Ordinanza 6322/2022
Interruzione della prescrizione per effetto della domanda e fino al passaggio in giudicato della sentenza – Principio applicabile alla domanda arbitrale
Il principio di cui all’art. 2945 c.c. (nel testo “ratione temporis” applicabile), secondo il quale l’interruzione della prescrizione per effetto di domanda giudiziale si protrae fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, salvo il caso di estinzione del processo, opera anche nell’ipotesi in cui, dopo la proposizione di domanda arbitrale, che a norma dell’art. 2943 c.c. ha efficacia interruttiva della prescrizione, non sia intervenuta una dichiarazione di estinzione del procedimento.
Cassazione Civile, Sezione 2, Ordinanza 25-2-2022, n. 6322 (CED Cassazione 2022)
Art. 2945 cc (Effetti e durata dell’interruzione della prescrizione) – Giurisprudenza
Ritenuto che:
– il Tribunale. di Cagliari, con sentenza n. 816/2011, in accoglimento dell’eccezione di prescrizione sollevata dal Comune di Sestu, rigettava la domanda proposta da P.P. Se. nei confronti dell’amministrazione volta ad ottenere la risoluzione per inadempimento della convenzione d’incarico stipulata inter partes in data 3.10. 1989, affermando che il diritto ad ottenere una pronuncia di risoluzione per inadempimento e il conseguenziale risarcimento del danno era stato esercitato per la prima volta in tale sede, avendo l’attore proposto la diversa domanda arbitrale di adempimento e non di risoluzione e affermando che, in ogni caso, il professionista dopo la notifica della suddetta domanda arbitrale nel luglio 1993 (rimasta senza seguito processuale), non aveva avanzato altra domanda, oltre ad aver sospeso ogni attività volta all’espletamento dell’incarico, con conseguente decorso del termine decennale della domanda risarcitoria, peraltro infondata nel merito;
– sul gravame interposto da A.R. Ar., Da. Se. e An. Se., nella- loro qualità di eredi di P.P. Se., proposto appello incidentale dall’amministrazione comunale, la Corte di appello di Cagliari, con sentenza n. 800/2016, in accoglimento del gravame principale affermava che la devoluzione agli arbitri della controversia, così come la successiva condotta tenuta dal professionista erano idonee ad interrompere la prescrizione e, per l’effetto, rigettava l’eccezione di prescrizione formulata dal Comune. Nel merito, la Corte distrettuale osservava come dall’esame dei rapporti intercorsi tra le parti emergeva il grave inadempimento del Comune di Sestu rispetto agli obblighi contrattuali assunti, non osservando quest’ultimo il termine mensile di cui all’art. 6 del Contratto e causando, di conseguenza, una situazione di incertezza in merito all’effettivo raggiungimento dello scopo contrattuale, tale da spingere il professionista Se. a rifiutare, legittimamente, di adempiere alla propria prestazione, ossia di apportare ulteriori modifiche alle bozze del piano regolatore.
La Corte di merito accertava, inoltre, che non era giustificata la risoluzione del contratto richiesta dall’amministrazione comunale in pendenza del giudizio arbitrale, in mancanza di un effettivo inadempimento imputabile al professionista.
Alla luce di tali osservazioni, il giudice del gravame dichiarava, pertanto, la risoluzione del contratto stipulato inter partes e, per l’effetto, condannava il Comune al risarcimento del danno in favore dell’appellante e quantificato in euro 128.838,25, oltre accessori;
– per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Cagliari propone ricorso per cassazione il Comune di Sestu fondato su sei motivi, cui resistono A.R. Ar., Da. e An. Se. con controricorso, contente anche ricorso incidentale fondato su un unico motivo;
– in prossimità dell’adunanza camerale parte ricorrente ha curato il deposito di memoria illustrativa.
Atteso che:
– con il primo motivo il Comune denuncia, ex art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione e la falsa applicazione dell’art. 25 della L. 25/1994 e degli artt. 2943 e 2945 c.c. per la contraddittorietà della pronuncia impugnata rispetto agli orientamenti della giurisprudenza di legittimità in tema di interruzione della prescrizione e dei principi di cui agli artt. 2934 e 2936 c.c.
Secondo il ricorrente la Corte distrettuale avrebbe fatto mal governo dei principi in tema di interruzione della prescrizione ritenendo che la sola notifica della domanda di arbitrato -avvenuta nel regime precedente alla riforma degli artt. 2943 e 2945 c.c. – fosse idonea ad interrompere il decorso della prescrizione.
Aggiunge il ricorrente che, pur volendo riconoscere efficacia interruttiva della prescrizione alla notifica della domanda arbitrale, la mancata costituzione del collegio avrebbe determinato comunque la prescrizione del diritto al risarcimento del danno per non essere stato posto in essere alcun atto interruttivo della prescrizione nei dieci anni successivi la notifica della domanda arbitrale (rimasta senza seguito), dovendosi riconoscere a quest’ultima solo un effetto interruttivo istantaneo.
Infine, argomenta il Comune che i solleciti inviati dal professionista al presidente del Collegio arbitrale non avrebbero valore di atti interruttivi della prescrizione, non essendo state rivolte direttamente all’amministrazione comunale ulteriori richieste, né diffide prima della notifica della citazione dinanzi al Tribunale.
Il motivo è infondato.
Osserva il Collegio che il principio di cui all’art. 2945 c.c., secondo il quale l’interruzione della prescrizione per effetto di domanda giudiziale si protrae fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, trova deroga solo nel caso di estinzione del processo (Cass. n. 1608 del 2000; Cass. n. 24808 del 2005). Pertanto, tale principio opera anche nel caso in cui, dopo la proposizione della domanda arbitrale, che a norma dell’art. 2943 ha efficacia interruttiva della prescrizione, non sia intervenuta una dichiarazione di estinzione del procedimento (come nella specie), con conseguente efficacia interruttiva protratta ex art. 2945 c.c. della predetta domanda arbitrale;
– con il secondo motivo è lamentata, ex art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 1418 c.c. in relazione agli artt. 284 e 288 R.D. 383/1934 poi recepiti dall’art. 5 L. 142/1990 e dell’art. 191, D.Igs 267/2000, per non aver la Corte distrettuale dichiarato la nullità della convenzione di incarico per violazione di norme imperative. In particolare, secondo il ricorrente alla stipulazione della convenzione di incarico sarebbe avvenuta senza previa determinazione della spesa gravante sull’amministrazione e senza l’attestazione della relativa copertura finanziaria, limitandosi la delibera dell’incarico conferito al professionista a stabilire che “alla spesa derivante dal presente atto si farà fronte col contributo da chiedersi all’amministrazione regionale ai sensi dell’art. 98 L.r. 11.4.1985 n. 5″, contributo che il Comune deduce di non aver mai percepito non essendo stato approvato il Piano.
Con il terzo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., la violazione e la falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. per aver la Corte distrettuale omesso di esaminare l’eccezione di nullità della convenzione per violazione di norme imperative proposta dal Comune in sede di appello, rilevabile peraltro in ogni stato e grado del procedimento. Il secondo e il terzo motivo – da esaminarsi congiuntamente data la loro intrinseca connessione – sono inammissibili in quanto vertono su una questione nuova. A tal riguardo, va ribadito che secondo giurisprudenza consolidata di questa Corte, nel giudizio di cassazione non si posso prospettare nuove questioni di diritto ovvero nuovi temi di contestazione che implichino indagini ed accertamenti di fatto non effettuati dal giudice di merito, nemmeno se si tratta di questioni rilevabili d’ufficio (Cass.n. 19164 del 2007; Cass. n. 25319 del 2017; Cass. n. 20712 del 2018);
– con il quarto motivo è dedotta, ex art. 360 comma 1 n. 4, la violazione e la falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 116, 194 e 196 c.p.c. per aver la Corte di appello tenuto conto di quanto disposto dalla CTU sulla base di documenti mai prodotti nell’apposita fase processuale.
Più precisamente, ad avviso del Comune il CTU avrebbe dovuto valutare i soli documenti versati in atti non già documenti mai prodotti in giudizio, essendo stato, tra l’altro, autorizzato in sede di conferimento dell’incarico ad esaminare detti documenti solo al fine di quantificare l’eventuale compenso per l’opera effettivamente svolta e non per sopperire alla mancata prova circa l’espletamento dell’incarico.
Il motivo è inammissibile per genericità.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la parte che in sede di cassazione deduca la nullità della consulenza tecnica causata dall’utilizzazione di documenti irritualmente prodotti, ha l’onere di specificare, a pena di inammissibilità dell’impugnazione, il contenuto della documentazione di cui lamenta l’irregolare acquisizione e le ragioni per le quali la stessa sia stata decisiva nella valutazione del consulente tecnico d’ufficio (Cass. n. 11752 del 2018; Cass. n. 737 del 2016).
Nella specie, tali necessarie specificazioni non sono state fornite dal ricorrente;
– con il quinto motivo è lamentata, ex art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., in relazione al quantum della condanna, la violazione dell’art. 118 comma 1 delle disp. att. del c.p.c. alla luce dell’art. 111 Cost., nonché l’omessa applicazione dell’art. 2733 c.c. e l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione fra le parti, per aver il giudice del gravame accolto la domanda senza alcun esame delle questioni e delle contestazioni sollevate, facendo un generico riferimento alla CTU in atti. A tal ultimo riguardo, il ricorrente sostiene che il CTU avrebbe trascurato gli effetti del documento con cui il professionista indicava la sua parcella, calcolando in modo arbitrario l’onorario spettante all’ingegnere pari ad un importo maggiore rispetto a quello effettivamente dovuto alla luce delle risultanze probatorie.
Con il sesto motivo è denunciato, ex art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di prova e di discussione tra le parti per non aver il giudice del gravame tenuto conto delle varie comunicazioni attestanti l’approfondita analisi effettuata dagli organi comunali competenti sulle bozze del professionista, tale da rendere impossibile il rispetto del termine pattuito per il riscontro delle stesse.
Gli ultimi due motivi, come prospettati, sono inammissibili in quanto denunciano un’errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini di un’alternativa ricostruzione dei fatti, con l’intento di sollecitare un’inammissibile valutazione delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal giudice di merito.
Giova, infatti, ribadire che in tema di ricorso per cassazione per vizio di motivazione, la parte che si duole di carenze o lacune nella decisione del giudice di merito, non può limitarsi a censure apodittiche di erroneità o di inadeguatezza della motivazione od anche di omesso approfondimento di determinati temi di indagine, prendendo in considerazione emergenze istruttorie asseritamente suscettibili di diversa valutazione e traendone conclusioni difformi da quelle alle quali è pervenuto il giudice ” a quo”, ma, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione ed il carattere limitato di tale mezzo di impugnazione, è tenuta ad indicare – riportandole per esteso – le pertinenti parti della consulenza ritenute erroneamente disattese ed a svolgere concrete e puntuali critiche alla contestata valutazione. Ciò costituisce condizione di ammissibilità del motivo, consentendo al giudice di legittimità (cui non è dato l’esame diretto degli atti se non in presenza di “errores in procedendo”) di effettuare, preliminarmente il controllo della decisività della risultanza non valutata, delle risultanze dedotte come erroneamente od insufficientemente valutate, e un’adeguata disamina del dedotto vizio della sentenza impugnata, così da poter escludere che la precisazione possa consistere in generici riferimenti ad alcuni elementi di giudizio, meri commenti, deduzioni o interpretazioni che si traducono in una sostanziale prospettazione di tesi difformi da quelle recepite dal giudice di merito, di cui si chiede a tale stregua un riesame, inammissibile in sede di legittimità (Cass.n. 27702 del 2020).
Del resto, il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare l’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale delle argomentazioni svolte dal giudice di merito (Cass. n. 16051 del 2019).
Nella specie, il Comune – sia in relazione al quinto che in relazione al sesto motivo – si limita a contestare genericamente la pronuncia della Corte distrettuale senza nemmeno riportare chiaramente il contenuto dei documenti che assume decisivi, mirando ad un nuovo giudizio di merito inammissibile in sede di legittimità;
– passando all’esame dell’unico motivo del ricorso incidentale – con il quale è lamentata, ex art. 360 comma 1 n. 3 e n. 4 c.p.c., la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1224 comma 2 c.c. nonché la violazione dell’art. 112 c.p.c. per non essersi il giudice del gravame pronunciato sulla domanda di risarcimento di maggior danno proposta dagli appellanti.
Il motivo è infondato oltre che generico.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, il credito del professionista per il pagamento dei compensi professionali costituisce un credito di valuta (che non si trasforma in credito di valore per effetto dell’inadempimento del cliente) soggetto al principio nominalistico, la cui rivalutazione monetaria non può essere automaticamente riconosciuta, dovendo essere adeguatamente dimostrato il pregiudizio patrimoniale risentito a causa del ritardato pagamento del credito, senza che possa trovare applicazione la disciplina dell’art. 429 c.p.c.
Dunque, dalla mora conseguente all’inadempimento della controparte discende la corresponsione degli interessi nella misura legale, salvo che il professionista dimostri il maggior danno ai sensi dell’art. 1224, comma 2 c.c. (Cass. n. 20547 del 2019).
Nella specie, parte ricorrente incidentale non ha dimostrato alcunché, pertanto la Corte di appello, in linea con i principi esposti, ben ha fatto a condannare l’appellato al pagamento degli intessi legali maturati dalla domanda fino al saldo.
Conclusivamente, va dichiarata l’inammissibilità di entrambi i ricorsi, principale e incidentale.
Le spese del giudizio di legittimità, stante la parziale reciproca soccombenza, vanno compensate per un terzo fra le parti, la restante parte di due terzi, liquidate per detta quota come in dispositivo, seguono la soccombenza.
Poiché i ricorsi sono stati proposti successivamente al 30 gennaio 2013 e sono stati dichiarati inammissibili, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, sia da parte del ricorrente principale sia da parte dei ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte vanno rigettati entrambi i ricorsi;
dichiara compensate per un terzo fra le parti le spese del giudizio di legittimità, ponendo i restanti due terzi a carico del Comune che liquida per detta quota in complessivi euro 5.900,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese e agli accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale e dei ricorrenti incidentali di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione