Sentenza 5691/2002
Patto di non concorrenza – Ambito applicativo
Il patto di non concorrenza, disciplinato dall’art. 2125 cod. civ., può riguardare non soltanto i dipendenti che svolgono mansioni direttive o di alto livello, ma anche tutti coloro che, pur essendo impiegati in compiti non intellettuali (sinanche di natura esecutiva), tuttavia operino in settori in cui l’imprenditore, in ragione della specifica natura e delle peculiari caratteristiche dell’attività svolta, possa subire un concreto pregiudizio – in termini di penetrazione nel mercato e di capacità concorrenziale- dalla utilizzazione (sia in corso di rapporto che successivamente) da parte dei lavoratori medesimi della lunga esperienza e delle numerose conoscenze acquisite alle sue dipendenze. (Fattispecie relativa ad un commesso addetto alla vendita di capi di abbigliamento).
Clausola penale – Riduzione – Istanza della parte interessata
Il potere conferito al giudice dall’art. 1384 cod. civ. di ridurre ad equità la penale (per manifesta eccessività o sopravvenuta onerosità) non può essere esercitato d’ufficio, ma richiede l’istanza della parte interessata, che non può ritenersi implicitamente contenuta nella deduzione di non dovere nulla a titolo di penale (trattandosi di deduzione incompatibile con l’istanza di riduzione) e che, nel processo del lavoro, deve essere avanzata nel rispetto delle preclusioni fissate dagli artt. 414 e 416 cod. proc. civ.; ne consegue che la richiesta in argomento deve essere avanzata nel ricorso introduttivo o nella comparsa di risposta, oppure nel primo atto difensivo successivo al verificarsi di fatti sopravvenuti idonei ad incidere sull’ammontare della penale, ma non può in nessun caso essere presentata nel giudizio di legittimità.
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza 19-4-2002, n. 5691 (CED Cassazione 2001)
Art. 2125 cc (Patto di non concorrenza) – Giurisprudenza
Art. 1382 cc (Clausola penale) – Giurisprudenza
SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO
Con ricorso depositato in data 19 luglio 1996, la s.r.l. (OMISSIS) conveniva dinanzi al Pretore di Firenze Ri. Ba., già suo commesso addetto alla vendita di articoli di abbigliamento maschile, per sentirlo condannare al pagamento di lire 5.009.704 a titolo di penale per mancato rispetto del patto di non concorrenza stipulato tra le due parti, previa compensazione con le somme dovute da essa allo stesso Ba. a titolo di tfr. Sosteneva la ricorrente che le parti in causa avevano stipulato in data 2 maggio 1995 un patto di non concorrenza con cui il Ba. si era obbligato, una volta cessato il rapporto di lavoro con la s.r.l. Men, a non prestare per cinque anni la propria attività in favore di ditte con sede nella stessa provincia di Firenze e con identica attività della società. A fronte di tale patto il Ba. avrebbe percepito la somma di lire 300.000 mensili ma si impegnava, in caso di violazione del patto, a corrispondere una penale di lire 18 milioni. La Men, previa parziale compensazione con le somme da essa dovute al Ba. a titolo di t.f.r., chiedeva, quindi, la condanna del convenuto al pagamento della residua somma di lire 5.009.704 avendo il Ba. contravvenuto al patto di non concorrenza per avere trovato lavoro come commesso presso altra azienda di vendita d’abbigliamento nella provincia di Firenze. Costituitosi il contraddittorio, il Ba. chiedeva il rigetto della domanda attrice e spiegava riconvenzionale diretta ad ottenere il pagamento di straordinari effettuati e non retribuiti nonché le somme (non contestate) a lui dovute a titolo di t.f.r e non ancora corrisposte dalla Men.
Il Pretore rigettava sia la domanda della società, dichiarando nullo il patto di non concorrenza, sia la domanda riconvenzionale. Avverso tale sentenza proponevano appello principale la s.r.l. (OMISSIS) ed appello incidentale il Ba., ed il Tribunale di Firenze con sentenza del 12 maggio 1999 accoglieva la domanda originaria proposta dalla s.r.l. Men e, per l’effetto, condannava Ri. Ba. al pagamento a favore della società della somma di lire 5.009.704 con interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo; respingeva, invece, l’appello incidentale del Ba.. Nel pervenire a tale conclusione il Tribunale osservava che, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, il patto di non concorrenza stipulato dalle parti non violava il disposto dell’art. 2125 c.c. in quanto detto patto non impediva al Ba. di lavorare come commesso, ma gli impediva soltanto di operare in una singola provincia e solo per le ditte che svolgevano le stesse attività della s.r.l. Men e, cioè, quelle di commercio al dettaglio di abbigliamento, calzature e profumerie. In altri termini residuavano per il Ba. numerose categorie merceologiche nelle quali potere operare anche in provincia di Firenze (es: settori sanitari, articoli sportivi, arredamento, oggettistica, alimentare o ottico). Ed inoltre era consentito al Ba. lavorare senza alcuna limitazione pure nelle vicine Province di Prato e di Pistoia. Nè la nullità del patto poteva sostenersi sulla base che il compenso in esso previsto sarebbe stato, in effetti, diretto alla remunerazione dell’attività lavorativa del Ba.. Ed invero l’esistenza di una percentuale incentivante, da corrispondersi solo ove il dipendente avesse firmato il patto, doveva escludersi sulla base della deposizione del teste Vangelisti che, non avendo in alcun modo interesse alla controversia – contrariamente ai testi Chiarini (socio della Men) ed Audisio (anche esso in lite con la società per le stesse ragioni fatte valere dal Ba.) – aveva reso dichiarazioni attendibili, di cui inspiegabilmente il primo giudice non aveva tenuto alcun conto.
Aggiungeva, infine, il Tribunale, che l’appello del Ba. relativa al mancato riconoscimento dello straordinario andava rigettato in quanto non si era provato da parte dello stesso Ba., su cui incombeva il relativo onere probatorio, lo svolgimento dello stesso straordinario.
Avverso tale sentenza Ri. Ba. propone ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.
Resiste con controricorso la s.r.l. (OMISSIS).
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione per falsa e mancata applicazione dell’art. 2125 c.c. e violazione per mancata applicazione degli artt. 35 Cost. e 2060 c.c. Lamenta in particolare che il Tribunale non ha tenuto conto dell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui deve affermarsi la nullità del patto di non concorrenza per violazione dell’art. 2125 c.c. quando detto patto per la sua ampiezza sia tale da comprimere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore nei limiti che non salvaguardano un margine di attività sufficiente per il soddisfacimento delle esigenze di vita. La norma codicistica, infatti, sanziona con la nullità quei patti in cui il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.
Con il secondo motivo il ricorrente denunzia violazione per mancata applicazione dell’art. 1418 c.c. e dell’art. 1325 c.c. ed omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, assumendo che il patto in esame deve ritenersi nullo per difetto di una causa giustificatrice non essendo comprensibile ne’ da cosa la società Men dovesse tutelarsi ne’ di quali segreti i commessi addetti alle vendite di capi di abbigliamento potessero essere a conoscenza, sicché il patto in esame non trova giustificazione logica se non con la necessità da parte della Men di sostituire le incentivazioni sulle vendite, in precedenza date fuori-busta, con compensi deducibili come costi di produzione.
2. I due motivi, da esaminarsi congiuntamente per implicare la soluzione di questioni giuridiche tra loro strettamente connesse, vanno rigettati perché privi di fondamento.
Alla stregua del disposto dell’art. 2105 c.c., riguardante l’obbligo di fedeltà del prestatore di lavoro, questi non deve trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l’imprenditore. Tale obbligo – unitamente all’altro previsto nella stessa disposizione di non divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa (o di farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio) – è stato incluso dalla dottrina negli obblighi di c.d. protezione, funzionalizzati alla tutela della capacità concorrenziale dell’impresa, stante l’esigenza di impedire che il lavoratore possa utilizzare e sfruttare il complesso delle conoscenze tecniche e commerciali, acquisite grazie al rapporto lavorativo, in modo da incidere negativamente su tale capacità concorrenziale.
Risulta, poi, facilmente comprensibile perché alla cessazione del rapporto il lavoratore recuperi la piena ed assoluta libertà di collocare le proprie prestazioni in ogni settore del mercato e della produzione e perché detta libertà – pur se assoggettabile a condizionamenti in ossequio alla regola dell’autonomia contrattuale – non possa tuttavia essere limitata in modo tale da compromettere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore, pregiudicandone ogni potenzialità reddituale.
Proprio la peculiare condizione in cui versa il lavoratore ha indotto, quindi, il legislatore a dettare – nell’ambito della generale disciplina ex art. 2596 c.c. in tema di limitazioni (legali o volontari) alla concorrenza – una specifica regolamentazione (cfr. artt. 2105 e 2125 c.c.) riguardante, come visto, il divieto di concorrenza durante la pendenza del rapporto e l’eventuale patto di non concorrenza per l’epoca successiva; disciplina che porta a differenziare integralmente il lavoratore subordinato da tutti gli altri soggetti pur essi destinatari del divieto di concorrenza (cfr. al riguardo: art. 1751 bis c.c. in materia di scioglimento di rapporto di agenzia; art. 2557 c.c. in tema di obbligo di non concorrenza in capo al cedente l’azienda; artt. 2301 e 2390 c.c. relativi all’assunzione da parte del socio illimitatamente responsabile, o dell’amministratore, di qualsiasi incarico o dello svolgimento di ogni attività che sia suscettibile di porsi in concorrenza con quella propria della società di cui sono soci e amministratori).
Corollario di quanto sinora detto è la configurabilità del divieto di concorrenza (e la possibilità del ricorso al patto regolativo di detta concorrenza) ogni qual volta il lavoratore per le conoscenze acquisite nel corso del suo rapporto, possa utilizzare il bagaglio di dette conoscenze in pregiudizio della capacità concorrenziale dell’impresa che gli ha consentito, offrendogli il lavoro, di acquisire e/o affinare la propria professionalità. Ed ulteriore conseguenza di una siffatto approccio teorico è che il disposto dell’art. 2125 c.c. debba trovare applicazione non solo per i dipendenti che svolgano mansioni direttive o di alta livello ma anche per tutti coloro che siano impiegati in compiti non intellettuali, e sinanche di natura esecutiva, sempre però che operino in settori in cui l’imprenditore in ragione della specifica natura e delle peculiari caratteristiche dell’attività svolta, possa subire un concreto pregiudizio – in termini di penetrazione nel mercato e di capacità concorrenziale dalla utilizzazione (sia in corso di rapporto che successivamente) da parte del suddetto lavoratore dalla sua lunga esperienza e dalle numerose acquisite conoscenze cfr. però, per l’esclusione della violazione dell’obbligo di concorrenza in una fattispecie in cui l’attività svolta dal lavoratore per una ditta concorrente era materiale e non intellettiva, Cass. 1 dicembre 1981 n. 6381). E la validità di un siffatto assunto è attestata in accentuata misura dall’attuale mercato delle merci, che – in ragione della concorrenza tra imprenditori propria di ogni società libera e del moltiplicarsi delle esigenze degli acquirenti – assegna spesso il successo a chi è in grado di utilizzare, in un contesto di elevato benessere economico, nozioni e conoscenze su elementi e dati fattuali in precedenza considerati marginali (e, pertanto, ininfluenti sulla scelta dei consumatori), come è dimostrato proprio dal mondo della moda e dell’abbigliamento.
In un siffatto quadro normativo la giurisprudenza è stata sovente chiamata a fissare, in una ottica di bilanciamento di interessi, il discrimine tra patto legittimo, in quanto diretto a garantire giuste esigenze ed aspettative del datore di lavoro e patto, invece, nullo in quanto lesivo in maniera rilevante degli interessi del dipendente in termini di collocazione lavorativa.
Così questa Corte di Cassazione ha avuto occasione di statuire che nel rapporto di lavoro subordinato la nullità del patto di non concorrenza per mancato rispetto dei limiti predeterminati di oggetto e di luogo, entro i quali deve essere contenuta la previsione del divieto di future attività successive alla risoluzione del rapporto, in tanto è ravvisabile in quanto la sua ampiezza sia tale da comprimere l’esplicazione di concrete professionalità del lavoratore in limiti che non salvaguardano un margine di attività sufficiente per il soddisfacimento delle esigenze di vita (cfr. al riguardo Cass. 14 maggio 1998 n. 4891, confermativa della decisione del giudice di merito di validità di un patto, stipulato con una impresa ed avente ad oggetto attività di riorganizzazione aziendale preclusiva per l’ex dipendente dello svolgimento di analisi e consulenza tecnico- amministrativa in organizzazioni aziendali limitatamente all’Italia settentrionale). E sempre di recente questa Corte ha ribadito che nel rapporto di lavoro subordinato il patto di non concorrenza è nullo se il divieto di attività successive alla risoluzione del rapporto lavorativo non è contenuto entro limiti determinati di oggetto, di tempo e di luogo sicché l’ampiezza del vincolo deve essere tale da comprimere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore nei limiti che non ne compromettano la possibilità di assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita (cfr. in tali sensi Cass. 2 maggio 2000 n. 5477 che, nell’interpretazione di una clausola di un contratto con la quale si faceva divieto di svolgimento dell’attività lavorativa – specificata nella clausola stessa – nel territorio dell’Italia e della Svizzera ha ritenuto che tale clausola dovesse ritenersi limitata a vietare la prestazione lavorativa solo in detti Paesi e non, invece, in altri, sulla base della considerazione che una diversa interpretazione della convenzione ne avrebbe comportato la nullità; ed, in epoca più risalente, Cass. 26 novembre 1994 n. 10062, nonché Cass. 24 agosto 1990 n. 8461, per la precisazione che il margine di attività, non coperta dal vincolo fissato dal patto di non concorrenza, deve essere stabilito con riferimento allo specifico contenuto del patto medesimo e non alle particolari capacità del lavoratore).
2.1. Alla stregua delle considerazioni sinora svolte la sentenza impugnata non merita le censure che le sono state mosse. Ed invero, il Tribunale di Firenze con una motivazione adeguata, priva di salti logici e facendo corretta applicazione dei principi innanzi enunciati, ha ritenuto che il patto di non concorrenza, stipulato tra la s.r.l. Men ed il Ba., fosse valido in quanto non comprimeva “in toto l’esplicazione di una futura attività lavorativa” del soggetto firmatario del patto. Al Ba. era consentito, in virtù del suddetto patto, svolgere – senza alcuna limitazione relativa ai luoghi ed al tempo dell’attività lavorativa – l’attività di commesso nei numerosissimi settori commerciali (quali ad, esempio, quelli relativi agli articoli sportivi, all’oggettistica, all’arredamento) diversi da quelli dell’abbigliamento, delle calzature e della profumeria, in relazione ai quali, invece, operava la limitazione dell’attività lavorativa seppure unicamente per la provincia di Firenze, e non anche per altre città, come Prato e Pistoia, comunque accessibili dal Ba. per la loro relativa vicinanza.
3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione per mancata e falsa applicazione dell’art. 2125, comma 2, c.c. Sostiene al riguardo che, essendo un semplice commesso, la durata del patto non doveva superare – a differenza di quanto previsto per i dirigenti – i tre anni e non poteva, conseguentemente, essere quinquennale. Il riconoscimento della minore durata non poteva non avere effetti anche sul versante dell’importo della penale, che calcolata inizialmente in 18 milioni in ragione di 300 mila mensili per cinque anni, doveva invece essere computata in lire 300 mila mensili per soli tre anni.
3.1. Anche questo motivo va rigettato per essere privo di fondamento. Il ricorrente con la indicata censura sembra volere fondare la sua richiesta sul disposto dell’art. 1382 c.c. e sulla possibilità, prevista dall’art. 1384 C.C., della reductio ad aequitatem della penale.
Orbene, come ritiene la dottrina e la giurisprudenza predominante, perché il giudice si pronunzi sulla manifesta “eccessività” della penale è necessaria la richiesta di parte, non potendo il giudice procedere d’ufficio (cfr. ex plurimis: Cass. 21 Ottobre 1998 n. 10439; Cass. 15 novembre 1997 n. 341, Cass. 25 marzo 1995 n. 3549; Cass. 4 dicembre 1985 n. 6069; Cass. 21 gennaio 1985 n. 218. Contra, però, in epoca recente, Cass. 24 settembre 1999 n. 10511). A questo indirizzo ritiene di aderire questa Corte perché esso trova fondamento nel principio generale – cui l’art. 1384 c.c. non deroga – secondo cui il giudice non può pronunziare se non nei limiti delle domande ed eccezioni proposte dalle parti, nonché nella considerazione che la possibilità della riduzione della misura fissata dalle parti è prevista dalla legge come istituto a tutela degli specifici interessi del debitore, al quale quindi deve essere rimessa, nell’esercizio della difesa dei propri diritti, ogni iniziativa al riguardo ed ogni consequenziale valutazione della eccessività della penale pattuita (ovvero della sua sopravvenuta onerosità) in relazione alla parte di esecuzione che il contratto ha avuto. Per di più il giudice, nell’esercizio, dei poteri equitativi diretti alla determinazione dell’oggetto dell’obbligazione della clausola, non dispone di altri parametri del giudizio che di quelli dati dai contrapposti interessi delle parti al fine esclusivo di verificare se l’equilibrio raggiunto dalle parti stesse nelle preventiva determinazione delle conseguenze dell’inadempimento sia equo o sia rimasto tale (cfr. in tali sensi: Cass. 21 ottobre 1998 n. 10439 cit.). Corollario di siffatte regole è la necessità che la richiesta sia avanzata nel rispetto degli sbarramenti di carattere processuale fissati nel processo del lavoro dagli artt. 414 e 416 c.p.c. e che quindi detta richiesta sia fatta valere nel ricorso introduttivo della lite o nella comparsa di risposta o, nell’ipotesi di fatti sopravvenuti idonei a rendere l’ammontare della penale “manifestamente eccessivo”, nel primo atto difensivo successivo al verificarsi di detti fatti. In nessun caso però l’indicata domanda di riduzione può essere fatta valere nel giudizio di legittimità non potendosi in questa sede espletare quegli accertamenti di fatto e/o procedere a quelle valutazioni indispensabili per decidere, alla stregua degli interessi in gioco, sulla eccessività della penale. Orbene, nella fattispecie in esame la richiesta del Ba., tra l’altro incompatibile con la domanda di nullità del patto di non concorrenza (in giurisprudenza per l’affermazione che la deduzione del convenuto di nulla dovere a titolo di penale non possa ritenersi comprensiva dell’istanza di riduzione, dato che la prima esclude l’inadempimento mentre la seconda lo presuppone, cfr. Cass. 26 ottobre 1989 n. 4429; Cass. 21 gennaio 1985 n. 218), non è stata tempestivamente avanzata ne’ sono stati tempestivamente specificati gli elementi (di fatto e di diritto) destinati a supportarla.
4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce violazione per mancata applicazione degli artt. 2125 c.c. e 1344 c.c., violazione per falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. nonché contraddittorietà della motivazione per travisamento dei fatti. In altri termini, la sentenza impugnata deve ritenersi viziata per avere considerato valido il patto di non concorrenza nonostante lo stesso dovesse considerarsi nullo per contemplare – come era dato evincere dal materiale probatorio acquisito agli atti – un corrispettivo diretto ad eludere norme inderogabili poste a tutela del lavoratore. Ed invero il suddetto patto era diretto a compensare non l’astensione dalla futura concorrenza ma prestazioni già rese dal lavoratore. Con il quinto motivo il ricorrente deduce violazione per mancata applicazione degli artt. 1427 c.c. e 1434 C.C., e precisamente travisamento su un punto fondamentale della controversia nonché contraddittoria ed insufficiente motivazione. Lamenta, in particolare, il Ba. che il Tribunale di Firenze ha ingiustificatamente ignorato che il patto in questione era annullabile per violenza, essendo esso ricorrente stato indotto – come era rimasto accertato sulla base della prova per testi espletata – a sottoscrivere detto patto per non perdere una parte della retribuzione.
Come è noto, la Corte di Cassazione non ha il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica – in relazione ad un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio – le argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta esclusivamente individuare le fonti del proprio convincimento, di esaminare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute più idonee a dimostrarne i fatti in discussione, dare la prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. tra le tante Cass. 13 aprile 1999 n. 3615; Cass. 27 ottobre 1995 n. 11154;
Cass. 18 marzo 1995 n. 3205). Ed è altrettanto noto che i vizi di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, legittimanti il controllo ex art. 360 n. 5 c.p.c., non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice rispetto a quello preteso dalla parte perché, come già detto, spetta solo al giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento fornendo di tale convincimento una motivazione adeguata e coerente sul piano logico.
Nel caso di specie le censure del ricorrente mirano, invece, ad una inammissibile rivalutazione in questa sede di legittimità del materiale probatorio al fine di accreditare la tesi che il patto di cui si controverte avesse come propria finalità non quella di regolare la concorrenza ma, al contrario, quella di remunerare l’attività lavorativa svolta dal dipendente e, più precisamente, di eludere disposizioni inderogabili di legge poste a garanzia del lavoratore. Quanto all’assunto, poi, che il patto di non concorrenza debba considerarsi inficiato da vizio della volontà, e nella specie dalla violenza subita dal Ba., è sufficiente osservare, per impedirne l’esame in questa sede, che i fatti posti a fondamento della relativa censura sono del tutto nuovi e, pertanto, non risultano essere stati oggetto di contraddittorio tra le parti davanti ai giudici di merito.
5. Ricorrono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 5 febbraio 2002.