Ordinanza 6589/2023
Illegittima segnalazione alla centrale rischi – Danni all’immagine e alla reputazione – Onere della prova art 2697 cc
In tema di illegittima segnalazione alla centrale rischi, il danno all’immagine e alla reputazione non può considerarsi sussistente “in re ipsa”, ma va allegato specificamente e dimostrato da chi ne invoca il risarcimento. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che, pur a fronte della erronea segnalazione circa la qualità di terzo datore di ipoteca, ha respinto la richiesta risarcitoria, anche per il danno non patrimoniale, in quanto genericamente allegata ed in assenza di dimostrazione della interlocuzione con soggetti bancari nel periodo di riferimento o l’accesso al sistema di archivio della centrale rischi da parte di operatori interessati).
Ordinanza di inammissibilità dell’appello ex art. 348 ter cpc – Ricorso per cassazione
L’ordinanza di inammissibilità dell’appello, adottata ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c. (nel testo “ratione temporis” applicabile), è ricorribile per cassazione, limitatamente ai vizi suoi propri, tra i quali rientra l’inosservanza della specifica previsione di cui all’art. 348 ter, comma 1, c.p.c., secondo la quale il giudice provvede con ordinanza dopo aver sentito le parti; tale prescrizione non richiede, tuttavia, che le parti compaiano personalmente, né che si proceda a discussione orale, essendo sufficiente che le stesse siano poste in grado di interloquire sulla questione, come nel caso in cui l’appellato abbia richiesto nella propria comparsa l’applicazione di detta ordinanza definitoria.
Cassazione Civile, Sezione 1, Ordinanza 6-3-2023, n. 6589 (CED Cassazione 2023)
Art. 2043 cc (Risarcimento per fatto illecito) – Giurisprudenza
Art. 2059 cc (Danni non patrimoniali) – Giurisprudenza
Art. 2697 cc (Onere della prova) – Giurisprudenza
FATTI DI CAUSA
1. – Con atto di citazione notificato il 12 luglio 2013, (OMISSIS) s.r.l., ora (OMISSIS) s.r.l., ha convenuto in giudizio (OMISSIS), ora (OMISSIS) s.p.a., al fine di sentirla condannare al risarcimento dei danni sofferti in ragione di una illegittima segnalazione presso la Centrale rischi della Banca d’Italia. Ha assunto che nel novembre 2007 si era impegnata all’acquisto di un’area
e alla successiva edificazione di un complesso immobiliare denominato “(OMISSIS)”, la cui realizzazione comportava un impegno finanziario di rilevante entità, tale da richiedere un finanziamento bancario dell’importo di Euro 132.600.000,00. Il progetto si era poi arenato in quanto alcuni istituti di credito che avrebbero dovuto somministrare una parte di detto importo avevano chiesto chiarimenti in merito alla segnalazione risultante dalla Centrale rischi per presunte garanzie prestate da (OMISSIS) in favore di un’altra società del gruppo: in particolare – secondo l’istante -, detta segnalazione erroneamente indicava l’attrice quale terzo datore di ipoteca in favore di soggetto che versava in una situazione di sofferenza. Ha rilevato la società attrice che l’erronea segnalazione le aveva procurato ingenti danni patrimoniali
e non patrimoniali e che, in particolare, a causa di essa non era stato possibile ottenere il finanziamento necessario per la realizzazione del progetto immobiliare intrapreso, poi abbandonato.
Con successivo atto di citazione del 19 ottobre 2015 (OMISSIS) ha evocato in giudizio (OMISSIS) e (OMISSIS) s.r.l., società cessionaria del credito a garanzia del quale era stata erroneamente operata la segnalazione di (OMISSIS) quale terzo datore di ipoteca, per sentirle condannare, in via solidale, al risarcimento dei danni non patrimoniali subiti dalla società attrice in conseguenza di una ulteriore segnalazione.
In entrambi i giudizi si è costituita (OMISSIS).
A seguito della riunione dei giudizi il Tribunale di Modena ha respinto le domande attrici. Pur riconoscendo l’illegittimità della segnalazione, il Giudice di primo grado ha ritenuto non sussistesse la prova del danno lamentato: nè di quello patrimoniale, nè di quello non patrimoniale.
2. – Il gravame proposto da (OMISSIS) è stato poi dichiarato inammissibile dalla Corte di appello di Bologna a norma dell’art. 348 bis c.p.c., per l’assenza di una ragionevole probabilità di suo accoglimento.
3. – La sentenza del Tribunale e l’ordinanza della Corte di appello sono state impugnate per cassazione da (OMISSIS) con un ricorso articolato in quattro motivi. Resiste con controricorso (OMISSIS). Ricorrente e controricorrente hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Il primo motivo oppone la violazione o falsa applicazione di norme procedurali ex art. 111 Cost., comma 7, in relazione all’art. 348 ter c.p.c.. Si lamenta che la Corte di merito abbia mancato di sentire le parti quanto all’applicabilità o meno dell’art. 348 bis c.p.c., alla fattispecie concreta.
Il motivo è inammissibile.
Ben vero, l’art. 348 ter c.p.c., prevede, al comma 1, che l’inammissibilità dell’appello vada dichiarata “prima di procedere alla trattazione, sentite le parti”: questa Corte ha poi precisato che l’inosservanza di tale disposizione costituisce un vizio proprio dell’ordinanza di inammissibilità resa a norma dell’art. 348 bis c.p.c., e, pertanto, integra una violazione della legge processuale deducibile per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7, escludendo anche la necessità di valutare se da tale violazione sia derivato un concreto ed effettivo pregiudizio al diritto di difesa delle parti (Cass. 4 settembre 2017, n. 20758); secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite, infatti, l’ordinanza di inammissibilità dell’appello resa ex art. 348 ter c.p.c., è ricorribile per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7, limitatamente ai vizi, suoi propri, costituenti violazioni della legge processuale e tra di essi rientra la mancata osservanza delle prescrizioni contenute nell’art. 348 ter, comma 1, primo periodo (Cass. Sez. U. n. 2 febbraio 2016, n. 1914).
La prescrizione che impone al giudice di dichiarare l’inammissibilità dell’appello ex art. 348 bis, solo dopo che siano “sentite le parti” è chiara nel suo significato letterale: la formula della norma non esige che debba farsi luogo a un’audizione delle parti comparse personalmente (incombente che sarebbe del resto privo di significato, giacchè il tema dell’accoglibilità del gravame richiede conoscenze tecniche proprie dei difensori), ma nemmeno che si debba far luogo a una vera e propria discussione orale della causa, secondo il modulo dell’art. 352 c.p.c., comma 2. Come osservato dalla dottrina, la norma esige un contraddittorio con forme attenuate. A tal fine deve ritenersi necessario, ma anche sufficiente, che le parti siano poste in condizione di interloquire sulla concreta possibilità che il giudizio di appello sia definito con una pronuncia di inammissibilità basata sul fatto che l’impugnazione “non ha una ragionevole probabilità di essere accolta”. Proprio avendo riguardo a tale funzionalizzazione dell’incombente è da credere, poi, che la condizione di legge sia rispettata ove l’appellato abbia, nella propria comparsa di risposta, domandato la pronuncia di ordinanza ex art. 348 bis: in tale evenienza, infatti, il tema in questione entra a far parte del dibattito processuale, senza la necessità di una sollecitazione del giudice al riguardo, e le parti possono ritenersi “sentite” sul punto in quanto vi è stato contraddittorio su di esso.
Ciò detto, la ricorrente non ha riprodotto il contenuto del verbale di udienza; in tal modo la censura si rivela carente della necessaria specificità. Infatti, la deduzione con il ricorso per cassazione di errores in procedendo implica che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” (Cass. Sez. U. 25 luglio 2019, n. 20181). La centralità che assume, nella circostanza, la trascrizione del verbale emerge chiaramente dallo stesso tenore delle difese della controricorrente, la quale ha dedotto che il difensore dell’appellata, in udienza, aveva insistito sulle eccezioni di cui alla comparsa di costituzione e, in particolare, sull’eccezione di inammissibilità dell’appello ex art. 348 bis c.p.c. (controricorso, pag. 10).
Merita aggiungere che, del resto, l’ordinanza impugnata ha dato atto essere state “sentite le parti” (cfr. l’epigrafe del provvedimento): evenienza, questa, che conferma l’importanza che assumeva, nella circostanza, la riproduzione del verbale di udienza; e infatti, è attraverso quanto trascritto nel verbale che avrebbe potuto accertarsi il contenuto delle dichiarazioni rese dai difensori nel corso dell’udienza.
2. – Col secondo motivo sono denunciate la violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., in combinato disposto con l’art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 1225 e 1227 c.c.. è lamentata l’erronea valutazione della documentazione in atti e, segnatamente, delle comunicazioni con cui gli istituti di credito che avrebbero dovuto erogare finanziamenti avevano comunicato l’impossibilità di dar corso all’operazione a causa della segnalazione presso la Centrale rischi. Viene richiamata, in proposito, una comunicazione del (OMISSIS) in cui è stata data conferma del fatto che l’istruttoria della pratica risultava sospesa in attesa di chiarimenti in ordine alla nominata segnalazione. Deduce la ricorrente che una segnalazione errata incide sul regime di libera concorrenza e sullo stesso sistema creditizio, visto che anche dopo la sua cancellazione essa rimane visibile sotto forma di “segnalazione non attiva”. Aggiunge che il giudice avrebbe dovuto limitarsi a recepire il dato oggettivo e documentato della mancata erogazione del finanziamento, mentre invece aveva ritenuto che, una volta accertata l’inconsistenza della garanzia ipotecaria erroneamente segnalata, l’istruttoria avrebbe potuto riprendere il suo corso. Assume che il Giudice distrettuale avrebbe omesso di valutare la mancata contestazione, da parte di (OMISSIS), delle certificazioni della Banca d’Italia, da cui poteva desumersi la durata della segnalazione. La ricorrente rileva, infine, che la pronuncia impugnata sarebbe censurabile avendo riguardo all’affermazione secondo cui il naufragio del progetto immobiliare era da ascriversi ad altri fattori e, segnatamente, al fatto che l’approvazione del piano di lottizzazione convenzionata ad iniziativa di parte del Comune di Giugliano – che assurgeva a condizione sospensiva del contratto preliminare di compravendita dei suoli edificabili – era avvenuta soltanto il 25 ottobre 2011.
Il motivo è nel complesso infondato.
Il Tribunale, con diffusa motivazione, ha escluso fosse stato provato che il rifiuto dei finanziamenti necessari trovasse ragione nella erronea segnalazione operata presso la Centrale rischi della Banca d’Italia. In particolare, ha ritenuto che la mera indicazione di (OMISSIS) quale terzo datore di ipoteca non potesse aver determinato il fallimento del progetto imprenditoriale e ha reputato inverosimile che gli istituti di credito, quali operatori qualificati, non fossero stati in grado di avvedersi dell’errore e di assumere informazioni corrette al fine di concedere i finanziamenti richiesti. Il Tribunale ha inoltre rilevato che, del resto, la prima segnalazione era rimasta in vita per un lasso temporale ridotto e che nessun elemento di valutazione concreto e specifico era stato fornito dall’attrice onde provare che l’operazione descritta fosse stata annullata a causa della segnalazione; ha anzi rimarcato come il progetto imprenditoriale avesse scontato, quale elemento ostativo alla sua realizzazione, la tardiva approvazione del piano di lottizzazione convenzionata.
Mette conto di ricordare che il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ex art. 360 c.p.c., n. 3), ricorre (o non ricorre) a prescindere dalla motivazione posta dal giudice a fondamento della decisione (e, cioè, del processo di sussunzione), rilevando solo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata male applicata (Cass. 15 dicembre 2014, n. 26307; Cass. 24 ottobre 2007 n. 22348): correlativamente, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366 c.p.c., n. 4), impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3), a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo (Cass. Sez. U. 28 ottobre 2020, n. 23745).
Ora, salvo quanto si dirà con riguardo alla doglianza incentrata sugli artt. 1225 e 1227 c.c., nelle censure svolte non si rinviene la deduzione, preannunciata in rubrica, di una violazione o falsa applicazione di norme di legge; manca, in conseguenza, una formulazione del motivo osservante delle regole di cui si è detto. In realtà, le doglianze formulate si risolvono o in contestazioni inerenti all’accertamento di fatto, precluse in sede di legittimità, o, al più, in censure motivazionali vertenti sull’omesso esame di specifiche circostanze: censure parimenti inaccessibili al sindacato di questa Corte, giusta l’art. 348 ter c.p.c., comma 4 (avendo il Giudice di appello condiviso le argomentazioni esposte dal Tribunale con riguardo alle varie questioni di fatto).
Erra, poi, la ricorrente allorquando, con riferimento al tema della incidenza causale del ritardo nell’approvazione del piano di lottizzazione convenzionata, imputa alla Corte di merito di aver malamente applicato gli artt. 1225 e 1227 c.c.. Assume l’istante che tali norme prevedrebbero che, in caso di plurime cause generatrici di un danno, il risarcimento dovuto debba essere “diminuito in ragione della condotta del creditore”. Come è facile osservare, la Corte di appello ha escluso che la segnalazione presso la Centrale rischi potesse considerarsi produttiva del danno occorso: sicchè, per essa, non vi era alcuna necessità di quantificare il pregiudizio patrimoniale occorso attraverso la decurtazione dei danni imputabili ad altri fatti.
Un’ultima notazione sollecita la censura imperniata sulla mancata contestazione dei documenti relativi alla segnalazione presso la Centrale rischi. In proposito, è sufficiente osservare che il principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c., evocato dalla ricorrente, ha per oggetto fatti storici sottesi a domande ed eccezioni e non può riguardare le conclusioni ricostruttive desumibili dalla valutazione di documenti (Cass. 17 novembre 2021, n. 35037; Cass. 5 marzo 2020, n. 6172).
3. – Il terzo mezzo oppone la violazione dell’art. 2059 c.c., in combinato disposto con l’art. 2697 c.c.. La censura investe l’accertamento del danno non patrimoniale. Si sottolinea che quanto documentato nelle missive provenienti dagli istituti di credito che avrebbero dovuto dar corso all’istruttoria e all’erogazione del finanziamento rappresenterebbero “un dato oggettivo e pienamente provante il danno subito”. Si sostiene che il danno all’immagine risulterebbe dimostrato da dette comunicazioni, in cui erano state richieste delucidazioni in ordine alle attuate segnalazioni.
Il motivo va disatteso.
Il Tribunale ha escluso fosse dimostrata l’esistenza di un danno non patrimoniale. Ha osservato: che, in punto di allegazione, l’attrice aveva fatto “riferimento al possibile ambito di diffusione della notizia, attestandosi quindi su di un livello totalmente generico dell’indicazione, senza provare in alcun modo, ma neppure allegare, alcun elemento di fatto dal quale si (potessero) desumere anche in via presuntiva l’esistenza e l’ammontare del danno alla reputazione che avrebbe subito”; che la stessa istante non aveva fornito alcuna prova del fatto che altri soggetti, anche bancari, avessero consultato l’archivio informatico della Centrale rischi nel periodo in cui l’erronea segnalazione era presente; che non vi era stata alcuna allegazione, nè prova, del fatto che l’attrice si fosse interfacciata con soggetti bancari nel periodo in cui era operante la segnalazione; che la documentazione posta a fondamento della pretesa risarcitoria non era idonea a dar dimostrazione delle conseguenze pregiudizievoli patite in ragione della segnalazione.
Rammentato che pure in tema di illegittima segnalazione alla Centrale rischi il danno all’immagine ed alla reputazione, in quanto costituente “danno conseguenza”, non può ritenersi sussistente in re ipsa, dovendo essere allegato e provato da chi ne domanda il risarcimento (Cass. 28 marzo 2018, n. 7594), non si ravvede, nell’esposizione del mezzo di censura, alcuna rappresentazione delle ragioni per cui le norme di cui agli artt. 2059 e 2697 c.c., sarebbero state violate o falsamente applicate. Sul punto non possono non valere, dunque, le considerazioni svolte nel trattare il precedente motivo.
4. – Col quarto ed ultimo motivo si lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 61 e 116 c.p.c., oltre che dell’art. 2056 c.c.. La società istante si duole che i giudici del merito abbiano erroneamente e ingiustificatamente respinto la propria richiesta diretta all’esperimento della consulenza tecnica d’ufficio per la liquidazione dei danni prospettati. Si deduce che la documentazione allegata in primo grado era “tale da consentire un’indagine approfondita circa le tematiche affrontate”. Si osserva, inoltre, che i danni derivanti dalla lesione della reputazione e dell’immagine dell’attrice ben avrebbero potuto essere quantificati in una frazione della somma per la quale la segnalazione era stata effettuata, moltiplicata per i giorni in cui la medesima era risultata presente.
Il motivo è inammissibile.
La censura avente ad oggetto la consulenza tecnica si riferisce a questione che non risulta affrontata nella sentenza di primo grado, ma che è stata devoluta al giudice di appello (avendo l’odierna ricorrente insistito, in sede di gravame, per l’esperimento di consulenza tecnica contabile: cfr. pag. 1 della sentenza di appello). La doglianza è dunque ammissibile, in conformità del principio per cui ove l’appello sia stato dichiarato inammissibile ex art. 348 ter c.p.c., il ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado può essere proposto entro i limiti delle questioni già sollevate con l’atto di appello e di quelle riproposte ex art. 346 c.p.c. (Cass. 27 settembre 2018, n. 23320). è evidente tuttavia che quanto dedotto col quarto mezzo non abbia consistenza avendo riguardo alla decisione del Tribunale. Questo ha difatti escluso la prova che l’illegittima segnalazione avesse determinato il fallimento del progetto: in conseguenza, una indagine peritale volta a quantificare il danno risarcibile derivante proprio dalla non attuazione del detto progetto (per il mancato utile dato dalla cessione degli immobili, per il mancato guadagno conseguito dalla locazione degli stessi, o ancora per il costo delle commissioni corrisposte per lo studio di fattibilità dell’operazione: pag. 43 del ricorso) non avrebbe portato all’acquisizione di alcun elemento di interesse ai fini della decisione.
Parimenti da disattendere è, poi, la doglianza vertente sul danno non patrimoniale, giacchè la ricorrente propone una modalità di quantificazione dello stesso, mentre il Giudice di primo grado ha escluso che tale danno si sia prodotto.
5. – Il ricorso è respinto.
6. – Chi soccombe sopporta il carico delle spese processuali, giusta l’art. 91 c.p.c., comma 1.
P.Q.M.
La Corte;
rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della I. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della la Sezione Civile, in data 6 giugno 2022.