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Cassazione Civile 5812/2023 – Revocatoria ordinaria (azione pauliana) – Atti di disposizione a titolo oneroso anteriori all’insorgenza del credito – Animus nocendi – Dolo generico

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Ordinanza 5812/2023

Revocatoria ordinaria (azione pauliana) – Atti di disposizione a titolo oneroso anteriori all’insorgenza del credito – Animus nocendi – Dolo generico

In tema di azione revocatoria, quando l’atto di disposizione è anteriore al sorgere del credito, ad integrare l’animus nocendi richiesto dall’art. 2901, comma 1, n. 1, c.c. è sufficiente il mero dolo generico e, cioè, la mera previsione, da parte del debitore, del pregiudizio arrecato ai creditori, non essendo invece necessaria la ricorrenza del dolo specifico, vale a dire la consapevole volontà di pregiudicare le ragioni creditorie.

Cassazione Civile, Sezione 3, Ordinanza 27-2-2023, n. 5812   (CED Cassazione 2023)

Art. 2901 cc (Revocatoria ordinaria) – Giurisprudenza

 

 

FATTI DI CAUSA

1. (OMISSIS) e (OMISSIS) ricorrono, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 1137/19, del 4 luglio 2019, della Corte di Appello di Ancona, che – respingendone il gravame avverso la sentenza n. 172/15, del 28 febbraio 2015, del Tribunale di Fermo – ha confermato l’accoglimento della domanda ex art. 2901 c.c., proposta dalla società (OMISSIS) S.r.l., in liquidazione, relativamente all’atto di costituzione di fondo patrimoniale avente ad oggetto un immobile sito in Fermo, di proprietà del (OMISSIS).

2. Riferiscono, in punto di fatto, i coniugi (OMISSIS)- (OMISSIS) che la società (OMISSIS) ebbe a convenirli in giudizio per chiedere la declaratoria di inefficacia del suddetto atto di costituzione del fondo patrimoniale, posto in essere attraverso rogito notarile del 19 febbraio 2009. Siffatta iniziativa veniva assunta, dall’attrice, sul presupposto di vantare un credito nei confronti del (OMISSIS) per forniture di mangime, erogate, a far data dal marzo 2009, alla società (OMISSIS) s.s. (subentrata, peraltro, ad altra società, della quale erano stati soci la moglie e i figli del medesimo (OMISSIS)). Difatti, i patti sociali della società debitrice prevedevano che costui rispondesse delle obbligazioni sociali personalmente, nonchè solidalmente con l’unica altra soda della (OMISSIS), vale a dire la nuora (OMISSIS).

Conseguito, dunque, dalla creditrice – nei confronti di entrambi i soci – un decreto ingiuntivo per l’importo di Euro 1.156.051,44, in relazione ad esposizioni debitorie maturate dalla (OMISSIS) a partire dal luglio 2009, la (OMISSIS) esperiva, come detto, l’azione revocatoria, accolta dal primo giudice, con decisione confermata da quello di appello, che respingeva il gravame dei convenuti soccombenti.

3. Ha resistito all’avversaria impugnazione, con controricorso, la curatela fallimentare della (OMISSIS), chiedendo che la stessa sia dichiarata inammissibile o, comunque, rigettata.

4. Entrambe le parti hanno presentato memoria, insistendo nelle rispettive argomentazioni.

RAGIONI DELLA DECISIONE

5. Il ricorso va rigettato.

5.1. Con il primo motivo è denunciata – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 346 c.p.c., censurando la sentenza impugnata in quanto “riposa su una diversa causa petendi” rispetto a quella invocata in prime cure.

Sottolineano, infatti, i ricorrenti che, mentre la decisione del primo giudice era fondata sul rilievo che la costituzione del fondo patrimoniale fosse avvenuta il 20 settembre 2009, e dunque successivamente al sorgere del credito a garanzia del quale l’azione revocatoria è stata esercita (relativo a forniture erogate dal marzo 2009), la pronuncia della Corte di Appello afferma, al contrario, l’anteriorità del credito, donde il mutamento della “causa petendi”. Si sarebbe, in questo modo, realizzata una non consentita “mutatio libelli”, essendo il presupposto soggettivo dell’azione ex art. 2901 c.c. differente nei due casi, giacchè nell’ipotesi di anteriorità del credito rispetto all’atto dispositivo si richiede, in capo all’autore dello stesso, il dolo specifico (è citata Cass. Sez. 3, sent. 29 maggio 2013, n. 13446).

5.1.1. Il motivo non è fondato.

Nello scrutinarlo, occorre muovere dalla constatazione che l’allora attrice – come ha evidenziato la curatela nel proprio controricorso – indicava l’atto di costituzione del fondo patrimoniale, nelle conclusioni rassegnate tanto nell’atto di citazione quanto nelle note difensive conclusive del giudizio di primo grado, come trascritto “in data 20 febbraio 2009”, precisando altresì (in particolare, nelle già menzionate note difensive) che esso risaliva ad “un momento di poco anteriore alla costituzione della società (OMISSIS)”, destinataria delle forniture fonte del credito a garanzia del quale l’azione revocatoria è stata esercitata. Analogamente, anche nella comparsa di costituzione in appello, si affermava essere “pacifico e non contestato che il Sig. (OMISSIS)’ ha acquistato la qualità di debitore della (OMISSIS) dopo la costituzione del fondo patrimoniale, di tal che l’atto pregiudizievole è anteriore al sorgere del credito”. E ciò in quanto la stessa sentenza resa in prime cure aveva osservato – al di là del “lapsus calami” in cui era incorsa, come meglio si dirà di seguito, nell’indicare la data di costituzione del fondo patrimoniale nel 20 settembre 2009 – che “per la revocatoria dei fondo patrimoniale ad integrare l’animus nocendi previsto dalla norma è sufficiente che il debitore compia l’atto dispositivo nella previsione dell’insorgenza del debito”, dunque attestando essa stessa, implicitamente, l’anteriorità del primo rispetto al secondo.

A questi rilievi, che già portano ad escludere esservi stato mutamento della “causa petendi”, va aggiunta anche tale, duplice, ulteriore constatazione. E cioè, per un verso, che furono gli stessi coniugi (OMISSIS)- (OMISSIS), con il proprio atto di appello, a richiedere alla Corte dorica di rettificare l’erronea indicazione del 20 settembre 2009 – compiuta da primo giudice e da ritenersi frutto di un mero refuso – quale data della costituzione del fondo patrimoniale. Ma soprattutto che, per altro verso, anche ad ammettere esservi stata solo in appello (ciò che, peraltro, non è accaduto) l’affermazione della posteriorità del credito rispetto al revocando atto dispositivo, ciò non avrebbe pregiudicato affatto il diritto di difesa dei convenuti, ma semmai dell’attrice. Essa, infatti, avrebbe risentito gli effetti del radicale mutamento del “thema decidendum” e, di riflesso, del “thema probandum”, conseguente a tale “retrodatazione” dell’atto dispositivo, trovandosi nell’impossibilità di articolare prova della “calliditas” degli autori dell’atto dispositivo “in luogo della semplice scientia damni” (come affermato da Cass. Sez. 3, sent. 29 maggio 2013, n. 13446, Rv. 626613-01).

5.2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – violazione dell’art. 2901 c.p.c., comma 1, n. 1).

Si censura la sentenza impugnata perchè, dopo aver affermato l’anteriorità dell’atto dispositivo rispetto all’insorgenza del credito a garanzia del quale l’azione revocatoria è stata esercitata, ha identificato l’elemento soggettivo della stessa (la dolosa preordinazione) non nel cd. “animus nocendi”, e dunque nel dolo specifico, vale a dire nella preordinazione di un comportamento volto a pregiudicare il soddisfacimento del credito, bensì nel dolo generico, cioè nella mera previsione del pregiudizio per il creditore.

Tale tesi, tuttavia, sarebbe smentita dalla Relazione ministeriale al codice civile (§ 1182), dalla migliore dottrina, nonchè dalla stessa giurisprudenza di questa Corte (è citata Cass. Sez. 3, sent. 27 febbraio 1985, n. 1706), sicchè la sentenza impugnata avrebbe fatto riferimento ad un precedente di legittimità – Cass. Sez. 3, sent. 7 ottobre 2008, n. 24757 – “in aperto dissenso e contrasto” con tale maggioritario orientamento.

5.2.1. Anche questo motivo non è fondato.

Difatti, non costituisce – come sostengono, invece, i ricorrenti un’affermazione “in aperto dissenso e contrasto” con un (supposto) orientamento giurisprudenziale prevalente, quella secondo cui, ai fini dell’integrazione della “dolosa preordinazione” di cui all’art. 2901 c.p.c., comma 1, n. 1), non è “necessario il dolo specifico, e cioè la consapevole volontà del debitore di pregiudicare le ragioni del creditore”, vale a dire che “l’atto dispositivo venga compiuto al fine di porsi in una situazione di totale o parziale impossidenza, in modo da precludere o rendere difficile al creditore l’attuazione coattiva del suo diritto”, dovendo, “per converso ritenersi al riguardo sufficiente” soltanto “il dolo generico, sostanziantesi nella mera previsione del pregiudizio dei creditori”, sicchè “ad integrare l’animus nocendi previsto dalla norma è da ritenersì invero sufficiente che il debitore compia l’atto dispositivo nella previsione dell’insorgenza del debito e del pregiudizio”, quest’ultimo da intendersi anche “quale mero pericolo dell’insufficienza del patrimonio a garantire il credito del revocante” e, quindi, come “maggiore difficoltà od incertezza nell’esazione coattiva del credito medesimo” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 7 ottobre 2008, n. 24757, Rv. 604815-01; in senso conforme anche Cass. Sez. 3, sent. 15 ottobre 2010, n. 21338, Rv. 61448101).

Si tratta di affermazioni, per vero, ribadite anche dalla giurisprudenza successiva al citato arresto e secondo cui “a integrare l’animus nocendi richiesto dalla norma per l’assoggettabilità a revocatoria dell’atto di disposizione anteriore al sorgere del credito, è necessario e sufficiente il mero dolo generico, e cioè la mera rappresentazione del pregiudizio, mentre è del tutto neutra, ai fini dell’erogazione della tutela, la sussistenza o meno anche di una callida volontà dell’obbligato di danneggiare il creditore” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 28 luglio 2014, n. 17096, non massimata). Nella medesima prospettiva, del resto, si ribadisce – e ciò proprio con riferimento alla fattispecie della costituzione del fondo patrimoniale anteriore al sorgere del credito – che “trattandosi di atto a titolo gratuito, restano in disparte le problematiche connesse alla partecipatio fraudis del terzo”, giacchè “con riferimento a tali atti, non rileva l’atteggiamento psicologico del terzo, considerato che al beneficiario, qui certat de lucro captando, la legge preferisce tout court il creditore, qui certat de damno vitando” (così, nuovamente, Cass. Sez. 3, sent. n. 17096 del 2014, cit.).

5.3. Infine, con il terzo motivo di ricorso si denuncia – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.p.c..

Si censura la sentenza impugnata perchè la stessa, ai fini della prova dell’elemento soggettivo dell’esperita “actio pauliana”, ha dato rilievo ad una serie di elementi indiziari che sarebbero privi, però, dei caratteri della gravità e della precisione. Ciò, infatti, dovrebbe dirsi per la circostanza che il fondo patrimoniale risulta essere stato costituito non solo a molto anni di distanza dall’instaurazione del vincolo coniugale (e quando, ormai, i figli della coppia avevano superato, da tempo, la maggiore età), ma anche, ed all’opposto, in data di poco anteriore alla costituzione della società (OMISSIS), succeduta ad altra società che aveva lungamente intrattenuto rapporti commerciali con la (OMISSIS). Altrettanto, poi, dovrebbe dirsi per il fatto che il patrimonio della società (OMISSIS), diversamente da quello dei soci, non risultava idoneo a soddisfare le pretese creditorie della società (OMISSIS), nonchè per la circostanza che i beni del (OMISSIS) fossero stati gravati da ipoteca.

5.3.1. Anche tale ultimo motivo di ricorso non è fondato.

Questa Corte ha ancora di recente ribadito che, “ai sensi dell’art. 2729 c.c.”, il giudice è tenuto “ad ammettere solo presunzioni “gravi, precise e concordanti”, laddove il requisito della “precisione” è riferito al fatto noto, che deve essere determinato nella realtà storica, quello della “gravità” al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto desumibile da quello noto, mentre quello della “concordanza”, richiamato solo in caso di pluralità di elementi presuntivi, richiede che il fatto ignoto sia – di regola – desunto da una pluralità di indizi gravi, precisi e univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza, e ad articolare il procedimento logico nei due momenti della previa analisi di tutti gli elementi indiziari, onde scartare quelli irrilevanti, e nella successiva valutazione complessiva di quelli così isolati, onde verificare se siano concordanti e se la loro combinazione consenta una valida prova presuntiva (c.d. convergenza del molteplice), non raggiungibile, invece, attraverso un’analisi atomistica degli stessi” (così Cass. Sez. 2, ord. 21 marzo 2022, n. 9054, Rv. 664316-01).

Resta fermo, naturalmente, che “quando il giudice di merito sussume erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione fatti concreti accertati che non sono invece rispondenti a quei caratteri, si deve senz’altro ritenere che il suo ragionamento sia censurabile alla stregua dell’art. 360 c.p.c., n. 3), e compete, dunque, alla Corte di cassazione controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta dal giudice di merito, lo sia stata anche a livello di applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta” (così, da ultimo, in motivazione, Cass. Sez. 2, ord. n. 9054 del 2022, cit.; nello stesso senso già Cass. Sez. 3, sent. 19 agosto 2007, n. 17457, non massimata sul punto; Cass. Sez. 3, sent. 26 giugno 2008, n. 17535, Rv. 603893-01; Cass. Sez. 6-5, ord. 5 maggio 2017, n. 10973, Rv. 643968-01; Cass. Sez. 3, sent. 4 agosto 2017, n. 19485, Rv. 645496-02; Cass. Sez. Un., sent. 24 gennaio 2018, n. 1785, non massimata sul punto).

Tuttavia, la deduzione del vizio di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1, suppone “un’attività argomentativa che si deve estrinsecare nella puntuale indicazione, enunciazione e spiegazione che il ragionamento presuntivo compiuto dal giudice di merito – assunto, però, come tale e, quindi, in facto per come è stato enunciato – risulti irrispettoso del paradigma della gravità, o di quello della precisione o di quello della concordanza” (così, nuovamente, Cass. Sez. 2, ord. n. 9054 del 2022, cit.).

All’opposto, “la critica al ragionamento presuntivo svolto dal giudice di merito sfugge al concetto di falsa applicazione quando invece si concreta o in un’attività diretta ad evidenziare soltanto che le circostanze fattuali, in relazione alle quali il ragionamento presuntivo è stato enunciato dal giudice di merito, avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo (sicchè il giudice di merito è partito in definitiva da un presupposto fattuale erroneo nell’applicare il ragionamento presuntivo), o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica semplicemente diversa da quella che si dice applicata dal giudice di merito, senza spiegare e dimostrare perchè quella da costui applicata abbia esorbitato dai paradigmi dell’art. 2729, comma 1”, e “ciò tanto se questa prospettazione sia basata sulle stesse circostanze fattuali su cui si è basato il giudice di merito” (ancora una volta, Cass. Sez. 2, ord. n. 9054 del 2022, cit.), “quanto se basata altresì su altre circostanze fattuali” (così, del pari, Cass. Sez. 2, ord. n. 9054 del 2022, cit.; in senso analogo Cass. Sez. Lav., sent. 30 giugno 2021, n. 18611, Rv. 661649-01, che evidenzia come, ricorrendo tale ultima ipotesi, si realizzi lo sconfinamento della censura dalla “violazione dell’art. 2729 c.c.” e si assista al “suo approdo in una dimensione che, se del caso, potrebbe piuttosto trovare legittimazione nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, s’intende nei limiti del controllo della motivazione sulla quaestio facti” consentiti dal testo di tale norma, come novellato dal Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lettera b, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, nell’interpretazione datane Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01 e dalla successiva, conforme, giurisprudenza di questa Corte).

Orbene, nel caso che qui occupa, quello prospettato dai ricorrenti non è, per l’appunto, un vizio di sussunzione, se si ha riguardo al contenuto delle singole censure da essi formulate.

Difatti, ognuna di tali doglianze si risolve nella “mera prospettazione di una inferenza probabilistica semplicemente diversa da quella che si dice applicata dal giudice di merito”, se non addirittura nella deduzione che certe circostanze “avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo”. Ciò è, infatti, a dirsi sia per la censura secondo cui la tardiva costituzione (rispetto all’assunzione del vincolo coniugale) del fondo patrimoniale potrebbe rispondere ad “una ragione etica”, sia per la doglianza con cui si sostiene che l’inidoneità del patrimonio della società (OMISSIS), lungi dall’essere indizio del dolo del (OMISSIS), semmai denoterebbe “la scarsa diligenza della (OMISSIS)” nel valutare la consistenza patrimoniale della propria cliente e la capacità della stessa di onorare i debiti verso di essa, ciò che avrebbe dovuto indurre la creditrice a cautelarsi “sospendendo, se del caso, le forniture” in suo favore. Analogamente, si è sempre al cospetto di una mera ricostruzione alternativa delle circostanze valorizzate dalla sentenza impugnata allorchè si censura la stessa assumendo che l’esistenza di ipoteche sui beni del (OMISSIS), anzichè evidenziare la volontà dello stesso di “creare pregiudizio ai propri creditori”, dimostrerebbe che tali beni “erano capienti”.

6. In conclusione, il ricorso va rigettato.

7. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.

8. A carico dei ricorrenti sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto secondo accertamento spettante all’amministrazione giudiziaria (Cass. Sez. Un., sent. 20 febbraio 2020, n. 4315, Rv. 657198-01), ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 15.000,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti, se dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 20 dicembre 2022.