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Cassazione Civile 564/2005 – Concorso del fatto colposo del creditore – Struttura della norma

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Sentenza 564/2005

Concorso del fatto colposo del creditore – Struttura della norma

In tema di risarcimento del danno, l’art. 1227 cod. civ., nel disciplinare il concorso di colpa del creditore nella responsabilità contrattuale, applicabile per l’espresso richiamo di cui all’art. 2056 cod. civ. anche alla responsabilità extracontrattuale, distingue l’ipotesi in cui il fatto colposo del creditore o del danneggiato abbia concorso al verificarsi del danno (comma primo), da quella in cui il comportamento dei medesimi ne abbia prodotto soltanto un aggravamento senza contribuire alla sua causazione (secondo comma); Solo la situazione contemplata nel secondo comma costituisce oggetto di una eccezione in senso stretto, nel primo caso, invece, il giudice di merito deve d’ufficio verificare, sulla base delle prove acquisite, se il danneggiato abbia o meno concorso a determinare il danno; al riguardo – una volta che il danneggiato abbia offerto la prova del danno e della sua derivazione causale dall’illecito – costituisce onere probatorio del danneggiante dimostrare che il danno sia stato prodotto, pur se in parte, anche dal comportamento del danneggiato (art. 1227 cod. civ., primo comma) ovvero che il danno sia stato ulteriormente aggravato da quest’ultimo (art. 1227 cod. civ., secondo comma).

 

Risarcimento del danno – Valutazione e liquidazione – Mancato raggiungimento dell’età lavorativa

In tema di risarcimento del danno alla persona, la mancanza di un reddito al momento dell’infortunio per non avere il soggetto leso ancora raggiunta l’età lavorativa, ovvero per essere disoccupato, può escludere il danno da invalidità temporanea, non anche il danno collegato alla invalidità permanente che, proiettandosi per il futuro, verrà ad incidere sulla capacità di guadagno della vittima, al momento in cui questa inizierà una attività remunerata; infatti, nell’ipotesi di illecito determinante l’invalidità permanente di soggetto privo di reddito, in quanto non svolga attività lavorativa e frequenti un corso di studi, il danno da risarcire consiste nel minor guadagno che l’interessato realizzerà in futuro a causa della menomazione rispetto a quello che avrebbe percepito se la sua capacità lavorativa non fosse stata menomata; la relativa liquidazione può essere compiuta per mezzo di presunzioni, considerando il tipo di attività che il soggetto svolgerà in futuro secondo un criterio probabilistico, tenuto conto delle possibili scelte ed occasioni che, secondo l’id quod plerumque accidit, si offrono in relazione al livello di studi conseguito e all’ambiente familiare e sociale di riferimento.

Corte di Cassazione, Sezione 3 civile, Sentenza 13 gennaio 2005, n. 564   (CED Cassazione 2005)

Articolo 1227 c.c. annotato con la giurisprudenza

 

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La motocicletta condotta da Ma. Ga. e assicurata presso la Ge. As. S.p.A. sbandava e andava a collidere contro un albero. Fr. Do. “trasportata sulla motocicletta riportava gravissime lesioni. Fr. Do. e i suoi genitori Gi. Lo. e Ri. Do., convenivano in giudizio il Ma. Ga. e l’istituto assicuratore per sentirli condannare al risarcimento dei danni. La Ge. As. S.p.A. si costituiva in giudizio contestando il fondamento della domanda. Il Ma. Ga. restava contumace. Il Tribunale di Rimini, liquidata una provvisionale di 30.000.000 milioni, condannava i convenuti in solido al pagamento in favore di Fr. Do. della somma di £ 442.831.532, con rivalutazione e interessi sulla somma di £ 161.631.532, e in favore di Ri. Do. e Gi. Lo. della somma di £ 25.000.000, oltre rivalutazione e interessi. Avverso questa sentenza proponevano appello principale Ma. Ga. e la Ge. As. S.p.A. e appello incidentale Fr. Do.. La Corte d’Appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza impugnata, condannava il Ma. Ga. e la Ge. As. S.p.A. al pagamento in favore della Fr. Do. della somma di £ 845.104.369, oltre agli interessi legali dalla sentenza, e in favore del Fr. Do. e della Gi. Lo. della somma di lire 58.430.936.

Avverso questa sentenza la c. Un. In. c. di As. e Ri. S.p.A. (nuova denominazione della Ge. As. S.p.A.) e Ma. Ga. hanno proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. Fr. Do., Ri. Do. e Gi. Lo. hanno resistito con controricorso.

All’udienza del 19 marzo 2004, la causa e stata rinviata a nuovo ruolo per mancata notificazione dell’avviso d’udienza. La causa è stata quindi chiamata all’udienza del 27 ottobre 2004. I controricorrenti hanno presentano memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione dell’art. 171 c.s. e degli artt. 1127 e 2697 c.c. nonché il difetto di motivazione, censurando la sentenza impugnata che aveva rigettato il motivo con il quale si chiedeva che venisse affermata la responsabilità della Fr. Do., a norma dell’art. 1227 primo e/o secondo comma, per non avere indossato il casco protettivo. In particolare, richiamata sul punto la motivazione della Corte d’Appello, affermano: che era inconferente l’osservazione che gli agenti della Polizia Stradale non avessero rilevato l’infrazione; che era generica l’affermazione degli attori circa l’avvenuta rottura del casco, poiché per considerarsi pacifico un fatto non era sufficiente la sua sola mancata contestazione, occorrendo l’implicita ammissione della controparte, ovvero un sistema difensivo impostato in modo incompatibile con il suo disconoscimento; che era censurabile l’affermazione secondo cui le lesioni cerebrali non costituivano indizio del mancato uso del casco; che in ogni caso era stata richiesta la rinnovazione della consulenza medico-legale. La fattispecie doveva comunque essere inquadrata nel primo e non nel secondo comma dell’art. 1227 c.c., con tutte le conseguenze in ordine al rilievo del concorso di colpa e all’onere della prova.

Il motivo è infondato.

1.1. L’art. 1227 c.c., che disciplina il concorso del fatto colposo del creditore nella responsabilità contrattuale, ma è applicabile anche alla responsabilità extracontrattuale in virtù dell’espresso richiamo fatto dall’art. 2056 c.c., prevede due distinte fattispecie: la prima è quella in cui si imputa al creditore o al danneggiante di aver tenuto un comportamento che è entrato nella serie causale e dunque di aver causato in tutto o in parte il danno, che deve corrispondentemente restare a suo carico (primo comma); l’altra, riferibile ad un contegno dello stesso danneggiato, è quella che abbia prodotto un aggravamento del danno, senza contribuire alla sua causazione (secondo comma).

In ordine a questa distinzione, la giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare – come sostiene il ricorrente – che solo la situazione contemplata nel secondo comma costituisce oggetto di un’eccezione, mentre nel primo caso il giudice di merito deve esaminare di ufficio, sulla base delle prove acquisite al processo, il punto se il danneggiato abbia concorso a determinare il danno (Cass. 11 marzo 2004, n. 4993, in motiv.; Cass. 26 febbraio 2003, n. 2868; Cass. 8 aprile 2002, n. 5024; Cass. 2 aprile 2001, n. 4799; Cass. 1 febbraio 2000 n. 1073).

Quanto all’onere della prova, in applicazione dei principi generali in tema di illecito extracontrattuale, esso grava sul danneggiante. Provato da parte del danneggiato il danno e la sua diretta derivazione dall’illecito, spetta al danneggiante provare che il danno sia stato prodotto, pur se in parte, anche dall’efficacia del comportamento del danneggiato (art. 1227, primo comma) ovvero che il danno sia stato ulteriormente aggravato dal danneggiato.

1.2. Ciò premesso, il motivo d’appello con il quale si chiedeva l’affermazione del concorso del danneggiato a norma dell’art. 1227 c.c. è stato rigettato, rilevando che non vi era alcuna prova che la Fr. Do. non indossasse il casco protettivo: gli agenti accertatori non avevano rilevato l’infrazione; l’attrice aveva richiesto il risarcimento del danno subito per la rottura del casco, senza che la convenuta eccepisse alcunché sul punto; l’istruttoria non aveva fatto emergere alcun elemento da cui potesse desumersi, anche solo per implicito, la fondatezza del rilievo; le lesioni cerebrali riportate non costituivano indizio del mancato o irregolare uso del casco di protezione.

La Corte territoriale ha dunque ritenuto, valutando il complesso di elementi sopra indicati, che non vi era la prova che la Fr. Do. viaggiasse sulla motocicletta senza il casco protettivo: la mancanza di prova non può che ridondare a carico di chi aveva l’onere provare la circostanza e, cioè, per quanto detto, il danneggiante.

Inoltre, la conclusione alla quale è pervenuta la sentenza impugnata si risolta in un apprezzamento di fatto che sotto il profilo logico raggiunge un grado di completezza e di ragionevolezza da essere incensurabile nel giudizio di cassazione.

I ricorrenti deducono altresì che anche per questo specifico aspetto era stata richiesta la rinnovazione della C.T.U. e, dunque, implicitamente lamentano che la Corte territoriale non la abbia disposta.

È pacifico nella giurisprudenza di questa corte il principio secondo cui rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative di quelle già espletate, di sentire a chiarimenti il consulente tecnico di ufficio ovvero di disporre addirittura la rinnovazione delle indagini, con la nomina di altri consulenti; l’esercizio di un tale potere, cosi come il mancato esercizio di esso, non è censurabile in sede di legittimità (v. per es. Cass. 6 aprile 2001, n. 5142).

Ciò premesso, il mancato esercizio del potere discrezionale di non procedere ad una rinnovazione della consulenza non appare contestato con argomentazioni decisive. Nell’atto d’appello la rinnovazione della C.T.U. era stata richiesta (tra l’altro) per la valutazione della “entità dei danni derivanti dalla mancanza del casco protettivo”. Circostanza questa all’evidenza non decisiva poiché non si discute(va) sulla entità dei danni derivati dalla ritenuta mancanza del caso protettivo, ma sulla circostanza storica se la Fr. Do. indossasse o meno il casco: circostanza esclusa dalla Corte d’Appello con valutazione di merito non censurabile in questa sede.

Va infine rilevato che l’argomento secondo cui lesioni cerebrali non costituivano indizio dell’uso del casco è stato utilizzato dalla Corte territoriale, unitamente ad altri già sufficienti a sostenere logicamente la valutazione effettuata, cosicché, ancora una volta, la sua isolata considerazione non è decisiva.

  1. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2727 c.c. e il difetto di motivazione della sentenza impugnata. Il motivo è rivolto alla liquidazione del danno patrimoniale da perdita di guadagno. I ricorrenti svolgono distinte censure, che sono di seguito riassunte.
  2. a) Sussisteva il difetto di motivazione per avere la Corte d’Appello fatto acritica adesione alla conclusione del C.T.U. secondo cui sarebbe residuato un danno specifico del 100%, riferito a future attività lavorative di concetto e direttive, mentre era provato in contrario che dopo l’incidente l’attrice aveva conseguito il diploma di ragioneria. Questo rilievo fondava la richiesta di rinnovazione della C.T.U. e, dunque, censurabilmente si era rigettata l’istanza di rinnovazione della Consulenza per mancata indicazione degli errori e delle omissioni del tecnico.
  3. b) Ammessa per ipotesi una simile invalidità, la sentenza era censurabile per aver ritenuto in re ipsa la prova del danno da lucro cessante, mentre nel caso di specie si sarebbe dovuto fare applicazione del criterio probabilistico, con ricorso ad un concetto di elevata probabilità fondato sull’id quod pletumque accidit e non sul moralmente preferibile o sull’economicamente desiderabile. Mancava dunque la prova dell’inserimento professionale ritenuto nella sentenza.
  4. c) Nella quantificazione del danno si era violato il divieto logico e giuridico del presumptum de presumpto. Nella specie si aveva un passaggio indiziario volto a convertire in certezza l’ipotesi del conseguimento di un lavoro di concetto. Su questa inconsistente inferenza era poi sostituita un’inammissibile presunzione di secondo grado, volta a quantificare il reddito in misura ben superiore a quella minima corrispondente a quel tipo di lavoro. Vi era poi una terza presunzione con la quale la Corte aveva dato per certo ulteriori avanzamenti di grado e maggiorazioni.
  5. d) Era erroneo il criterio seguito per la liquidazione del danno. I ricorrenti deducono che, nel contestare la sentenza del tribunale, avevano prodotto il contratto collettivo per i dipendenti da imprese assicuratrici dal quale risultava tra attività di concetto e attività d’ordine una differenza retributiva variante tra 1.951.000 e 2.6888.000. Questa censura era stata del tutto pretermessa dalla Corte d’Appello.

Il motivo è infondato nelle sue varie articolazioni.

Per quanto riguarda la doglianza sub a), la Corte d’Appello ha riportato le conclusioni alle quali era giunto il C.T.U., secondo cui la Donati, a seguito delle lesioni cerebrali riportate nell’incidente, non avrebbe potuto svolgere attività di lavoro di concetto e direttive, mentre nello svolgimento di un’attività lavorativa d’ordine la sua invalidità era pari al 17,5%. Ha quindi rilevato, per un verso che la relazione del consulente non era stata contestata in primo grado dalle parti e, in ogni caso, era convincente, immune da vizi logici e priva di errori di valutazione, per altro verso che l’appellante, nel criticare le conclusioni alle quali era pervenuto il C.T.U., non aveva tuttavia indicato “in modo specifico gli errori e le omissioni del tecnico, decisivi per la definizione della causa, che i primo giudici non avrebbero considerato”.

Anche in questo caso la motivazione, per quanto sintetica, è esauriente e, dunque è incensurabile in questa sede di legittimità. Infatti, il giudice di merito che riconosca convincenti le conclusioni del consulente tecnico non è tenuto ad esporre in modo specifico le ragioni del suo convincimento, poiché l’obbligo della motivazione è assolto già con l’indicazione delle fonti dell’apprezzamento espresso (Cass. 21 febbraio 2001, n. 2486; 13 settembre 2000, n. 12080; Cass. 9 gennaio 2003, n. 125).

La specifica contestazione svolta dai ricorrenti consiste in ciò, che era provato in contrario rispetto alle conclusioni del C.T.U. che la Fr. Do. aveva conseguito il diploma di ragioniera: rilievo questo sul quale era stata richiesta la rinnovazione della C.T.U..

La circostanza relativa al conseguimento del diploma di ragioniera non appare però in sé decisiva e non è stata messa in relazione critica con le argomentazioni della consulenza. In altri termini, mancano specifiche deduzioni che possano consentire di apprezzare l’eventuale incidenza della circostanza nella valutazione e nella conclusione del C.T.U., dovendosi escludere che il conseguimento del diploma, in sé considerato, possa per ciò stesso – cioè in mancanza di ulteriori argomentazioni – inficiare le conclusioni del C.T.U..

Non si riscontra dunque alcun vizio di motivazione né tantomeno di violazione di legge.

Anche le doglianze riassunte sotto le lett. b), c) e d) sono infondate.

In tema di risarcimento del danno alla persona, la mancanza di un reddito al momento dell’infortunio per non avere il soggetto leso ancora raggiunta l’età lavorativa, ovvero per essere disoccupato, può escludere il danno da invalidità temporanea, ma non anche il danno futuro collegato alla invalidità permanente che proiettandosi per il futuro verrà ad incidere sulla capacita di guadagno della vittima, al momento in cui questa inizierà una attività remunerata (Cass. 18 maggio 1999, n. 4801; Cass. 11 dicembre 2003, n. 18945).

Nell’ipotesi poi di illecito determinante invalidità permanente in un soggetto privo di reddito, in quanto non svolgente attività lavorativa e che frequenti un corso di studio, il danno da risarcire consiste nel minor guadagno che l’interessato realizzerà in futuro a causa della menomazione rispetto a quello che percepirebbe se la sua capacità lavorativa non fosse stata menomata. Tale danno può essere liquidato, per mezzo di presunzioni, considerando il tipo di attività che il soggetto svolgerà in futuro secondo un criterio probabilistico, che tenga conto delle possibili scelte ed occasioni che, secondo l’id quod plerumque accidit, si offrono in relazione al livello di studi conseguito e all’ambiente familiare e sociale di riferimento (Cass. 11 novembre 1998, n. 11349; v. pure: Cass. 11 dicembre 2003, n. 18945; Cass. 18 maggio 1999, n. 4801).

La Corte territoriale ha fatto espressa applicazione di questi principi, cosicché può escludersi il vizio di violazione di legge denunziato. In particolare non si rileva nell’argomentare della Corte territoriale un inammissibile utilizzazione della presuntio de presunto, poiché non si è fatto derivare da un fatto presunto un’altra presunzione, ma si è compiuta una valutazione prognostica fondata sull’id quod accidit.

Neppure si rileva il vizio di motivazione denunziato, in quanto la sentenza impugnata ha liquidato il danno, considerando l’età della danneggiata e le circostanze, fondate anche sulla prova testimoniale, che, una volta terminata la scuola superiore, avrebbe intrapreso gli studi universitari, che l’avrebbero posta in condizione di svolgere compiti direttivi o di concetto.

Si tratta di una valutazione merito che esibisce una motivazione sintetica, che lascia però chiaramente cogliere la ratio decidendi, e come tale non è sindacabile in sede di legittimità. Per altro verso, le critiche svolte dai ricorrenti invece non portano all’attenzione di questa Corte una carenza di effettiva logica nella motivazione della sentenza impugnata o di contraddittorietà all’interno della stessa, ma contestano direttamente le argomentazioni della Corte territoriale contrapponendo le proprie, come quando si deduce che i giovani diplomati stentano a trovare un impiego corrispondente al titolo di studio.

Il danno da incapacità permanente di guadagno del minore è stato liquidato dalla Corte d’Appello, con criterio equitativo, capitalizzando la differenza tra il reddito che avrebbe percepito tra impiego di concetto e impiego d’ordine.

I ricorrenti non contestano questa tecnica di liquidazione, quanto lamentano che sia stata considerata in 12.000.000 annui la differenza tra impiego di concetto e impiego d’ordine e che si sia tenuto conto di avanzamenti di grado e maggiorazioni. Criticano in particolare la sentenza per aver utilizzato una presuntio de presunto e per non aver considerato la censura secondo la quale nel contratto per i dipendenti da imprese assicuratrici la differenza retributiva annua tra attività d’ordine e attività di concetto variava tra 1.951.000 e 2.6888.000.

Sull’infondatezza dell’argomento dell’utilizzazione della presuntio de presunto si è già detto, rilevando che il giudice di merito ha fondato la sua decisione su una valutazione prognostica. Quanto alla circostanza critica che la ricorrente desume dal contratto collettivo indicato, la stessa manca di decisività, poiché prende a parametro un unico settore contrattuale specifico, senza però indicare perché sarebbe quello da considerare con riferimento al caso di specie. E, comunque, ancora una volta le deduzioni del ricorrente sono volte a censurare inammissibilmente in sede di legittimità il convincimento del giudice di merito.

Con il terzo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 1224 c.c. e il difetto di motivazione della sentenza impugnata. Rilevano testualmente che “la sentenza impugnata accoglie implicitamente altre nostre evidenti censure (senza tener conto di ciò in punto regolazione spese del II grado); ma non tiene comunque conto adeguatamente della capitalizzazione anticipata in ordine alle somme liquidate per danni futuri. In particolare (p. 15) fa erroneamente decorrere gli interessi legali, per ogni voce di danno, dalla data del fatto”.

Il motivo è assolutamente generico e, comunque, nei limiti della sua comprensibilità è infondato.

Quanto alla doglianza sugli interessi e, cioè, alla deduzione che la Corte d’Appello avrebbe fatto decorrere gli stessi dalla data del fatto, il ricorrente omette di considerare che la sentenza impugnata fa espresso riferimento alla sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 1712 del 1995. In questa sentenza – condivisa dalla giurisprudenza di legittimità successiva – la Corte ha enunciato il principio secondo cui gli interessi non possono essere calcolati (dalla data dell’illecito) sulla somma liquidata per il capitale, definitivamente rivalutata, mentre è possibile determinarli con riferimento ai singoli momenti (da stabilirsi in concreto, secondo le circostanze del caso) con riguardo ai quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, in base ai prescelti indici di rivalutazione monetaria, ovvero in base ad un indice medio.

La Corte territoriale ha, come si è detto, fatto espressa applicazione di questo principio, e ha ampliamente motivato sul criterio di liquidazione di interessi e rivalutazione, affermando in conclusione che gli interessi legali andavano calcolati dal fatto, ma su una somma maggiorata dai successivi mutamenti del potere d’acquisto della moneta.

I rilievi fatti mostrano sia la genericità della contestazione mossa alla sentenza impugnata sia comunque la sua infondatezza.

Anche la doglianza secondo cui la Corte territoriale non avrebbe tenuto “adeguatamente” conto della capitalizzazione anticipata in ordine alle somme liquidate per danni futuri manca di specificità ed appare comunque inammissibile. Infatti, a fronte della motivazione contenuta nella sentenza impugnata sul risarcimento del danno futuro e sui criteri di liquidazione, i ricorrenti svolgono genericamente il motivo, senza un concreto riferimento ai criteri di liquidazione utilizzati, lamentando che non si sarebbe tenuto “adeguatamente” conto della capitalizzazione anticipata. Non può poi non considerarsi: che il danno futuro era già stato liquidato dal giudice di primo grado; che nell’atto d’appello mancava la doglianza in ordine alla capitalizzazione anticipata; che i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio d’appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito; che in questa sede non si è evidenziato in che modo i criteri di liquidazione utilizzati dal giudice d’appello per la liquidazione del danno furto si discostino da quelli utilizzati dal primo giudice, consentendo dunque (cioè rendendola ammissibile) la censura sulla capitalizzazione anticipata non proposta in appello.

Con il quarto motivo i ricorrenti deducono la violazione degli artt. 1223 e 1224 c.c., 112 c.p.c., la nullità per errores in procedendo (per ultrapetizione e per omessa pronunzia) nonché il vizio di motivazione della sentenza impugnata. La Ge. As. S.p.A. aveva versato a Fr. Do. una provvisionale di 30.000.000 e, quindi, dopo la sentenza esecutiva di primo grado, la somma di £ 83.100.000 a Ri. Do. e a Gi. Lo. e di £ 619.500.000 a Fr. Do.. La relativa documentazione era stata prodotta in causa. La Corte territoriale aveva liquidato i danni tenendo conto unicamente della provvisionale di £ 30.000.000, senza tenere considerare i pagamenti ulteriori. Da questo errore era poi derivata l’erronea attribuzione di interessi i rivalutazione fino alla data della decisione anche sulle somme pagate fin dal marzo 1997, con la conseguenza che restava da liquidare a Fr. Do. solamente la somma di £ 130.090.927. Relativamente poi a Ri. Do. e a Gi. Lo., la somma di £ 25.000.000, secondo quanto disposto dalla Corte d’Appello, doveva essere rivalutata dall’11 luglio 1990 e via via maggiorata dagli interessi al tasso legale alla data della sentenza di primo grado. Ma allora “alla data della sentenza di I grado si avevano (salvo errore) £ 52.167.475, che – con gli intessi legali successivi pari a £ 1.300.614 – diventavano al 31.3.1997 £ 53.468.089, contro un pagamento documentato di £ 55.378.408. la Corte doveva dunque accogliere la domanda di condanna alla restituzione della somma pagata in eccesso. E in ogni caso non aveva pronunziato sulla relativa domanda.

In Sostanza i ricorrenti lamentano: a) che la Corte territoriale aveva omesso di pronunziare sull’eccezione con la quale si erano fatti valere i pagamenti effettuati oltre la provvisionale e questa omissione aveva anche falsato il calcolo di interessi e rivalutazione; b) il mancato accoglimento della domanda di restituzione della somma versata in eccedenza Ri. Do. e a Gi. Lo..

La doglianza relativa all’omessa pronunzia è fondata.

È pacifica la circostanza – come risulta dal controricorso e dalla memoria dei controricorrenti – che pagamenti sono stati effettuati effettuati in esecuzione della sentenza di primo grado. In appello si lamentava che di questi pagamenti non si era tenuto conto.

Il giudice d’appello avrebbe dunque dovuto pronunziare in ordine a questa doglianza, mentre il silenzio mantenuto sul punto determina il vizio di omessa pronunzia.

Per quanto detto vanno rigettati i primi tre motivi di ricorso, mentre va accolto il quarto. In relazione al motivo accolto la sentenza impugnata dev’essere cassata con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Bologna. Sussistono giusti motivi per la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione. Sulla liquidazione delle altre spese del processo provvederà la Corte di rinvio.

P.Q.M.

La Corte rigetta i primi tre motivi di ricorso e accoglie il quarto; cassa in relazione e rinvia ad altra Sezione della Corte d’Appello di Bologna; compensa le spese del giudizio di cassazione; rimette al giudice di rinvio la liquidazione delle altre spese del processo.

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