Sentenza 5657/2023
Leasing – Determinazione del canone – Clausola di indicizzazione ad un tasso finanziario e ad un tasso di cambio
Non costituisce un patto immeritevole di tutela ex art. 1322 c.c., né uno strumento finanziario derivato implicito – con conseguente inapplicabilità delle disposizioni del d.lgs. n. 58 del 1998 – la clausola di un contratto di leasing che preveda a) il mutamento della misura del canone in funzione sia delle variazioni di un indice finanziario, sia delle fluttuazioni del tasso di cambio tra la valuta domestica ed una valuta straniera, b) l’invariabilità nominale dell’importo mensile del canone con separata regolazione dei rapporti dare/avere tra le parti in base alle suddette fluttuazioni.
Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza 23-2-2023, n. 5657 (CED Cassazione 2023)
FATTI DI CAUSA
1. Nel 2006 la società (OMISSIS) s.r.l. (che in seguito
muterà ragione sociale in (OMISSIS) s.r.l.; e che d’ora
innanzi sarà in ogni caso indicata come “la (OMISSIS)”) stipulò con la società
(OMISSIS) s.r.l. (che in seguito muterà forma e ragione sociale in
(OMISSIS) & C. s.n.c.”; d’ora innanzi, “la (OMISSIS)”) un contratto
di leasing avente ad oggetto un immobile.
Il debito della società utilizzatrice (OMISSIS) venne garantito da cinque persone
fisiche, e cioè (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS)i e
(OMISSIS).
2. Il contratto di leasing prevedeva che:
a) la valuta nominale di riferimento del contratto fosse il franco svizzero;
b) la società utilizzatrice rimborsasse il finanziamento in euro;
c) il rimborso dovesse avvenire in 15 anni, mediante pagamento di un
anticipo, di 179 rate mensili di euro 4.487,60 ciascuna (termine poi
prorogato in corso di esecuzione del contratto), e di un prezzo finale di
riscatto;
d) la rata dovuta dall’utilizzatrice alla concedente potesse aumentare o
diminuire in funzione di due variabili:
d’) sia in funzione della variazione del tasso “LIBOR 3 mesi – CHF”;
d’) sia in funzione delle variazioni del tasso di cambio tra l’euro e il
franco svizzero.
3. Il modo e la misura in cui il canone di leasing dovesse variare erano
stabiliti dal contratto come segue:
a) la rata poteva variare sia in aumento che in diminuzione;
b) la variabilità del canone dipendente dalle fluttuazioni del tasso
LIBOR era illimitata in aumento, e limitata in diminuzione (non oltre due
punti in meno dell’indice di base), e si sarebbe applicata a partire dal
canone in scadenza nel mese in cui si era verificata la variazione del
tasso LIBOR;
c) la variabilità del canone dipendente dalle fluttuazioni del cambio
franco/euro era illimitata sia in aumento che in diminuzione;
d) la misura della variazione del canone dipendente dalle fluttuazioni
del cambio franco/euro doveva determinarsi con una formula
matematica, pari al canone, diviso per il cambio al momento del
pagamento della rata, e moltiplicato per la differenza tra cambio storico
(cioè il cambio fissato convenzionalmente dalle parti alla stipula del
contratto) e cambio alla scadenza del canone.
Unica differenza tra l’ipotesi di apprezzamento del franco e quella di
apprezzamento dell’euro in corso di contratto era che nel primo caso
(apprezzamento del franco, e quindi variazione a favore del debitore) a
base del calcolo si sarebbe dovuto porre l’importo della rata al netto
dell’IVA, e nel secondo caso (deprezzamento del franco, e quindi
variazione a favore del creditore) a base del calcolo si sarebbe dovuto
porre l’importo della rata al lordo dell’IVA;
e) infine, il contratto prevedeva che eventuali variazioni del canone
non avrebbero comportato l’aumento o la diminuzione della rata
mensilmente dovuta, ma sarebbero state regolate a parte, con periodiche
rimesse reciproche tra le parti.
4. Sei anni dopo la stipula del contratto la società concedente,
lamentando l’inadempimento della società utilizzatrice, chiese ed ottenne
dal Tribunale di Udine il decreto ingiuntivo 6 ottobre 2012 n. 2376,
pronunciato nei confronti della debitrice e dei suoi garanti, per l’importo
di euro 128.840,58, a titolo di canoni scaduti e non pagati.
5. Tutti gli intimati proposero, congiuntamente, opposizione al decreto.
A fondamento dell’opposizione dedussero che il contratto di leasing, nella
parte in cui conteneva la clausola di variabilità del canone nella misura
sopra descritta, andava qualificato come “strumento finanziario implicito”,
e doveva ritenersi perciò nullo, in quanto stipulato senza che fossero stati
assolti da parte della banca i preventivi obblighi di informazione imposti
dal d. lgs. 58/98.
Chiesero perciò la revoca del decreto ingiuntivo e, in via riconvenzionale,
la condanna della (OMISSIS) alla restituzione di tutte le somme pagate a titolo
di indicizzazione del canone, nonché la condanna dell’intermediario al
risarcimento del danno.
6. Il Tribunale di Udine con sentenza 24.2.2015 n. 314 ritenne che la
clausola la quale prevedeva la variazione del canone in funzione sia del
tasso LIBOR che del tasso di cambio tra l’euro ed il franco svizzero
contenesse in realtà due strumenti finanziari derivati, autonomi rispetto
al contratto di leasing.
Ne dichiarò perciò la nullità, poiché la società utilizzatrice non aveva
ricevuto le informazioni precontrattuali prescritte dalla legge prima della
stipula di contratti aventi ad oggetto strumenti finanziari.
Ridusse di conseguenza il credito della concedente (OMISSIS) a 78.131 euro, e
la condannò a risarcire il danno patito dalla utilizzatrice (OMISSIS), quantificato
in euro 13.102 (né la sentenza, né il ricorso, né il controricorso precisano
di che danno si tratti).
La sentenza fu appellata dalla (OMISSIS).
7. Con sentenza 19 dicembre 2018 n. 751 la Corte d’appello di Trieste ha
rigettato il gravame, adottando però una motivazione diversa rispetto a
quella del Tribunale.
La Corte d’appello ha definito l’intero contratto sottoposto al suo esame
come “una sorta di swap”, lo ha qualificato “aleatorio” e lo ha dichiarato
rientrante nel genus delle scommesse (p. 13-14 della sentenza
d’appello).
Ha poi aggiunto che la clausola di ancoraggio del canone al tasso di
cambio tra franco svizzero ed euro era “astrusa, macchinosa, complessa
e oscura”, e provocava uno “squilibro nelle prestazioni” (p. 16), in quanto
la formula di calcolo del “rischio cambio” differiva a seconda che la
variazione fosse favorevole o sfavorevole al concedente; che il contratto
era stato qualificato come “contenente elementi riconducibili a strumenti
finanziari derivati” anche dal consulente d’ufficio nominato in primo
grado; che al momento della stipula – sempre ad avviso del c.t.u. – era
“prevedibile un apprezzamento del franco” rispetto all’euro.
Detto ciò, la Corte d’appello ha concluso che “per le esposte ragioni”
l’opposizione al decreto ingiuntivo andava accolta in quanto la (sola)
clausola di rischio cambio era “invalida ex art. 1322, secondo comma,
c.c.”, e non già perché il contratto fosse nullo a causa della violazione
degli obblighi di informazione precontrattuale prescritti dal d. lgs. 58/98.
8. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione dalla (OMISSIS), con
ricorso fondato su due motivi.
La (OMISSIS) ed i suoi cinque fideiussori hanno resistito con controricorso.
9. Il ricorso venne assegnato alla Terza Sezione civile di questa Corte e
discusso nell’adunanza camerale del 9 febbraio 2022.
Con ordinanza interlocutoria 16 marzo 2022 n. 8603 la Terza Sezione
civile di questa Corte ha rimesso gli atti al Primo Presidente, affinché
fosse valutata l’opportunità di assegnazione del ricorso a queste Sezioni
Unite.
La suddetta ordinanza, dopo aver ravvisato l’esistenza di contrastanti
decisioni di questa Corte circa la validità di clausole come quella oggetto
del presente giudizio, ha ritenuto non persuasivo l’orientamento che nega
alle clausole suddette la qualificazione di “derivati impliciti”, e sollecita
queste Sezioni Unite a stabilire, siccome questioni di massima di
particolare importanza:
a) se la clausola di cui si discorre sia un mero meccanismo di
indicizzazione, oppure costituisca una “scommessa”, o comunque abbia
una finalità speculativa;
b) se la suddetta clausola muti la causa del contratto di leasing,
“inquinandola”, ed in questo caso con quali effetti;
c) se la relativa pattuizione, a causa della sua oscurità, violi i doveri
di correttezza e buona fede da parte del predisponente.
10. Per effetto della suddetta ordinanza interlocutoria il ricorso è stato
fissato dinanzi a queste Sezioni Unite per l’odierna udienza, prima della
quale ambo le parti hanno depositato memoria.
Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte nelle quali ha
chiesto l’accoglimento del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso.
Col primo motivo la (OMISSIS) dichiara di voler denunciare sia il vizio di
violazione di legge ex articolo 360, n. 3, c.p.c. (con riferimento agli
articoli 1362, 1363, 1366, 1367, 1371 c.c.; 1 d. lgs. 58/98), sia quello di
nullità processuale ex articolo 360, n. 4, c.p.c., sia quello di omesso
esame di un fatto decisivo, ex articolo 360, n. 5, c.p.c.
Al di là di tali indicazioni, non del tutto coerenti rispetto al contenuto
oggettivo del ricorso, l’illustrazione del motivo contiene in realtà due
censure.
1.1. Con una prima censura (pp. 10-14 del ricorso) la società ricorrente
sostiene che la Corte d’appello avrebbe malamente interpretato il
contratto.
L’errore sarebbe consistito nel non apprezzare adeguatamente la comune
volontà delle parti, che fu quella di stipulare un normale contratto di
leasing in valuta estera.
Che fosse intenzione delle parti stipulare un contratto in valuta estera si
sarebbe dovuto desumere, ad avviso della ricorrente, dalla valutazione
complessiva delle clausole contrattuali e dalla condotta delle parti anche
nella fase precedente la stipula.
Se la Corte d’appello avesse tenuto conto del fatto che il contratto fu
stipulato in valuta estera, avrebbe dovuto trarre la conclusione che le
clausole di indicizzazione del canone non solo non erano affatto atipiche,
ma costituivano normali clausole diffuse nella prassi bancaria in tutti i
rapporti finanziari accesi in divisa estera, quando il debitore sia un
soggetto residente in un paese dell’ “area Euro”.
La contestata clausola, pertanto, non aveva altro effetto che consentire al
debitore di restituire in euro un finanziamento concessogli in altra valuta.
1.2. Con una seconda censura (p. 15-17) la società ricorrente sostiene
che la Corte d’appello, oltre a male interpretare il contratto, lo avrebbe
anche malamente qualificato.
Deduce la ricorrente che la clausola di doppia indicizzazione prevista dal
contratto non possedeva alcuna delle caratteristiche tipiche degli
strumenti finanziari derivati: non l’astrazione, non l’autonomia, non
l’esistenza d’un capitale puramente nozionale, non la previsione del
valore da assegnare ai reciproci flussi finanziari nel caso di cessazione
degli effetti del contratto (e cioè il c.d. “mark to market”).
1.3. Ambedue le censure sono inammissibili per difetto di rilevanza, in
quanto non coerenti rispetto alla ratio decidendi sottesa dalla sentenza
impugnata.
La Corte d’appello infatti ha rigettato il gravame non perché – come
aveva invece ritenuto il Tribunale – le parti avessero stipulato un
contratto di swap non preceduto da adeguata informazione.
Lo ha rigettato sul presupposto che il contratto stipulato dalle parti fosse
immeritevole di tutela ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma, c.c..
Rispetto a tale ratio decidendi non vengono dunque in rilievo né questioni
di interpretazione, né questioni di qualificazione.
1.3.1. Non vengono in rilievo questioni di interpretazione, dal momento
che il contenuto oggettivo del contratto e il significato da attribuire al
testo delle previsioni contrattuali non è stato mai in discussione tra le
parti.
Queste avevano ben chiaro quali fossero gli obblighi nascenti dal
contratto: semplicemente, controvertevano sulla validità dei patti che
quegli obblighi avevano generato.
1.3.2. Nemmeno vengono in rilievo, nella motivazione della sentenza
impugnata, questioni di qualificazione del contratto.
La Corte d’appello infatti ha accolto l’opposizione a decreto ingiuntivo non
già sul presupposto che la banca concedente avesse violato gli obblighi di
informazione precontrattuale previsti dalla legge nel caso di vendita di
strumenti finanziari derivati (così la sentenza, p. 18), ma perché ha
ritenuto il patto di “rischio cambio” immeritevole di tutela in quanto
“aleatorio, speculativo e incoerente rispetto alle effettive necessità di un
contratto di leasing” (p. 17).
La qualificazione del contratto come “una sorta di swap”, contenuta a p.
13 della sentenza impugnata, non ha dunque giocato alcun ruolo nell’iter
argomentativo del giudice d’appello. E’ stata infatti la ritenuta
immeritevolezza del patto di indicizzazione a determinare il giudice
d’appello al rigetto del gravame, e non la violazione delle norme dettate
dal d. lgs. 58/98 in tema di vendita di strumenti finanziari.
2. Il secondo motivo.
Col secondo motivo la società ricorrente lamenta, ai sensi dell’articolo
360, n. 3, c.p.c., la violazione dell’articolo 1322 c.c., nonché il vizio di
omesso esame d’un fatto decisivo, ai sensi dell’articolo 360, n. 5, c.p.c.
Deduce la ricorrente che il contratto da essa stipulato con la (OMISSIS) non
presentava alcuno dei presupposti che, secondo la giurisprudenza di
questa Corte, debbono ricorrere per poter qualificare un contratto come
“immeritevole”, ex articolo 1322, secondo comma, c.c..
La clausola di indicizzazione contenuta nel contratto, infatti:
-) non attribuiva alcun vantaggio ingiusto e sproporzionato ad una
parte soltanto, e senza contropartita: il contratto prevedeva che il canone
potesse sia aumentare, sia diminuire, in modo speculare;
-) non poneva alcuna delle parti in una posizione di “soggezione”
rispetto all’altra;
-) non costringeva alcuna delle parti alla violazione di doveri di
solidarietà sociale costituzionalmente imposti.
L’illustrazione del motivo prosegue sostenendo che il richiamo del
Tribunale al principio di correttezza fu ultroneo, dal momento che se un
contratto è validamente stipulato, la scorrettezza di una delle parti può al
massimo integrare gli estremi dell’inadempimento. Sicché, anche ad
ammettere che la banca avesse preteso somme non dovute, l’unico
rimedio possibile sarebbe stata la ripetizione dell’indebito, e non la
statuizione di immeritevolezza del contratto.
Infine, la ricorrente osserva come la decisione della Corte d’appello abbia
avuto per effetto quello di trasformare un contratto in cui la prestazione
tra le parti era stata pattuita in valuta estera, in un contratto avente ad
oggetto un debito pecuniario espresso in valuta nazionale. Ma se è la
legge stessa a consentire la stipula di obbligazioni in valuta estera, ad
avviso della ricorrente non v’è ragione per ritenere “immeritevole” la
clausola che indicizzi l’obbligazione del debitore rinviando ad una valuta
estera.
2.1. La censura di omesso esame del fatto decisivo non viene neanche
illustrata ed è perciò inammissibile.
La censura di violazione dell’articolo 1322, secondo comma, c.c., è
fondata.
2.2. Questa Corte ha già stabilito che il giudizio di “meritevolezza” di cui
all’art. 1322, comma secondo, c.c., non coincide col giudizio di liceità del
contratto, del suo oggetto o della sua causa.
Secondo la Relazione al Codice civile la meritevolezza è un giudizio che
deve investire non il contratto in sé, ma il risultato con esso avuto di mira
dalle parti, cioè lo scopo pratico o causa concreta che dir si voglia (ex
aliis, Sez. U – , Sentenza n. 4222 del 17/02/2017; Sez. U, Sentenza n.
4223 del 17/02/2017; Sez. U, Sentenza n. 4224 del 17/02/2017; Sez. 3,
Sentenza n. 10506 del 28/04/2017).
Ed il risultato del contratto dovrà dirsi immeritevole solo quando sia
contrario alla coscienza civile, all’economia, al buon costume od all’ordine
pubblico (così la Relazione al Codice, § 603, II capoverso).
Questo principio, se pur anteriore alla promulgazione della Carta
costituzionale, è stato da questa ripreso e consacrato negli artt. 2,
secondo periodo; 4, secondo comma, e 41, secondo comma, cost..
Un contratto dunque non può dirsi “immeritevole” sol perché poco
conveniente per una delle parti. L’ordinamento garantisce il contraente il
cui consenso sia stato stornato o prevaricato, non quello che, libero ed
informato, abbia compiuto scelte contrattuali non pienamente satisfattive
dei propri interessi economici.
Affinché dunque un patto atipico possa dirsi “immeritevole”, ai sensi
dell’art. 1322 c.c., è necessario accertare la contrarietà (non del patto,
ma) del risultato cui esso mira con i princìpi di solidarietà, parità e non
prevaricazione che il nostro ordinamento pone a fondamento dei rapporti
privati.
Sono stati perciò ritenuti immeritevoli, ai sensi dell’art. 1322, comma
secondo, c.c., contratti o patti contrattuali che, pur formalmente
rispettosi della legge, avevano per scopo o per effetto di:
(a) attribuire ad una delle parti un vantaggio ingiusto e sproporzionato,
senza contropartita per l’altra (sentenze 22950/15; 19559/15);
(b) porre una delle parti in una posizione di indeterminata soggezione
rispetto all’altra (sentenze 4222/17; 3080/13; 12454/09; 1898/00;
9975/95);
(c) costringere una delle parti a tenere condotte contrastanti coi superiori
doveri di solidarietà costituzionalmente imposti (sentenza 14343/09).
2.3. Nel caso di specie la Corte d’appello ha reputato che la clausola di
“rischio cambio” fosse “immeritevole” ex art. 1322 c.c. spendendo tre
argomenti, e cioè:
1) il calcolo della variazione del saggio di interesse dovuto
dall’utilizzatrice era “astruso e macchinoso”;
2) la clausola che disciplinava il “rischio cambio” era caratterizzata da
aleatorietà e squilibrio, in quanto prevedeva una differente base di calcolo
dell’indicizzazione, a seconda che l’euro si fosse apprezzato o deprezzato
rispetto alla valuta di riferimento;
3) il c.t.u. aveva accertato che fin dalla stipula del contratto era
prevedibile un costante apprezzamento del franco svizzero sull’euro.
Tutti e tre questi argomenti sono erronei in punto di diritto.
Essi né singolarmente, né complessivamente, sono idonei a giustificare
un giudizio di “immeritevolezza” ex art. 1322 c.c., alla luce dei princìpi
stabiliti da questa Corte e sopra ricordati.
2.4. Il primo argomento è erroneo perché una clausola contrattuale
“astrusa” od inintelligibile non rende il contratto nullo o “immeritevole” ex
1322 c.c.. Dinanzi a clausole contrattuali oscure il giudice deve ricorrere
agli strumenti legali di ermeneutica (artt. 1362-1371 c.c.), e non ad un
giudizio di immeritevolezza.
La clausola oscura andrà dunque interpretata, in mancanza di altri criteri,
almeno in modo che le si possa dare un senso (artt. 1371 c.c.), oppure
contra proferentem (art. 1370 c.c.).
Quanto, poi, all’affermazione secondo cui una clausola “macchinosa”
sarebbe di per sé immeritevole, essa non può essere condivisa per due
ragioni.
2.4.1. La prima ragione è che, da un punto di vista epistemologico, non
esistono concetti “facili” e concetti “difficili”. Esistono concetti noti e
concetti ignoti: i primi sono comprensibili ed i secondi no, se non
vengano spiegati.
Una clausola contrattuale non può dirsi dunque mai “macchinosa” in
senso assoluto. Può esserlo in senso relativo, ad es. se contenuta in un
testo contrattuale predisposto unilateralmente e sottoposto a persona
priva delle necessarie competenze per comprenderlo.
Ma in quest’ultima ipotesi non si dirà che quel contratto è “immeritevole”:
si dirà, piuttosto, che il contratto è annullabile poiché il consenso del
contraente è stato dato per errore o carpito con dolo. Oppure si dirà che
il proponente è tenuto al risarcimento del danno per non avere fornito
alla controparte le necessarie informazioni precontrattuali, ove imposte
dalla legge o dal dovere di buona fede.
Molti contratti contengono per necessità clausole assai articolate e
complesse: ad esempio i contratti di handling aeroportuale, le
assicurazioni dei rischi agricoli, il noleggio di piattaforme off-shore, il
project financing di opere pubbliche, ma anche i contratti di massa come
quelli di somministrazione di energia elettrica; ma non constano
precedenti che abbiano dichiarate nulle tali clausole soltanto a causa della
loro complessità.
L’equazione stabilita dalla Corte d’appello, per cui “macchinosità della
clausola = immeritevolezza” è dunque erronea in punto di diritto.
2.4.2. La seconda ragione è che nel caso di specie la pretesa
“macchinosità” consisteva in una banale moltiplicazione d’un rapporto per
una differenza, come descritto supra, al § 3, lettera (d), della sezione
“Fatti di causa”: una operazione dunque puramente aritmetica, e niente
affatto “macchinosa”.
2.5. Il secondo argomento speso dalla sentenza impugnata per pervenire
al giudizio di immeritevolezza della clausola (“la clausola è caratterizzata
da aleatorietà e squilibrio”) è erroneo in punto di diritto sotto due profili.
2.5.1. In primo luogo la sentenza impugnata mostra di confondere l’alea
economica, insita in ogni contratto, con l’alea giuridica, che del contratto
forma invece oggetto e ne è elemento essenziale: e cioè la susceptio
periculi. E nel caso di specie causa del contratto era il trasferimento della
proprietà di un immobile, non il trasferimento di un rischio dietro
pagamento di un prezzo.
In ogni caso un contratto aleatorio non è, per ciò solo, immeritevole di
tutela ex articolo 1322 c.c..
La vendita del raccolto futuro (emptio spei), l’assicurazione sulla vita a
tempo determinato per il caso di morte, la rendita vitalizia sono tutti
contratti aleatori: e se la legge ne consente la stipula, l’aleatorietà non
può ritenersi di per sé una caratteristica tale da rendere “immeritevole” di
giuridica esistenza il contratto.
Né è inibito alle parti stipulare contratti aleatori atipici: questa Corte
infatti ha già affermato la liceità e la meritevolezza di contratti alesatori
non espressamente previsti dalla legge: ad esempio, in materia di c.d.
vitalizio atipico (ex multis, Sez. 2, Sentenza n. 8209 del 22/04/2016;
Sez. 3, Sentenza n. 2629 del 27/04/1982).
Neppure è vietato inserire elementi di aleatorietà in un contratto
commutativo.
Le parti d’un contratto infatti, nell’esercizio del loro potere di autonomia
negoziale, ben possono prefigurarsi la possibilità di sopravvenienze che
incidono o possono incidere sull’equilibrio delle prestazioni, ed
assumerne, reciprocamente o unilateralmente, il rischio, modificando in
tal modo lo schema tipico del contratto commutativo e rendendolo per
tale aspetto aleatorio, con l’effetto di escludere, nel caso di verificazione
di tali sopravvenienze, l’applicabilità dei meccanismi riequilibratorii
previsti nell’ordinaria disciplina del contratto (art. 1467 e 1664 cod. civ.).
E l’assunzione del suddetto rischio, come già stabilito da questa Corte,
può risultare anche per implicito dal regolamento convenzionale che le
parti hanno dato al rapporto e dal modo in cui hanno strutturato le loro
obbligazioni [Sez. 1, Sentenza n. 948 del 26/01/1993, Rv. 480454 – 01;
Sez. 2, Sentenza n. 17485 del 12/10/2012, Rv. 624088-01; Sez. 3,
Ordinanza n. 8881 del 13/05/2020; Sez. 2, Sentenza n. 2622 del
4.2.2021 (in motivazione)].
2.5.2. La Corte d’appello ha poi ritenuto che la clausola di indicizzazione
di cui si discorre sarebbe “immeritevole” perché le contrapposte
obbligazioni delle parti erano “squilibrate”; e le ha ritenute squilibrate
perché la misura della variazione del saggio degli interessi non era
simmetrica: una pari variazione del rapporto di cambio tra il franco
svizzero e l’euro avrebbe infatti comportato variazioni diverse del saggio
di interessi, a seconda che la variazione fosse stata a favore del
concedente o dell’utilizzatore.
La Corte d’appello, quindi, ha mostrato implicitamente – ma
inequivocamente – di ritenere che:
a) il concetto di “equilibrio delle prestazioni” di un contratto
sinallagmatico consista in una paritaria e perfetta equipollenza tra le
contrapposte obbligazioni;
b) ogni minimo disallineamento tra questa perfetta parità possa essere
sindacato dal giudice, amputando parti del contratto per ricondurlo
all’equità.
Ambedue queste affermazioni sono tuttavia erronee, per più ragioni.
2.5.3. La prima ragione è che il diritto dei contratti non è un egualitario
letto di Procuste che imponga l’assoluta parità tra le parti quanto a
condizioni, termini e vantaggi contrattuali.
E’ bene ricordare che la libertà negoziale è principio cardine del nostro
ordinamento e del diritto dei contratti.
L’ordinamento garantisce in egual misura tanto la protezione contro gli
abusi di posizioni dominanti, quanto il diritto di iniziativa economica. Se il
soggetto abilitato all’esercizio del credito ha il dovere di rispettare le
regole del gioco e comportarsi in buona fede, nondimeno ha anche il
diritto di pianificare in piena libertà le proprie strategie imprenditoriali e
commerciali, come già ripetutamente affermato da questa Corte (da
ultimo, con ampiezza di motivazioni, Sez. 1, Sentenza n. 1184 del
21.1.2020; nello stesso senso, Sez. 3, Ordinanza n. 28022 del
14/10/2021).
Non è dunque lo iato tra prestazione e controprestazione che può rendere
un contratto “immeritevole” di tutela ex art. 1322 c.c., se quella
differenza sia stata in piena libertà ed autonomia compresa ed accettata.
La seconda ragione è che lo squilibrio delle prestazioni non può farsi
coincidere la convenienza del contratto. Chi ha fatto un cattivo affare non
può pretendere di sciogliersi dal contratto invocando “lo squilibrio delle
prestazioni”. L’intervento del giudice sul contratto non può che essere
limitato a casi eccezionali, pena la violazione del fondamentale principio
di libertà negoziale (così, ex multis, Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 36740 del
25/11/2021, Rv. 663148 – 01).
La terza ragione è che lo squilibrio (economico) tra le prestazioni se è
genetico legittima il ricorso alla rescissione per lesione; se è
sopravvenuto legittima il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità
sopravvenuta. L’esistenza di tali rimedi esclude dunque la necessità
stessa di ricorrere a fantasiose invenzioni circa la “immeritevolezza” d’un
contratto che preveda “prestazioni squilibrate”.
La quarta ragione è che, anche ad ammettere che il calcolo del
conguaglio degli interessi, per come previsto dal contratto, fosse più
vantaggioso per il concedente rispetto all’utilizzatore, questa circostanza
non basta di per sé a rendere “immeritevole” ex art. 1322 c.c..
Si potrà discutere se questa clausola sia valida ex art. 1341 c.c.; oppure
se sia frutto dell’approfittamento d’uno stato di bisogno; od ancora se
non sia stata adeguatamente illustrata in sede precontrattuale: ma nel
primo caso soccorrerà il rimedio della nullità; nel secondo quello della
rescissione; nel terzo quello dell’annullamento del contratto per errore o
del risarcimento del danno.
In conclusione, il giudizio di “immeritevolezza” di cui è menzione nell’art.
1322 c.c. non può mai trasformarsi in una magica porta di Ishtar
attraverso la quale veicolare un inammissibile intervento del giudice sulla
convenienza dell’affare.
2.5.4. La Corte d’appello ha altresì ritenuto che il contratto fosse
squilibrato perché la clausola di “rischio cambio” prevedeva due differenti
modalità di calcolo del conguaglio degli interessi, a seconda che il franco
svizzero si apprezzasse o si deprezzasse rispetto all’euro.
La differenza cui la Corte d’appello ha attribuito valore decisivo ai fini del
rigetto della domanda proposta dalla (OMISSIS) consisteva in ciò: che in caso di
apprezzamento del franco sull’euro (e quindi di vantaggio per
l’utilizzatore), la base di calcolo del conguaglio era rappresentata
dall’importo della rata di leasing al netto dell’IVA; nel caso di
deprezzamento del franco (e quindi di vantaggio per il concedente) la
base di calcolo del conguaglio era rappresentata dall’importo della rata di
leasing al netto dell’IVA.
La Corte d’appello, quindi, ha giudicato immeritevole un patto
contrattuale limitandosi a registrare un dato puramente esteriore: la
differenza della formula di calcolo del conguaglio degli interessi.
Tuttavia qualsiasi valutazione circa la validità o la meritevolezza di un
patto contrattuale non potrebbe mai limitarsi all’esame del suo
contenuto, senza apprezzarne gli effetti, e senza valutare se essi siano
sorretti da una giusta causa. In questo modo la Corte d’appello ha violato
il millenario principio per cui soltanto cum nulla subest causa, constare
non potest obligatio.
E sebbene non spetti a questa Corte sindacare il merito della
controversia, è doveroso rilevare che astrattamente la clausola ritenuta
dalla Corte d’appello “immeritevole” avrebbe potuto avere varie
giustificazioni.
Se infatti il franco svizzero si fosse apprezzato rispetto all’euro, il
concedente avrebbe ricevuto una prestazione (in euro) di valore nominale
inferiore a quella che gli sarebbe spettata in valore reale, e tale riduzione
avrebbe riguardato l’intero credito: sia la parte pagata dall’utilizzatore a
titolo di rimborso del finanziamento, sia la parte pagata a titolo di
imposta.
Il concedente, dunque, in tal caso avrebbe ricevuto un corrispettivo
inferiore a quello preventivato, e ciò avrebbe alterato il suo piano
finanziario: e questa sarebbe potuta essere teoricamente una valida
ragione per porre a base del calcolo del conguaglio anche l’IVA.
Se invece il franco svizzero si fosse deprezzato rispetto all’euro,
l’utilizzatore avrebbe versato (in euro) una prestazione in valore nominale
superiore a quella che avrebbe dovuto versare in valore reale. Ma degli
importi versati dall’utilizzatore, però, il concedente doveva
necessariamente stornarne un’aliquota a titolo di IVA, e di tale importo
non sarebbe stato in potere del concedente pretenderne la restituzione
dall’erario, per restituire l’eccedenza all’utilizzatore: e questa sarebbe
potuta essere teoricamente una valida ragione per porre a base del
calcolo del conguaglio anche l’IVA..
Tali considerazioni, svolte solo a mo’ d’esempio, corroborano la
conclusione che il giudizio di “immeritevolezza” d’un contratto, ex art.
1322, secondo comma, c.c., non può essere formulato in astratto ed ex
ante, limitandosi a considerare il solo contenuto oggettivo dei patti
contrattuali, ma va compiuto in concreto ed ex post, ricercando –
beninteso, iuxta alligata et probata partium – lo scopo perseguito dalle
parti.
2.6. Infine, la Corte d’appello ha reputato “immeritevole” la clausola di
cui si discorre, sul presupposto che il consulente d’ufficio aveva accertato
che “fin dalla stipula del contratto era prevedibile un costante
apprezzamento del franco svizzero sull’euro”.
Ma l’eventualità che uno dei contraenti taccia alla controparte circostanze
note circa lo sviluppo o la convenienza dell’affare potrebbe costituire una
violazione dei doveri di correttezza e buona fede nella conclusione dei
contratti, e dunque anche in questo caso i rimedi previsti
dall’ordinamento possono essere l’annullamento del contratto per errore
o il risarcimento del danno, ma non certo il giudizio di “immeritevolezza”
del contratto.
2.7. In conclusione, la Corte d’appello ha formulato in iure un giudizio di
“immeritevolezza” del contratto, ex art. 1322, comma secondo, c.c., dopo
avere accertato in facto circostanze irrilevanti ai fini del suddetto giudizio
(aleatorietà, difficoltà di interpretazione, asimmetria delle prestazioni).
Ha dunque, in questo modo, falsamente applicato il suddetto art. 1322
c.c..
3. Le questioni poste dall’ordinanza di rimessione.
La ritenuta inammissibilità del primo motivo di ricorso consente a questo
Collegio di pronunciarsi, nell’interesse della legge, sulla questione in esso
dibattuta, e segnalata come contrastata, oltre che di particolare
importanza, dall’ordinanza di rimessione.
Questa Corte ha infatti già stabilito che l’art. 363, terzo comma, c.p.c.
consente l’enunciazione del principio di diritto anche nel caso in cui un
solo motivo del ricorso sia dichiarato inammissibile, se esso involga una
questione di particolare importanza (così Sez. U – , Sentenza n. 16601
del 05/07/2017, § 5 delle “Ragioni della decisione”).
3.1. Con ordinanza 16.3.2022 n. 8603 la Terza Sezione civile di questa
Corte ha:
a) ravvisato l’esistenza d’un contrasto nella giurisprudenza di questa
Corte, circa la validità delle clausole di indicizzazione degli interessi
inserite in contratti di vario tipo (sia di leasing che di mutuo) stipulati in
valuta estera e identiche a quella oggetto del presente giudizio, nonché
circa la loro qualificabilità come “strumenti finanziari derivati”;
b) ritenuto “non persuasiva” l’opinione, espressa da alcune decisioni
di questa Corte, secondo cui le suddette clausole non costituirebbero uno
strumento finanziario derivato;
c) sottoposto a queste Sezioni Unite le questioni seguenti:
c’) se clausole come quella oggetto del contendere siano una
mera forma di indicizzazione oppure un “derivato implicito”, e quindi una
scommessa con fine speculativo;
c’’) se la clausola oggetto del contendere possa avere per
effetto di snaturare la causa del contratto di leasing, trasformandolo in un
contratto di altro tipo o in un contratto a causa mista;
c’’’) se il relativo patto contrattuale “comporti violazione
dell’obbligo di buona fede, per la mancanza di chiarezza ed
informazione, conseguenti alla natura puramente speculativa della
clausola”.
4. Sull’esistenza del contrasto.
Preliminarmente rileva il Collegio come non possa propriamente parlarsi
dell’esistenza d’un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, sul
tema della qualificazione e della validità di clausole che, come quella
oggetto del presente giudizio, prevedano la variazione degli interessi
dovuti dall’utilizzatore d’un bene concesso in leasing, in funzione delle
oscillazioni d’un indice sia finanziario che monetario.
La validità di tali clausole, in fattispecie identica a quella oggi in esame, è
già stata esaminata in diverse occasioni da questa Corte.
In particolare la questione è stata esaminata da Sez. 3, Sentenza n. 4659
del 22/02/2021, la quale ha escluso che le suddette clausole possano
qualificarsi come “strumenti finanziari derivati impliciti”; e poi da Sez. 3,
Ordinanza n. 26538 del 30.9.2021, la quale ha ritenuto erronea
l’interpretazione del contratto con cui il giudice di merito aveva ritenuto
“squilibrata”, in quanto favorevole ad una sola delle parti, la suddetta
clausola.
Gli altri due precedenti segnalati come contrastanti dall’ordinanza di
rimessione (Cass. 16907/19 e Cass. 23655/21) in realtà non possono
ritenersi tali.
Quanto a Sez. 3, Sentenza n. 16907 del 30.6.2019, tale decisione si è
limitata a dichiarare – correttamente – insindacabile in sede di legittimità
il giudizio con cui il giudice di merito aveva ritenuto “indeterminabile” la
misura degli interessi dovuti dall’utilizzatore in leasing al concedente.
Tale decisione, dunque, non ha affrontato né la questione della natura
della clausola, né quella della sua contrarietà a buona fede.
Quanto, infine, a Sez. 3, Ordinanza n. 26538 del 30.9.2021, tale
decisione non solo si è occupata di un problema ben diverso (se e quanto
il giudice di merito, nel motivare il giudizio di indeterminatezza d’una
clausola di indicizzazione, potesse discostarsi dalle valutazioni già
compiute su quella clausola dall’Autorità Garante della Concorrenza e del
Mercato), ma per di più:
-) aveva ad oggetto un contratto di mutuo e non di leasing;
-) aveva ad oggetto un contratto stipulato con un consumatore e non tra
imprese commerciali, come nel caso oggi in esame;
-) aveva ad oggetto un contratto nel quale la clausola di indicizzazione
prevedeva la variabilità non solo degli interessi, ma anche del capitale.
Non esiste, dunque, alcun sostanziale contrasto nella giurisprudenza di
questa Corte.
5. Sulla distinzione tra “derivati impliciti” e clausole di indicizzazione.
Prima di stabilire se una clausola come quella oggetto del presente
giudizio patto costituisca o meno uno “strumento finanziario derivato”
reputa questa Corte doveroso premettere di non potere seguire le nimiae
subtilitates con cui parte della dottrina ha proposto infinite distinzioni e
sottodistinzioni in tema di strumenti finanziari derivati.
Compito del giudice di legittimità è infatti assicurare “l’esatta
interpretazione della legge”, e l’esatta interpretazione consiste nel
sussumere le nuove fattispecie concrete, fino a quando sia possibile, in
categorie giuridiche note, piuttosto che partorirne continuamente di
nuove.
5.1. Una clausola inserita in un contratto di leasing, la quale faccia
dipendere gli interessi dovuti dall’utilizzatore dalla variazione di un indice
finanziario insieme ad un indice monetario, in un caso come quello di
specie, non è uno strumento finanziario derivato, e tanto meno un
“derivato implicito”.
5.2. Gli “strumenti finanziari derivati” sono accordi negoziali definiti
dall’art. 1 d. lgs. 58/98.
La clausola oggetto del presente giudizio non rientra in tale previsione né
avendo riguardo al testo vigente all’epoca della conclusione del contratto
di leasing di cui si discorre; né avendo riguardo al testo di esso oggi
vigente; né facendo ricorso all’analogia legis.
5.3. La clausola di cui si discorre, innanzitutto, non è uno strumento
finanziario derivato in base alla normativa vigente ratione temporis.
Il contratto di cui si discorre è stato stipulato nel 2006 (così il
controricorso, p. 3).
A quella data la nozione di “strumenti finanziari derivati” era contenuta
nell’art. 1, comma 3, d. lgs. 24.2.1998 n. 58 (nel testo modificato dal d.
lgs. 17.1.2003 n. 6, ed anteriore alle modifiche di cui al d. lgs.
29.12.2006 n. 303). Tali erano considerati:
-) i contratti “futures” su strumenti finanziari, su tassi di interesse, su
valute, su merci e sui relativi indici, anche quando l’esecuzione avvenga
attraverso il pagamento di differenziali in contanti;
-) i contratti di scambio a pronti e a termine (swaps) su tassi di interesse,
su valute, su merci nonché su indici azionari (equity swaps), anche
quando l’esecuzione avvenga attraverso il pagamento di differenziali in
contanti;
-) i contratti a termine collegati a strumenti finanziari, a tassi d’interesse,
a valute, a merci e ai relativi indici, anche quando l’esecuzione avvenga
attraverso il pagamento di differenziali in contanti;
-) i contratti di opzione per acquistare o vendere gli strumenti indicati
nelle precedenti lettere e i relativi indici, nonché i contratti di opzione su
valute, su tassi d’interesse, su merci e sui relativi indici, anche quando
l’esecuzione avvenga attraverso il pagamento di differenziali in contanti;
-) le combinazioni di contratti o di titoli indicati nelle precedenti lettere.
Nessuna di queste definizioni è idonea a ricomprendere la clausola
oggetto del contendere.
5.4. La clausola in esame non costituirebbe comunque uno strumento
finanziario neanche se la si volesse esaminare – per completezza ed
astraendo dal caso concreto – alla luce della legislazione vigente.
“Strumento finanziario derivato”, per la legge vigente, è solo l’operazione
che rientra tra quelle definite come tali dal d. lgs. 58/98, e concordate
nell’ambito delle operazioni previste dal suddetto testo unico.
Questi “strumenti finanziari derivati” sono:
-) o quelli previsti dall’Allegato I al d. lgs. 58/98, Sezione “C”, punti 4-10
[art. 1, comma 2 ter, lettera (a), d. lgs. 58/98];
-) o quelli individuati dal Ministro dell’economia con proprio decreto (art.
1, comma 2 bis, d. lgs. 58/98).
Tuttavia nessuna delle previsioni contenute nelle suddette norme è tale
da includere, senza residui, la clausola di “rischio cambio” concordata
dalle parti del presente giudizio.
E’ evidentemente da escludere la ricorrenza nel caso di specie d’una
ipotesi di “derivati connessi a merci” (d. lgs. 58/98, Allegato I, Sezione C.
nn. 5, 6 e 7); di “derivati per il trasferimento del rischio di credito”
(Allegati I, cit., n. 8); di derivati connessi a “variabili climatiche, tariffe di
trasporto, tassi di inflazione o altre statistiche economiche ufficiali”
(Allegato I, cit., n. 10).
Resterebbero dunque soltanto le ipotesi di cui ai nn. 4 e 9, e cioè:
-) n. 4: Contratti di opzione, contratti finanziari a termine
standardizzati («future»), «swap», accordi per scambi futuri di tassi di
interesse e altri contratti derivati connessi a valori mobiliari, valute, tassi
di interesse o rendimenti, quote di emissione o altri strumenti finanziari
derivati, indici finanziari o misure finanziarie che possono essere regolati
con consegna fisica del sottostante o attraverso il pagamento di
differenziali in contanti;
-) n. 9: contratti finanziari differenziali.
Tuttavia la clausola di cui si discorre non è sussumibile in alcuna di
queste categorie, per la semplice ragione che attraverso essa le parti non
hanno scambiato nulla; né hanno inteso trarre frutto da uno scambio di
valori comunque determinati.
Il contratto aveva infatti ad oggetto “la locazione finanziaria dell’immobile
ivi catastalmente indicato” (così il controricorso, p. 3). Per effetto di esso
la società concedente ha assunto l’obbligo di acquistare l’immobile, la
società utilizzatrice quello di goderne e restituire le rate. Nessun
“reciproco scambio di flussi di denaro” era previsto tra le parti, né fu
interesse delle parti concludere quel contratto per lucrare sulle previste
fluttuazioni valutarie, e tanto meno per coprire un rischio di credito.
5.5. Infine, la clausola di “rischio cambio” inserita nel contratto di leasing
oggetto del presente giudizio non può qualificarsi “strumento finanziario
derivato” nemmeno facendo ricorso all’analogia, per due ragioni: sia
perché la sua causa – per quanto dedotto dalle parti – nulla ha in comune
con quella degli “strumenti finanziari derivati” elencati dalla legge; sia
perché è privo di alcuni elementi essenziali che accomunano la maggior
parte degli strumenti finanziari derivati tipici.
5.5.1. Quanto al primo aspetto, s’è visto che l’art. 1 d. lgs. 58/98
accomuna nella definizione di “strumenti finanziari derivati” ipotesi molto
diverse tra loro, raggruppabili però in quattro fenotipi principali: la
compravendita (ad es., l’acquisto di futures); la copertura di rischi (ad
es., i credit default swap); la concessione dietro corrispettivo di un diritto
di opzione; lo scambio di pagamenti il cui importo è determinato
rinviando a variabili differenti.
La clausola che àncora il saggio degli interessi dovuti dal debitore di un
contratto di leasing ad un indice monetario non rientra in alcuna di
queste categorie. La clausola suddetta, infatti, non costituiva una
compravendita né un’opzione, e tanto meno aveva lo scopo di coprire un
certo rischio o “scommettere” sull’andamento dei cambi.
La clausola si limitava ad agganciare il debito dell’utilizzatore ad un
valore monetario, e questa Corte ha già stabilito che rientrano nella
categoria degli “strumenti finanziari collegati alla valuta” soltanto quelli
per mezzo dei quali le parti intendono speculare sull’andamento del
mercato delle valute, e non quelli che si limitano a determinare il valore
d’una prestazione rinviando ad un indice monetario, comunque
determinato (Sez. 1, Sentenza n. 19226 del 04/09/2009, in
motivazione).
5.5.2. Quanto al secondo aspetto, gli elementi unificanti di quella
indistinta nebulosa che va sotto il nome di “strumenti finanziari derivati”
sono, per quanto in questa sede rileva, almeno tre, già individuati da
queste Sezioni Unite con la sentenza n. 8770 del 12/05/2020, a p. 11, §
4.5 dei “Motivi della decisione”, ed in particolare:
1) oggetto del negozio deve essere la c.d. “differenzialità”, e cioè
l’intento di trarre vantaggio dalla differenza di due valori variabili: ad
essa le parti mirano; su essa fanno leva per il perseguimento dei
rispettivi interessi; è essa che costituisce il cuore dell’operazione
economica. Nel presente caso, invece, oggetto del negozio era
indubitabilmente l’acquisto di un immobile, non la speculazione su un
titolo;
2) uno strumento finanziario derivato presuppone l’esistenza di un
“capitale nozionale”, cioè la somma di denaro astrattamente assunta
quale base di calcolo dei reciproci flussi finanziari tra le parti: nel
presente caso invece il capitale produttivo dei flussi finanziari era reale e
realmente dovuto, e non già nozionale;
3) non era prevista nel contratto di leasing oggetto del contendere la
possibilità – tipica dei derivati – di sciogliersi da esso avvalendosi
dell’opzione “mark to market” (Cass. 8770/20, cit., § 4.7).
5.6. Non sono per contro condivisibili gli argomenti maggiormente
enfatizzati da parte della dottrina per sostenere la tesi secondo cui
clausole come quella qui in esame costituirebbero “strumenti finanziari
derivati impliciti”.
5.6.1. In primo luogo, la nozione stessa di “derivato implicito” è
concettualmente inservibile per quanti ritengono che frustra fit per plura,
quod potest fieri per pauciora.
Se per “derivato implicito” si intendesse un patto dotato di una sua
autonomia causale, ma aggiunto od accessorio ad altro negozio, la
categoria non merita dignità concettuale: ci troveremmo infatti di fronte
ad un normale negozio con una sua causa ed un suo oggetto, che se pur
collegato ad altro negozio resta sottoposto alla disciplina per esso
prevista dalla legge.
Lo spedizioniere-vettore, ad es., assume le obbligazioni scaturenti dal
contratto di spedizione e da quello di trasporto, ed a nessuno verrebbe in
mente di sostenere che ha stipulato un “trasporto implicito”.
Se invece per “derivato implicito” si intendesse qualunque clausola
contrattuale la quale abbia per effetto di subordinare le tipiche
prestazioni dovute da una delle parti ad eventi futuri ed incerti, ovvero
preveda che le contrapposte prestazioni di dare gravanti su ciascuna
parte siano conguagliate per produrre un valore “differenziale”, tale
nozione sarebbe giuridicamente inutile.
Infatti una pattuizione parte di un più ampio contratto, e priva di
autonomia causale rispetto al negozio cui accede, non è pensabile come
negozio autonomo, né esplicito, né implicito. Così, ad esempio, se un
appaltatore concedesse al committente una garanzia ex art. 1667 c.c. di
quattro anni invece che di due, diremo che quell’appaltatore ha assunto
un’obbligazione pattizia aggiuntiva, non diremo certo che le parti hanno
stipulato una “fideiussione implicita”.
5.6.2. In secondo luogo la tesi – formulata in dottrina – secondo cui
qualsiasi clausola che faccia dipendere l’an e il quantum di una
prestazione pecuniaria da un parametro esterno variabile sarebbe una
scommessa finanziaria è insostenibile: essa infatti adotta una nozione di
così sconfinata latitudine, che vi rientrerebbero – ad esempio – la vendita
del raccolto futuro (emptio spei); l’assicurazione con clausola di
regolazione del premio; l’indicizzazione del corrispettivo negli appalti a
misura; e sinanche la tariffa di somministrazione di acqua da parte del
gestore del servizio idrico.
Anche questi princìpi sono stati già affermati da questa Corte, allorché ha
stabilito che l’art. 1933, primo comma, c.c. non s’applica a quei contratti i
quali, pur caratterizzati dall’alea, non sono riconducibili alla nozione di
giuoco e di scommessa: e tra questi contratti rientrano quelli – proprio
come nel caso di specie – in cui sia apposta una clausola di “rischio
cambio”, per l’eventualità che il corso di conversione della valuta in cui è
espresso il credito venga a mutare nella vigenza del contratto (Sez. 3,
Sentenza n. 2288 del 06/02/2004, Rv. 569925 – 01).
5.6.3. Allo stesso modo, costituisce un puro artificio la tesi (anch’essa
sostenuta in dottrina) secondo cui la previsione di un tasso minimo
dovuto dal cliente, inserita in un contratto di finanziamento a tasso
indicizzato, costituirebbe una “inconsapevole vendita da parte del cliente
al finanziatore” di una option floor, e dunque un contratto derivato.
Infatti la previsione per cui, anche nel caso di fluttuazione dell’indice di
riferimento per la determinazione degli interessi, il debitore sia comunque
tenuto al pagamento di un saggio di interessi minimo, non è che una
clausola condizionale, in cui l’evento condizionante è la fluttuazione
dell’indice di riferimento al di sotto di una certa soglia, e l’evento
condizionato la misura del saggio: dunque un patto lecito e consentito
dall’art. 1353 c.c..
5.6.4. Infine, la circostanza che le parti di un contratto decidano di
regolare periodicamente i reciproci rapporti di dare ed avere mediante
conguagli in denaro è una mera modalità di adempimento
dell’obbligazione, ovviamente lecito (Sez. 3 – , Sentenza n. 921 del
17/01/2017), e di per sé inidonea a predicare l’esistenza d’uno strumento
finanziario derivato.
E’ da escludere, in particolare, che la sola pattuizione di regolazione
periodica delle reciproche obbligazioni variabili di dare ed avere, possa
bastare per sussumere il contratto nella nozione di “contratti finanziari
differenziali” di cui alla Sezione “C”, n. (9), dell’Allegati I al d. lgs. 58/98.
Accezioni così late della “differenzialità” finirebbero per assegnare a
quest’ultima espressione un significato talmente ampio, da trasformarla
in un concetto bon à tout faire, comprensivo – ad esempio – dei contratti
di conto corrente bancario o delle assicurazioni con clausola di
regolazione del premio.
5.7. La corretta qualificazione giuridica di clausole come quella oggetto
del presente giudizio deve muovere del rilievo che il contratto oggetto del
contendere aveva ad oggetto una operazione reale (leasing); prevedeva
che il valore del debito complessivo dell’utilizzatore fosse determinato in
franchi svizzeri, e accordava all’utilizzatore la facoltà di pagare in euro.
Il contratto di leasing ha ovviamente sempre una funzione (anche) di
finanziamento, ed un finanziamento può legittimamente essere concesso
in valuta nazionale od in valuta estera.
Un finanziamento in valuta estera ha lo scopo di evitare i rischi connessi
alla svalutazione della moneta nazionale (e cioè il rischio della
svalutazione per il creditore, e il rischio della rivalutazione per il
debitore).
Un finanziamento in moneta estera può avvenire con due modalità:
a) la prima modalità è prevedere che l’indebitamento venga
direttamente denominato ed erogato nella valuta estera (ad es., il
concedente acquista l’immobile in franchi, e lo dà in locazione finanziaria
all’utilizzatore, che avrà facoltà di pagare in franchi o in euro, secondo la
previsione dell’art. 1278 c.c.);
b) la seconda modalità è esprimere sia la provvista erogata dal
concedente, sia le rate dovute dall’utilizzatore in valuta domestica, ma
agganciarne il valore al rapporto di cambio con una valuta estera.
In questo modo si realizza indirettamente lo stesso risultato della
pattuizione sub (a).
In conclusione, un finanziamento (non importa se in forma di mutuo o di
leasing) il cui importo è parametrato ad un rapporto di cambio è un
debito di valore e non di valuta.
La clausola di cui si discorre dunque non è che una normale clausolavalore, attraverso la quale le parti individuano il criterio al quale
commisurare la prestazione del debitore.
Pertanto:
-) l’aleatorietà del contratto, lungi dal costituire un indice della presenza
d’un “derivato implicito”, non è che un effetto naturale d’una altrettanto
normale clausola-valore;
-) la previsione che eventuali conguagli a favore dell’una o dell’altra parte
fossero regolati a parte, e non incidessero sul valore della rata (che
restava costante) non è che una modalità esecutiva delle reciproche
obbligazioni, insuscettibile di riverberare effetti di sorta sulla
qualificazione del contratto. Il titolo dell’obbligazione infatti non muta sol
perché cambi il termine di adempimento. Del resto, il creditore ha facoltà
di accettare un adempimento parziale (art. 1181 c.c.) o di rinunciare al
termine stabilito a suo favore (art. 1185 c.c.), e ciò dimostra che la
possibilità di regolare a parte alcune delle obbligazioni e non altre, oppure
una aliquota dell’unica obbligazione, è un effetto normale dello statuto
delle obbligazioni civili.
5.8. Resta solo da aggiungere che le considerazioni sin qui svolte non
mutano per il fatto che il contratto oggetto del presente giudizio
prevedeva una doppia indicizzazione, agganciando le variazioni del
canone sia alle variazioni del tasso LIBOR, sia alle variazioni del rapporto
di cambio franco/euro.
Ed infatti:
a) l’indicizzazione del canone al tasso LIBOR costituisce una normale
clausola onnipresente nei finanziamenti a tasso variabile; essa è
pacificamente lecita e non costituisce un derivato;
b) l’indicizzazione del canone alle fluttuazioni del rapporto di cambio
costituisce una clausola-valore, secondo quanto appena esposto; così
inquadrata, anch’essa è pacificamente lecita e non costituisce un
derivato.
Non è dunque sostenibile che dalla combinazione di due clausole, tutte e
due lecite e non costituenti uno strumento finanziario derivato, possa
sorgere un contratto illecito e che costituisca uno strumento finanziario
derivato.
6. Se la clausola di rischio cambio snaturi la causa del contratto di
leasing.
E’ ben vero che l’inserimento di elementi spurii in un contratto legalmente
o socialmente tipico può determinarne la trasformazione in altro tipo.
Per stabilire se un contratto, a causa di pattuizioni eterogenee rispetto
allo schema tipico, abbia mutato causa e natura, questa Corte ha da
tempo dettato tre criteri.
Il primo criterio è che la qualificazione del contratto come “atipico” deve
dipendere dai suoi effetti giuridici, non da quelli economici: anche la
fideiussio indemnitatis può produrre gli effetti dell’accollo, ma non è un
accollo.
Il giudice pertanto per qualificare un contratto deve avere riguardo
all’intento negoziale delle parti, non al risultato economico di esso, e
tanto meno alla sua convenienza per una delle parti (ex multis, Sez. 3,
Sentenza n. 10004 del 24/06/2003).
Il secondo criterio è che un contratto non muta natura e causa, sol
perché uno dei suoi elementi presenti un’occasionale difformità rispetto
allo schema legale tipico.
Un contratto può dirsi atipico solo quando il rapporto per come
disciplinato dalle parti diventi “del tutto estraneo al tipo normativo,
perché trae le proprie ragioni di essere dall’adeguamento degli strumenti
giuridici alle mutevoli esigenze della vita sociale e dei rapporti economici”
(così già Sez. 3, Sentenza n. 3645 del 07/11/1969; ma sostanzialmente
nello stesso senso, ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 116 del 14/01/1974;
Sez. 3, Sentenza n. 982 del 28/01/2002; Sez. 1, Sentenza n. 11096 del
11/06/2004).
Il terzo criterio, infine, è che le prestazioni atipiche poste a carico di una
delle parti non mutano la causa tipica del contratto, se in questo permane
la prevalenza degli elementi propri dello schema tipico (principio, anche
questo, pacifico e risalente, a partire da Sez. 3, Sentenza n. 116 del
14/01/1974, Rv. 367676 – 01).
6.1. Se così è, ne segue che la previsione di maggiori o minori obblighi a
carico di una delle parti, rispetto a quelli scaturenti dallo schema
contrattuale tipico, non è di per sé sufficiente a concludere che quel
contratto, mercé la pattuizione di quegli obblighi aggiuntivi, abbia mutato
causa e natura.
Questo è il principio che emerge, inequivoco, dall’analisi della
giurisprudenza di questa Corte, la quale – ad esempio – ha ritenuto che:
-) il contratto di concessione del diritto d’uso (art. 1021 c.c.) non muta
causa sol perché sia imposto un facere a carico del proprietario della cosa
(Sez. 2, Sentenza n. 462 del 17/02/1955, Rv. 880375 – 01);
-) il contratto di associazione tra professionisti (ex lege 1815/1939) non
muta causa sol perché preveda la possibilità che il singolo associato sia
escluso per delibera unanime degli altri (Sez. 1, Sentenza n. 4032 del
16/04/1991, Rv. 471679 – 01);
-) il contratto di deposito di generi alimentari deperibili non muta causa
(in contratto d’opera) sol perché siano imposti obblighi di manutenzione
ed avviso a carico del depositario (Sez. 3, Sentenza n. 534 del
20/01/1997, Rv. 501858 – 01);
-) il contratto di commissione non muta causa sol perché sia escluso il
diritto del commissionario alla provvigione (Sez. 3, Sentenza n. 982 del
28/01/2002, Rv. 551881 – 01);
-) la fideiussione non muta causa sol perché il fideiussore si obblighi a
pagare “a prima richiesta” (Sez. U, Sentenza n. 412 del 12/01/2007, Rv.
594355 – 01);
-) il contratto di mediazione non muta causa sol perché il soggetto
intermediato si obblighi a pagare la provvigione per il solo fatto che il
mediatore abbia svolto la sua attività, anche senza esito (Sez. 3,
Sentenza n. 6171 del 13/03/2009, Rv. 607083 – 01);
-) il contratto preliminare di vendita non muta causa sol perché preveda il
pagamento anticipato del prezzo da parte del promissario acquirente
(Sez. 1, Sentenza n. 4863 del 01/03/2010, Rv. 612335 – 01).
Questi pochi esempi, trascelti tra innumerevoli, dimostrano come per la
giurisprudenza di questa Corte non basta rilevare la presenza di obblighi
aggiuntivi rispetto allo schema contrattuale tipico, per concludere che il
relativo contratto abbia mutato causa e sia divenuto atipico.
6.3. L’applicazione di questi princìpi alle clausole di “rischio cambio” come
quelle oggetto del presente giudizio impone di concludere che esse non
mutano né punto, né poco, la causa del contratto di leasing.
La presenza della suddetta clausola infatti non consente di affermare che,
mercé essa, scopo dell’utilizzatore non fu acquisire un immobile, ma fu
investire del denaro per realizzare un lucro finanziario invece che
commerciale.
Allo stesso modo, la presenza della suddetta clausola non basta per
sostenere che fosse volontà del concedente concludere il contratto al solo
fine di speculare sul tasso di cambio.
Del resto, una banale conferma della impensabilità che un leasing
immobiliare indicizzato sia assimilabile ad un contratto di investimento
finanziario la si ricava, sul piano della logica, da un’ovvia reductio ad
absurdum: se un risparmiatore, volendo investire il proprio denaro, si
vedesse consigliare dall’intermediario finanziario la stipula d’un contratto
di leasing immobiliare indicizzato ad una valuta estera, difficilmente
quell’intermediario eviterebbe un giudizio di responsabilità per violazione
della regola di adeguatezza, o suitability rule che dir si voglia.
7. Se la previsione d’una clausola di rischio cambio sia contraria a buona
fede.
L’ordinanza di rimessione sollecita infine queste Sezioni Unite (p. 9), a
stabilire se la pattuizione della clausola di rischio cambio, più volte
descritta. costituisca una violazione dei doveri di correttezza e buona fede
da parte della società concedente, “per la mancanza di chiarezza e di
informazione, conseguenti alla natura puramente speculativa della
clausola”.
7.1. Premesso che tale questione non risulta essere stata dedotta in
giudizio (né dalla società opponente, né dalla società opposta; né risulta
essere stata rilevata ex officio dal Tribunale o dalla Corte d’appello), per
completezza d’esame osservano queste Sezioni Unite che meritevolezza
del contratto e rispetto dei doveri di buona fede sono questioni distinte e
separate.
Un contratto invalido può essere eseguito in buona fede, così come uno
valido può essere eseguito in mala fede.
Il giudizio di meritevolezza serve a stabilire se il contratto possa produrre
effetti; il giudizio sul rispetto della buona fede serve a stabilire molte
cose: prima della stipula può servire a stabilire se il consenso di una delle
parti sia stato carpito con dolo o dato per errore; dopo la stipula, può
servire a stabilire come debba interpretarsi il contratto (art. 1366 c.c.);
dopo l’adempimento, può servire a stabilire se questo sia stato inesatto
(art. 1375 c.c.).
Infine, il contratto immeritevole è improduttivo di effetti, il contratto
eseguito senza buona fede fa sorgere il diritto alla risoluzione o al
risarcimento del danno.
Alla luce di questi noti princìpi è agevole concludere che la sola
pattuizione di una clausola di rischio cambio come quella oggetto del
presente giudizio non può costituire, da sola, violazione dei doveri di
correttezza e buona fede da parte di un intermediario creditizio o
finanziario.
In ogni caso anche l’eventuale violazione dei suddetti doveri di
correttezza nella fase delle trattative, e di buona fede nell’esecuzione del
contratto, non potrebbe condurre ad una dichiarazione di
“immeritevolezza” del contratto. Quelle violazioni potrebbero condurre
teoricamente solo all’annullamento del contratto per vizio del consenso
(errore o dolo), oppure all’affermazione di una responsabilità
precontrattuale, od ancora al risarcimento del danno.
Tali princìpi, proprio con riferimento ad una clausola-valore inserita in un
contratto di mutuo, sono stati condivisi anche da CGUE 20.9.2017, in
causa C-186/16, Andriciuc vs. Banca Românească, secondo cui se il
finanziatore, pur essendo a conoscenza o potendo conoscere eventuali
future fluttuazioni del cambio a sfavore del mutuatario, non lo avverte di
tale circostanza in sede precontrattuale, viola il dovere di buona fede e,
se il contratto è stipulato con un consumatore, pattuisce una clausola che
produce un significativo squilibrio tra le parti (è conforme CGUE
20.9.2018, in causa C-51/17, OTP Bank vs. Ilyés and Kiss).
8. La sentenza impugnata va dunque cassata con rinvio alla Corte
d’appello di Trieste, in differente composizione, la quale tornerà ad
esaminare l’appello proposto dalla (OMISSIS) applicando il seguente principio di
diritto:
“il giudizio di “immeritevolezza” di cui all’art. 1322, secondo comma, c.c.
va compiuto avendo riguardo allo scopo perseguito dalle parti, e non alla
sua convenienza, né alla sua chiarezza, né alla sua aleatorietà”.
9. Va, infine, formulato nell’interesse della legge ex art. 363 c.p.c. il
seguente principio di diritto:
“La clausola inserita in un contratto di leasing, la quale preveda che: a) la
misura del canone varii in funzione sia delle variazioni di un indice
finanziario, sia delle fluttuazioni del tasso di cambio tra la valuta
domestica ed una valuta straniera; b) l’importo mensile del canone resti
nominalmente invariato, e i rapporti di dare/avere tra le parti dipendenti
dalle suddette fluttuazioni siano regolati a parte; non è un patto
immeritevole ex art. 1322 c.c., né costituisce uno “strumento finanziario
derivato” implicito, e la relativa pattuizione non è soggetta alle previsioni
del d. lgs. 58/98”.
10. Le spese del presente giudizio di legittimità saranno liquidate dal
giudice del rinvio.
Per questi motivi
la Corte di cassazione:
(-) rigetta il primo motivo di ricorso;
(-) accoglie il secondo motivo di ricorso, cassa la sentenza impugnata in
relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d’appello di
Trieste, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle
spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite della
Corte di cassazione, addì 13 dicembre 2022.