei lavori e incassato i contributi erogati dallo Stato e dalla Regione (fatta eccezione per il contributo L. n. 219 del 1981, ex art. 65 per i lavori di riparazione dei danni causati dal sisma al Seminario Diocesano di (OMISSIS), non erogato per mancanza di fondi statali).

1.3. – Correttamente, quindi, la Corte distrettuale ha rilevato che “tenuto conto dello svolgimento, successivamente alla stipula dei singoli contratti di opera professionale, della menzionata attività – tutta incontestamente e pacificamente riferibile alla Curia – risulta incongruente e illogico escludere il potere di rappresentanza del Vescovo relativamente al solo conferimento dei vari incarichi all’Arch. (OMISSIS). In altri termini (prosegue la Corte) l’odierna appellante incidentale, in persona del Vescovo, non solo ha direttamente provveduto al conferimento degli incarichi professionali all’Arch. (OMISSIS), come specificato nella motivazione della sentenza impugnata, ma ha anche utilizzato l’attività di quest’ultimo (ora di progettazione, ora di direzione dei lavori o contabilità) per eseguire e portare a termine i lavori, conseguendo, ove previsto e concretamente erogato, il finanziamento statale o regionale” (sentenza impugnata, pag. 19).

1.4. – Non vale dunque il richiamo operato dalla Arcidiocesi all’assetto concordatario (di cui alle richiamate norme) relativo alla piena autonomia riconosciuta alla Chiesa Cattolica quanto alla organizzazione interna della stessa, con riferimento all’affidamento al Parroco della titolarità della parrocchia, restando escluso alla Diocesi ogni potere e responsabilità circa la gestione e amministrazione dei patrimoni parrocchiali. Il rapporto tra gli enti ecclesiastici rimane tutt’interno al sistema canonico, e, in assenza di specifica normativa, non rileva in termini di validità ed efficacia della attività negoziale privatistica svolta secondo le norme del diritto civile. Qualora, infatti (come nella specie), sia in discussione la legittimità da parte della Chiesa e degli enti ecclesiastici dell’uso iure privatorum di beni soggetti alle norme del codice civile – in quanto non diversamente disposto dalle leggi speciali che li riguardano – la Chiesa e le sue istituzioni sono tenute all’osservanza, al pari degli altri soggetti giuridici, delle norme di relazione, essendo queste inidonee a dare luogo a quelle compressioni della libertà religiosa e delle connesse alte finalità che la norma concordataria di cui alla L. n. 121 del 1985, art. 2 in ottemperanza al dettato costituzionale, ha inteso tutelare, non avendo lo Stato rinunciato alla tutela di beni giuridici primari garantiti dalla Costituzione (Cass. n. 2166 del 2006; cfr. Cass. n. 497 del 1989).

2. – Con il secondo motivo, la ricorrente principale deduce la «Violazione degli artt. 163, 164 e 342 c.p.c. (quest’ultimo nel testo previgente alla sostituzione di cui all’art. 54, comma 1 del D.L. n. 83/2012, conv. con modificazioni dalla L. n. 134/2012), in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c.», in quanto l’indicazione dei motivi di appello richiesta dall’art. 342 c.p.c. (nel
testo previgente alla modifica del 2012) non doveva necessariamente consistere in una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell’appello, richiedendosi solo un’esposizione chiara e univoca, anche se sommaria, sia della domanda sia delle ragioni della doglianza (Cass. n. 17960 del 2007).

2.1. – Il motivo è inammissibile.

2.2. – Con riferimento all’art. 342 c.p.c. (nel testo anteriore alle modifiche di cui al Decreto Legge n. 83 del 2012, ai sensi dell’art. 54, commi 2 e 3-bis cit. D.L.), questa Corte (ex plurimis, Cass. sez. un. n. 3033 del 2013) sottolineato che l’originario connotato di novum iudicium del processo d’appello (disciplinato dal codice di rito del 1865), notevolmente attenuato nel nuovo codice del 1940 dalle disposizioni contenute negli artt. 342, 345 e 346 c.p.c. a seguito delle profonde modifiche apportate dalla L. n. 353 del 1990, non è più riscontrabile nell’attuale processo civile, nel cui ambito il giudizio di secondo grado costituisce una revisio prioris instantiae, incanalata negli stretti limiti devoluti con i motivi di gravame – ha ribadito che, nel vigente ordinamento processuale, il giudizio d’appello non può più dirsi, come un tempo, un riesame pieno nel merito della decisione impugnata, ma ha assunto le caratteristiche di una impugnazione a critica vincolata.

In sostanza (Cass. sez. un. n. 28498 del 2005), l’appello deve puntualizzarsi all’interno dei capi di sentenza destinati ad essere confermati o riformati, ma “comunque” sostituiti dalla sentenza di appello (Cass. sez. un. n. 28498 del 2005). Pertanto, la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso specifici motivi, con la conseguenza che tale specificità esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che la sorreggono; pertanto, nell’atto di appello deve sempre accompagnarsi, a pena di inammissibilità del gravame rilevabile d’ufficio, una parte argomentativa che contrasti le ragioni addotte dal primo giudice” (Cass. sez. un. n. 23299 del 2011; nonchè, Cass. n. 4068 del 2009; Cass. n. 18704 del 2015; Cass. n. 12280 del 2016).

2.3. – Al fine quindi di verificare la corretta applicazione della norma in esame, si deve ribadire che non si rivela sufficiente il fatto che l’atto d’appello consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate, ma è altresì necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia stata censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con idoneo grado di specificità, da correlare, peraltro, con la motivazione della sentenza impugnata (Cass. sez. un. n. 16 del 2000; Cass. sez. un. n. 28498 del 2005). Da ciò, la affermata inammissibilità dell’atto di appello redatto in modi non rispettosi dell’art. 342 codice di rito (Cass. sez. un. n. 16 del 2000, cit.), che va tuttavia applicato senza inutili formalismi e senza richiedere all’appellante il rispetto di particolari forme sacramentali (v., tra le altre, Cass. 12984 del 2006; Cass. n. 9244 del 2007; Cass. n. 25588 del 2010; Cass. n. 22502 del 2014; Cass. n. 18932 del 2016; Cass. n. 4695 del 2017).

2.4. – Tali principi hanno trovato conferma anche nelle sentenze delle Sezioni unite n. 28057 del 2008 e n. 23299 del 2011); nonchè da ultimo (con riferimento agli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo certamente più rigoroso, novellato dal Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, e convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134) in Cass. sez. un. n. 27199 del 2017, che – in coerenza con la regola generale per cui le norme processuali devono essere interpretate in modo da favorire, per quanto possibile, che si pervenga ad una decisione di merito, mentre gli esiti abortivi del processo costituiscono un’ipotesi residuale (Cass. n. 10916 del 2017); e non trascurando che la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha chiarito in più occasioni che le limitazioni all’accesso ad un giudice sono consentite solo in quanto espressamente previste dalla legge ed in presenza di un rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (Cass. n. 10878 del 2015; sent. CEDU 24 febbraio 2009, in causa C.G.I.L. e Cofferati contro Italia) – ha riaffermato che gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice” (conf. Cass. n. 13535 del 2018).

2.5. – La Corte di merito, nel dichiarare inammissibile l’appello incidentale, ha rilevato che – a fronte della mancata emersione di errori e/o irregolarità nell’esecuzione delle prestazioni, tali da far configurare violazioni dell’obbligo di diligenza ex art. 1176 c.c. – l’Arcidiocesi non aveva specificamente allegato e provato quali fossero gli incarichi che il professionista non avrebbe esattamente adempiuto e i termini previsti per l’adempimento; quali le documentazioni e progettazioni depositate in ritardo; quali i lavori e le opere che non avevano fruito del finanziamento e le ragioni della mancata erogazione; il rapporto di causalità tra i pretesi ritardi e la perdita dei contributi (sentenza impugnata, pag. 26).

3. – Con il primo motivo di ricorso incidentale, i controricorrenti deducono la «Violazione e falsa applicazione degli artt. 1321 ss., 1326 ss., 1362 ss., 2222 ss., 2697 e 2723 ss. c.c. e degli art. 99, 100, 101, 112, 115 e 116 c.p.c. (art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.), in quanto la Corte di merito ha rigettato il motivo dell’appello principale degli eredi (OMISSIS), relativo al mancato riconoscimento dell’incarico professionale all’arch. (OMISSIS) da parte dell’Arcivescovo di (OMISSIS) con riferimento alle altre 6 prestazioni professionali, indicate nei punti da a) a f) del gravame. La sentenza impugnata avrebbe violato le norme in epigrafe non avendo valutato che l’incarico all’arch. (OMISSIS) era stato conferito dall’Arcivescovo con carattere di generalità, cioè con riguardo a tutti gli interventi, le progettazioni e le esecuzioni delle opere occorrenti agli immobili appartenenti alla Diocesi di (OMISSIS) a causa del terremoto del 23.11.1980. Dalla documentazione prodotta e dal finanziamento pubblico concesso alla Curia Vescovile, viceversa, sarebbe emersa chiara l’esistenza del contrato d’opera tra l’Arcivescovo e l’arch. (OMISSIS). Con il motivo si deduce la violazione e falsa applicazione delle norme nella conclusione e sull’interpretazione dei contratti, tenuto conto dei criteri ermeneutici previsti dagli artt. 1362 c.c. e ss., nonchè, alla luce del principio della libertà della prova, la violazione dell’art. 2729 c.c., data la presenza di una presunzione grave, precisa e concordante circa l’esistenza del rapporto contrattuale anche per tali 6 incarichi professionali.

3.1. – Il motivo è inammissibile.

3.2. – In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).

Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3 deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare essa il fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di “errori di diritto” individuati (come nella specie) per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate (soprattutto allorquando dette norme siano nomerose e riguardino aspetti eterogenei), ma non dimostrati per mezzo di una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).

Il controllo affidato alla Corte non equivale, dunque, alla revisione del ragionamento decisorio, ossia alla opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. n. 20012 del 2014; richiamata anche dal Cass. n. 25332 del 2014).

3.3. – Sotto altro profilo, come sopra accennato, la allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna al paradigma dell’esatta interpretazione della norma di legge; essa infatti inerisce alla tipica valutazione spettante al giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione.

Ciò, non senza sottolineare che le censure mosse dai controricorrenti si risolvono, in buona sostanza, nella richiesta generale e generica al giudice di legittimità di una rivalutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento in parte qua della sentenza impugnata (Cass. n. 1885 del 2018), mediante specificamente un riesame generale delle rationes decidendi, inammissibile seppure effettuato con asserito riferimento alla congruenza sul piano logico e giuridico del procedimento seguito per giungere alla soluzione adottata dalla Corte distrettuale e contestata dai controricorrenti; e quindi obliterando che rientra nelle prerogative del giudice del merito – nell’ambito dell’esame del materiale istruttorio acquisito nell’incarto processuale selezionare e valutare le prove ritenute pertinenti e rilevanti ai fini del decidere. L’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova (quale è l’atto negoziale, cui il giudicante può operare integrale riferimento ove ritenuto esente da censure) con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. n. 16056 del 2016; nonchè, in tal senso, Cass. n. 15927 del 2016).

4. – Con il secondo motivo di ricorso incidentale, i controricorrenti deducono l'”Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, n. 5)”, nella parte in cui la Corte distrettuale non avrebbe esaminato fatto per cui l’Arcivescovo di (OMISSIS) aveva affidato all’Arch. (OMISSIS) – in vista della ricostruzione e riparazione degli edifici sacri delle due Diocesi, danneggiati dal sisma del 23.11.1980 -, la direzione dell’Ufficio tecnico delle due Diocesi, specificando che il professionista aveva l’incarico di “provvedere a quanto necessario per attivare l’iter burocratico inteso ad ottenere finanziamenti per i lavori a farsi, ivi comprese la progettazione e la direzione di eventuali lavori affidati in concessione”; sicchè sia la concessione che l’erogazione di contributi statali e regionali sorgesse in favore della Curia Vescovile, la quale, anche per queste pratiche, aveva incassato il contributo, comprensivo delle spese tecniche, di pertinenza del D.L.

4.1. – Il motivo è inammissibile.

4.2. – L’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. (nella nuova formulazione adottata dal d.l. n. 83 del 2012, convertito dalla legge n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 30 settembre 2013) consente (Cass. n. 8053 e n. 8054 del 2014) di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

4.3. – Nel rispetto delle previsioni degli artt. 366, comma 1°, n. 6, e 369, comma 2°, n. 4, cod. proc. civ., i controricorrenti avrebbero, dunque, dovuto specificamente e contestualmente indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Orbene, nel motivo in esame, della enucleazione e della configurazione di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde poter accedere all’esame del parametro di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 non v’è traccia. Sicchè, anche in questo caso, le censure mosse in riferimento a detto parametro si risolvono, in buona sostanza, nella richiesta generale e generica al giudice di legittimità di una rivalutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento in parte qua della sentenza impugnata (Cass. n. 1885 del 2018).

5. – Con il terzo motivo di ricorso incidentale, i controricorrenti lamentano la “Violazione e falsa applicazione degli artt. 36, 99, 101, 112, 115, 116, 167, 183, 184, 633 e 645 c.p.c. e degli artt. 3, 24 e 111 Cost. (art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c)”, nella parte in cui la Corte di merito ha rigettato il secondo motivo di appello degli eredi (OMISSIS) relativo alla dichiarazione di inammissibilità della domanda riconvenzionale dai medesimi proposta con la comparsa di risposta depositata nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo. La parte osserva che, nell’atto di opposizione erano presenti diverse espressioni che portavano a ritenere che la domanda riconvenzionale dell’Arcidiocesi riguardasse il risarcimento di tutti i danni derivati dall’intero rapporto intercorso con il professionista, cagionati e cagionandi in dipendenza degli inadempimenti del medesimo. Il riferimento anche ai beni immobili estranei al patrimonio era l’elemento interpretativo che confermava la portata generale dell’azione risarcitoria introdotta dall’Arcidiocesi con l’atto di opposizione al decreto ingiuntivo. Osservano gli eredi (OMISSIS) che – pur essendosi imposto l’orientamento giurisprudenziale più restrittivo (Cass. sez. un. n. 26128 del 2010), in base al quale l’opposto, che ha la veste sostanziale di attore, non può proporre domande diverse da quelle fatte valere con il ricorso per ingiunzione, mentre all’opponente è consentito proporre anche domande riconvenzionali – tuttavia, ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 5 applicabile data la natura di giudizio ordinario di cognizione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, è permesso all’attore-opposto di proporre le domande ed eccezioni che siano conseguenza della domanda riconvenzionale. Nè sarebbe necessario che la domanda principale e quella riconvenzionale debbano dipendere da un unico e identico titolo, in quanto basta che nelle contrapposte pretese sia ravvisabile un collegamento obiettivo tale da rendere consigliabile la celebrazione del simultaneus processus. Nella fattispecie, la domanda riconvenzionale proposta dall’opponente, essendo relativa all’intero rapporto contrattuale intercorso tra l’arch. (OMISSIS) e l’Arcidiocesi, avrebbe dovuto comportare la proponibilità della domanda avanzata dagli eredi (OMISSIS) con la comparsa di risposta depositata nel giudizio di opposizione, essendo direttamente collegata alla domanda riconvenzionale della Arcidiocesi.

5.1. – Il motivo non è fondato.

5.2. – Nell’ordinario giudizio di cognizione, che si instaura a seguito dell’opposizione a decreto ingiuntivo, l’opposto, rivestendo la posizione sostanziale di attore, non può avanzare domande diverse da quelle fatte valere con il ricorso monitorio, salvo il caso in cui, per effetto di una riconvenzionale formulata dall’opponente, egli si venga a trovare a sua volta in una posizione processuale di convenuto, cui non può essere negato il diritto di difesa, rispetto alla nuova o più ampia pretesa della controparte (Cass. n. 2529 del 2006; Cass. n. 23294 del 2006), mediante la proposizione (eventuale) di una reconventio reconventionis (Cass. n. 16564 del 2018). Ad ogni modo la reconventio reconventionis deve dipendere dal titolo dedotto in causa o da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione ovvero di domanda riconvenzionale (Cass. n. 2244 del 2006; Cass. n. 8582 del 2013). Sicchè, in analoga fattispecie, questa Corte ha dichiarato l’inammissibilità della domanda di pagamento delle opere extra contratto, proposta dall’opposto con la comparsa di costituzione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, relativo al pagamento del corrispettivo di un appalto per l’esecuzione di lavori edili, in quanto non ammesso l’ampliamento del thema deicidendum (Cass. n. 25598 del 2011). E, del resto, anche la sentenza delle Sezioni unite (Cass. sez. un. n. 26128 del 2010) – richiamata dalla stessa ricorrente – consente la proposizione di una nuova domanda da parte dell’opposto solo se essa nasca dalle difese dell’opponente contenute nell’atto di opposizione a decreto ingiuntivo, ma tale circostanza non ricorre nel caso in esame.

5.3. – Di tali principi ha tenuto conto la Corte di merito, la quale ha correttamente affermato che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo l’opposto, attore sostanziale, non può proporre domande diverse da quelle fatte valere con il ricorso per decreto ingiuntivo, salva l’ipotesi della reconventio reconventionis, qualora l’opponente abbia proposto, con l’atto di opposizione, una domanda riconvenzionale, per cui la domanda dell’opposto deve dipendere dal titolo dedotto in giudizio o da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione o di domanda riconvenzionale. Secondo la Corte di merito, nella specie, non si riscontrava alcun collegamento tra la domanda riconvenzionale di risarcimento dei danni per colpa professionale avanzata dall’Arcidiocesi e la domanda di pagamento delle competenze dell’arch. (OMISSIS), relativa agli incarichi professionali specificati nella citata comparsa di risposta, in quanto si trattava di incarichi aventi ad oggetto ulteriori prestazioni del professionista, mentre la domanda riconvenzionale di risarcimento dei danni era riferita alla colpa professionale dell’arch. (OMISSIS) in relazione agli incarichi contemplati dalla domanda monitoria. Così, pertanto, gli opposti avevano inammissibilmente introdotto una pretesa del tutto estranea al petitum ed alla causa petendi originari.

6. – Con il quarto motivo di ricorso incidentale, i controricorrenti deducono l’ulteriore “Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5)”, lamentando che la Corte di merito abbia omesso di esaminare la reale portata della domanda riconvenzionale proposta dalla odierna ricorrente, dando per scontato il fatto che la domanda riconvenzionale di risarcimento dei danni per colpa dell’arch. (OMISSIS) riguardasse “le modalità di espletamento degli incarichi oggetto della domanda monitoria e del pedissequo decreto”.

6.1. – Il motivo è inammissibile.

6.2. – Valgono integralmente le considerazioni svolte sub 4.2. e 4.3., cui si fa integrale rinvio.

Aggiungendo peraltro, quale ulteriore e autonomo profilo di inammissibilità della censura, la considerazione della assoluta carenza di specificità del motivo, giacchè l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere. Ne consegue che il motivo che non rispetti tale requisito si deve considerare nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 n. 4 cod. proc. civ. e nell’art. 375 c.p.c. con il riferimento alla “mancanza dei motivi” (Cass. n. 24773 del 2018).

7. – Il ricorso principale e quello incidentale vanno, pertanto, rigettati. In ragione della soccombenza reciproca, si dispone si dispone ex art. 92, secondo comma, c.p.c. la integrale compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio. Va, viceversa, emessa a carico del ricorrente principale e di quello incidentale la dichiarazione di cui all’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale. Compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale, ciascuno, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari  a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 27 novembre 2018.