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Cassazione Civile 7726/2016 – Presupposti della responsabilità aggravata ex art. 9, comma 3 cpc

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Sentenza 7726/2016

Presupposti della responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3, c.p.c. 

Ai fini dell’applicabilità dell’art. 96, comma 3, c.p.c., la mala fede o la colpa grave devono coinvolgere l’esercizio dell’azione processuale nel suo complesso, e non singoli aspetti di essa, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l’abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, al fine di contemperare le esigenze di deflazione del contenzioso pretestuoso con la tutela del diritto di azione, suscettibile di essere irragionevolmente leso da danni punitivi non proporzionati.

Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza 19-04-2016, n. 7726  (CED Cassazione 2016)

Art. 96 cpc (Responsabilità aggravata) – Giurisprudenza

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- Il Tribunale di Torino, adito da (OMISSIS), accolse il ricorso da costui proposto nei confronti della datrice di lavoro (OMISSIS) Srl volto alla condanna al pagamento di una somma a titolo di risarcimento del danno in misura pari al differenziale delle retribuzioni tra quelle percepite e quelle percipiende se non fosse stato collocato illegittimamente in CIGS tra il 6 dicembre 2002 ed il 31 agosto 2009.

A seguito di gravame della società, la Corte di Appello di Torino, con sentenza dell’8 febbraio 2013, respingeva l’impugnazione, condannando l’appellante al pagamento delle spese del grado nonchè, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, della somma equitativamente determinata in Euro 3.000,00.

La Corte preliminarmente considerava “manifestamente infondato e temerario” il motivo di appello con cui la società ribadiva l’improponibilità della domanda in ragione del verbale di conciliazione del 22 aprile 2010 stipulato tra il (OMISSIS) e la (OMISSIS), atteso che la (OMISSIS) non poteva giovarsi di una rinuncia che non aveva alcun collegamento con le domande proposte dal ricorrente nei confronti di tale società, senza alcun riferimento alle questioni relative alla sospensione in CIGS.

Inoltre negava della L. n. 223 del 1991, art. 1, che i commi 7 ed 8 in tema di procedura di concessione della CIGS e di consultazione sindacale fossero stati abrogati – come sostenuto dalla società – per effetto dell’entrata in vigore del Decreto del Presidente della Repubblica 10 giugno 2000, n. 218; osservava dunque che l’azienda, con la nota di avvio della procedura di cassa integrazione del 6 dicembre 2002, non aveva ottemperato agli oneri previsti dalla L. n. 223 del 1991, in quanto comunicazione di tenore generico ed indeterminato; argomentava, infine, che tale inottemperanza non poteva essere sanata dall’accordo del 19 giugno 2003, atteso che la successiva conclusione non poteva vanificare la già consumata illegittimità della procedura.

2.- La (OMISSIS) Srl ha proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi. L’intimato ha resistito con controricorso, illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

3.- I motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati:

violazione o falsa applicazione dell’art. 1304 c.c., comma 1, art. 2112 c.c. e art. 2113 c.c., comma 4, non potendosi sostenere – a parere della deducente – che la transazione contenuta nel verbale di conciliazione producesse i suoi effetti solo nei confronti della Fiat, dal momento che quest’ultima sarebbe comunque condebitrice solidale del credito vantato dal (OMISSIS), secondo quanto disposto dall’art. 2112 c.c., e che gli effetti della transazione andrebbero comunque estesi alla (OMISSIS) in ragione della dichiarazione di volerne profittare “contenuta nella memoria di primo grado ed espressamente formulata a verbale all’udienza del 22.2.2012” (primo motivo);

violazione o falsa applicazione della L. 15 marzo 1997, n. 59, art. 20, in relazione alla L. n. 223 del 1991, art. 1 ed al Decreto del Presidente della Repubblica n. 218 del 2000, nonchè violazione o falsa applicazione dell’art. 15 preleggi in relazione al rapporto tra il Decreto del Presidente della Repubblica citato e la L. n. 223 del 1991, art. 1 sostenendo che il regolamento contenuto nel decreto presidenziale ha “inciso, abrogandolo, sul complessivo sistema procedimentale delineato dalla previgente disciplina” (secondo motivo);

violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e del Decreto del Presidente della Repubblica n. 218 del 2000, art. 2, in relazione ai verbali di esame congiunto del 20 e del 23 dicembre 2002 nonchè del 15 gennaio 2004, i quali avrebbero certificato la regolarità della procedura o, quanto meno, prodotto l’effetto di determinare una presunzione semplice in ordine alla regolarità della medesima (terzo motivo);

violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 1, comma 7, della L. n. 164 del 1975, art. 5, commi 4, 5 e 6, del Decreto del Presidente della Repubblica n. 218 del 2000, art. 2 in relazione al contenuto della lettera di apertura della procedura sia del dicembre 2002 che del dicembre 2003, da ritenere conforme a legge, atteso che la specificità della comunicazione deve ritenersi negata dalla finalità cui la stessa è preordinata: “delineare un’iniziale (e precaria) piattaforma di discussione con il sindacato, suscettibile di integrazione, modifica, specificazione, ad opera della successiva dialettica sindacale (quarto motivo);

violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1367 c.c. in relazione agli accordi sindacali del 19 giugno 2003 e del 2 febbraio 2004 e violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 1 – in particolare comma 8 – e successive modificazioni, nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione al contenuto dell’accordo sindacale del giugno 2003 e del febbraio 2004 e violazione dell’art. 116 c.p.c. in relazione alle testimonianze acquisite al giudizio; si assume che, come l’accordo sindacale in sede di esame congiunto sana eventuali vizi della comunicazione, cosi l’accordo in sede di gestione sana eventuali carenze dell’esame congiunto; per quanto riguarda poi la pretesa genericità degli accordi citati ci si duole che la sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare le chiare ed in equivoche risultanze istruttorie emerse in giudizi analoghi e ritualmente acquisiti in giudizio (quinto motivo);

violazione e falsa applicazione della L. n. 244 del 2007, art. 2, comma 521 e ss. e del Decreto Legge n. 185 del 2008, convertito con L. n. 2 del 2009, per avere la sentenza gravata ravvisato nelle sospensioni in CIGS avvenute nel 2008 e nel 2009 i medesimi vizi già individuati con riferimento alle precedenti procedure per crisi e per riorganizzazione aziendale; si sostiene che la cassa integrazione “in deroga alla vigente normativa” prevista da detta disciplina legislativa sarebbe stata concepita come strumento direttamente finalizzato a concedere, anche senza soluzione di continuità, trattamenti di CIGS nel caso di programmi finalizzati alla gestione di crisi occupazionali, anche con riferimento a settori produttivi ed aree regionali, ovvero miranti al reimpiego di lavoratori coinvolti in detti programmi definiti in specifici accordi in sede governativa intervenuti entro il termine di volta in volta indicato e tali concessioni sono attribuite al Ministero del Lavoro di concerto con quello dell’Economia; ne consegue che nessun onere diverso da quello previsto dalle citate disposizioni legislative doveva essere osservato sul piano procedurale, rilevando che la normativa stessa non richiama, neppure in via indiretta, le previsioni e gli oneri procedurali relativi ad enunciazione di criteri di scelta, modalità di rotazione ed esame congiunto; secondo parte ricorrente l’istituto della CIGS in deroga si porrebbe al di fuori degli schemi anche procedurali della L. n. 223 del 1991, con la conseguenza che i pretesi vizi formali che la sentenza impugnata avrebbe riscontrato nella procedura per “riorganizzazione” non si estenderebbero alla successiva e diversa procedura che aveva disciplinato la sospensione dell’odierno intimato per gli anni 2008 e 2009 (sesto motivo);

violazione o falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c., comma 3, per avere la Corte territoriale condannato la società al pagamento di Euro 3.000,00 per lite temeraria senza aver verificato in concreto la mala fede o la colpa grave, per di più analizzando solo uno dei motivi di gravame e non anche l’atto di appello nel suo complesso (settimo motivo).

4.- Preliminarmente occorre disattendere il primo motivo di ricorso con cui si censura la Corte territoriale per aver confermato la tesi del primo giudice secondo cui la rinuncia contenuta nel verbale di conciliazione del 22 aprile 2010 sottoscritto dal (OMISSIS) con la (OMISSIS) “non avrebbe alcun collegamento con le domande proposte dal Sig. (OMISSIS) nei confronti della (OMISSIS) e sarebbe del tutto generica e priva di riferimento alle questioni relative alla sospensione in CIGS dell’odierno intimato”.

Occorre premettere che l’interpretazione di un atto negoziale è riservata all’esclusiva competenza del giudice del merito (tra le ultime Cass. n. 8586 del 2015; in precedenza, ex multis, cfr. Cass. n. 17067 del 2007; Cass. n. 11756 del 2006), con una operazione che si sostanzia in un accertamento di fatto (tra le tante, Cass. n. 9070 del 2013). Le valutazioni del giudice di merito in ordine all’interpretazione degli atti negoziali soggiacciono, nel giudizio di tassazione, ad un sindacato limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed al controllo della sussistenza di una motivazione logica e coerente (ex plurimis, Cass. n. 4851 del 2009; Cass. n. 3187 del 2009; Cass n 15339 del 2008; Cass. n. 11756 del 2006; Cass. n. 6724 del 2003; Cass. n. 17427 del 2003). Inoltre, sia la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica, sia la denuncia del vizio di motivazione esigono una specifica indicazione – ossia la precisazione del modo attraverso il quale si è realizzata l’anzidetta violazione e delle ragioni della obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento del giudice di merito – non potendo le censure risolversi, in contrasto con l’interpretazione loro attribuita, nella mera contrapposizione di una interpretazione diversa da quella criticata (tra le innumerevoli: Cass. n. 2625 del 2010; Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 12468 del 2004; Cass. n. 22979 del 2004, Cass. n. 7740 del 2003; Cass. n. 12366 del 2002; Cass. n. 11053 del 2000). Per sottrarsi al sindacato di legittimità quella data dal giudice al testo negoziale non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito – dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. n. 9120 del 2015; Cass. n. 10044 del 2010; Cass. n. 15604 del 2007; Cass. n. 4178 del 2007; Cass. n. 10131 del 2006).

Nella specie la Corte territoriale confermando quanto già ritenuto dal primo giudice, con motivazione congrua, ha plausibilmente escluso che il lavoratore, con la sottoscrizione della conciliazione del 22 aprile 2010, avesse inteso rinunciare alle spettanze connesse alla sospensione in cassa integrazione, in quanto dalla lettera del negozio si evinceva una volontà abdicativa, nell’ambito di una procedura di mobilità, limitata all’accettazione del licenziamento intimato dalla (OMISSIS) ed alla “rinuncia a far valere eventuali diritti risarcitori L. n. 249 del 1949, ex art. 15”, non potendo ritenersi compresa in essa diritti relativi alla sospensione in CIGS disposta invece dalla (OMISSIS).

5.- I successivi mezzi di impugnazione investono questa Corte dell’esame di questioni già esaminate e risolte in analoghe controversie (tra le ultime v. Cass. nn. 4431, 4290, 4289, 4288, 4228, 4227 del 2016), così declinabili nel rispetto del loro gradato ordine logico-giuridico: a) rapporto tra il Decreto del Presidente della Repubblica n. 218 del 2000 e la L. n. 223 del 1991, art. 1 nel senso dell’avvenuta abrogazione o meno delle disposizioni della seconda legge ad opera di quelle della prima, con la conseguenza della non necessaria indicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da sospendere e delle modalità della loro rotazione nella comunicazione di avvio della procedura di CIGS, suscettibile di differimento all’esito dell’esame congiunto tra imprenditore e oo.ss. della crisi aziendale e delle esigenze di organizzazione della produzione; b) requisiti di specificità della comunicazione di richiesta di apertura della procedura, in ordine ai suddetti criteri di scelta dei lavoratori da sospendere e delle modalità della loro rotazione; c) eventuale efficacia sanante, in caso di inidoneità dei suddetti requisiti, di accordi sindacali raggiunti in corso di procedura e dell’attestazione, con verbale di esame congiunto del Ministero del Lavoro, di regolarità della procedura stessa.

6.- La questione sub a) è oggetto del secondo motivo di ricorso in premessa illustrato con il quale, con plurime argomentazioni, nella sostanza si sostiene la tesi dell’abrogazione della precedente normativa ad opera del Decreto del Presidente della Repubblica n. 218 del 2000.

L’assunto e le censure che lo sostengono non possono essere condivise.

L’insegnamento di questa Corte è ormai attestato nell’escludere alcuna incompatibilità tra la normativa regolamentare introdotta con il Decreto del Presidente della Repubblica 10 giugno 2000, n. 218 e le disposizioni della L. 23 luglio 1991, n. 223, limitandosi la disciplina regolamentare ad imporre all’imprenditore, che intenda chiedere l’intervento straordinario di integrazione salariale, l’obbligo di dare tempestiva comunicazione alle organizzazioni sindacali ed attenendo unicamente alla fase amministrativa di concessione dell’integrazione, senza nulla dire sul contenuto concreto della comunicazione, nè dettando alcuna disciplina in ordine ai criteri di scelta: senza pertanto incidere sugli obblighi di rilevanza collettiva stabiliti dalla L. n. 223 citata, art. 1, commi 7 e 8. E così pure esso è fermo nel negare che la normativa regolamentare abbia spostato l’informazione sui criteri di scelta e le modalità della rotazione dal momento iniziale della comunicazione datoriale di avvio della procedura di integrazione salariale a quello immediatamente successivo dell’esame congiunto; posto che, così opinando, il contenuto del Decreto del Presidente della Repubblica n. 218 del 2000, art. 2 non soddisferebbe l’esigenza di semplificazione del procedimento amministrativo, comportando solo l’alleggerimento degli oneri della parte datoriale con la compressione dei diritti d’informazione spettanti al sindacato, dando luogo ad un sistema di consultazione sindacale palesemente inadeguato.

Sicchè, in proposito appare sufficiente, per la piena adesione ad esso prestata, richiamare il seguente principio di diritto, assolutamente consolidato (cosi anche da ultimo: Cass. 11 marzo 2015, n. 4886 e, con affermazione ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., comma 1: Cass. 9 giugno 2015, n. 11957), secondo cui: “In tema di scelta dei lavoratori da porre in cassa integrazione guadagni, la L. n. 223 del 1991, art. 1 prescrive al comma 7 da parte del datore di lavoro, a seguito della sua ammissione alla cassa integrazione guadagni straordinaria, la comunicazione alle organizzazioni sindacali dei criteri di scelta dei lavoratori da sospendere, in base a quanto previsto dalla L. n. 164 del 1975. Tale disposizione, che pone a carico del datore di lavoro un preciso onere, va osservata come tutte le restanti disposizioni della suddetta L. n. 223 del 1991, volte a tutelare, nella gestione della cassa integrazione, i diritti dei singoli lavoratori e le prerogative delle organizzazioni sindacali, anche dopo l’entrata in vigore del Decreto del Presidente della Repubblica 10 giugno 2000, n. 218 (contenente norme per la semplificazione del procedimento per la concessione del trattamento di cassa integrazione guadagni straordinaria e di integrazione salariale a seguito della stipula di contratti di solidarietà), atteso che tale disciplina non incide con effetto abrogativo o modificativo sulle suddette disposizioni ma è volta unicamente a diversamente regolamentare il procedimento amministrativo, di rilevanza pubblica, di concessione di integrazione salariale” (Cass. n. 28464 del 2008; adde: Cass. n. 13240 del 2009; successivamente conformi, Cass. nn. 2155, 2156, 2157, 4151, 4152 del 2011, oltre Cass. nn. 25949, 25229, 25047, 23492, 23491, 23454, 23399, 15879, 15741 del 2014; Cass. nn. 25100, 22540, 22247, 21814 del 2013)”.

Avendo la Corte territoriale deciso la controversia al suo esame applicando un orientamento più volte espresso dai giudici di legittimità la sentenza d’appello non è, per questo aspetto, meritevole di censura.

7.- La seconda questione, relativa ai requisiti di specificità della comunicazione di richiesta di apertura della procedura, è oggetto del quarto motivo con cui si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto inadeguata la comunicazione di avvio della procedura.

Anch’esso è infondato.

Premesso che la valutazione della rispondenza in concreto della comunicazione di avvio della procedura di cassa integrazione oggetto dell’esame giudiziale ai requisiti legali investe il merito in ordine al contenuto dell’atto, sicchè è nella competenza esclusiva del giudice di merito e come tale insindacabile nel giudizio di legittimità, quando esso abbia motivato la sua decisione in modo sufficiente e privo di contraddizioni (Cass. 11 marzo 2015, n. 4886; Cass. 6 maggio 2014, n. 9705; Cass. 2 ottobre 2013, n. 22540), nel caso di specie la Corte territoriale ha esaurientemente e coerentemente argomentato il proprio convincimento, in esatta applicazione delle norme di diritto denunciate.

Ed infatti, da esse sono stati enucleati i principi secondo cui: a) la specificità dei criteri di scelta consiste nell’idoneità dei medesimi ad operare la selezione e nel contempo a consentire la verifica della corrispondenza della scelta ai criteri; b) la comunicazione di apertura della procedura di trattamento di integrazione salariale, la cui genericità renda impossibile qualunque valutazione coerente tra il criterio indicato e la selezione dei lavoratori da sospendere, viola l’obbligo di comunicazione previsto dalla L. n. 223 del 1991, art. 1, comma 7; c) la mancata specificazione dei criteri di scelta (o la mancata indicazione delle ragioni che impediscono il ricorso alla rotazione) determina l’inefficacia dei provvedimenti aziendali che può essere fatta valere giudizialmente dai lavoratori, in quanto la regolamentazione della materia è finalizzata alla tutela, oltre che degli interessi pubblici e collettivi, soprattutto di quelli dei singoli lavoratori (Cass. 11 marzo 2015, n. 4886; Cass. 8 settembre 2014, n. 18895; Cass. 14 maggio 2012, n. 7459). E con particolare riferimento al requisito di specificità, si è precisato (Cass. 2 ottobre 2013, n. 22540; Cass. 7 novembre 2013, n. 25100) che l’aggettivazione “non individua una specie nell’ambito del genere criterio di scelta ma esprime la necessità che esso sia effettivamente tale, e cioè in grado di operare da solo la selezione dei soggetti da porre in cassa integrazione”, atteso che “un criterio di scelta generico non è effettivamente tale, ma esprime soltanto, non un criterio, ma un generico indirizzo nella scelta” (Cass. 1 luglio 2009 n. 15393, richiamante Cass. 23 aprile 2004 n. 7720 e in chiaro riferimento a Cass. SS.UU. 11 maggio 2000, n. 302).

8.- La terza questione, riguardante l’efficacia sanante degli accordi sindacali raggiunti in corso di procedura e dell’attestazione di regolarità della procedura, con verbali di esame congiunto del Ministero del Lavoro, è oggetto del terzo e del quinto motivo, per tale ragione congiuntamente esaminabili.

Essi sono infondati.

Anche qui occorre premettere che la valutazione di adeguatezza, nell’accordo sindacale, della specificazione dei criteri di individuazione dei lavoratori da porre in cassa integrazione e delle modalità di rotazione si risolve nella formulazione di un giudizio di merito, al pari di quella concernente la comunicazione di avvio della procedura, spettante in via esclusiva al giudice di merito e censurabile in cassazione solo negli stretti limiti del giudizio di legittimità (Cass. 29 maggio 2014, n. 12096; Cass. 6 maggio 2014, n. 9705): nel caso in esame travalicati, in riferimento ad una decisione immune da incoerenze o contraddizioni logiche.

In ogni caso, questa Corte intende ribadire la recente affermazione secondo cui, in riferimento “alla possibilità di una efficacia sanante di un accordo sindacale sui criteri di scelta, occorre pure rammentare che essa è stata ammessa solo in casi particolari e circoscritti, ma non nell’ipotesi in cui la comunicazione è strettamente funzionale a mettere in grado le organizzazioni sindacali di partecipare al confronto con la controparte adeguatamente informate e ai lavoratori di avere contezza delle prospettazioni aziendali. Nè può essere ammessa, con effetto retroattivo, rispetto a scelte in concreto già operate”. (Cass. 11 marzo 2015, n. 4886, anche per richiamo di: Cass. 12 dicembre 2011, n. 26587; Cass. 9 giugno 2009, n. 13240; Cass. 1 luglio 2009, n. 15393).

Quanto alle attestazioni ministeriali di corretto svolgimento della procedura ed in particolare dei verbali di esame congiunto del Ministero del Lavoro del 20 e 23 dicembre 2002 nonchè del 15 gennaio 2004, esse difettano di rilevanza, posto che, ove si ritenga che criteri di individuazione e modalità di rotazione debbano essere indicati ab initio nella comunicazione di avvio, è superfluo esaminare la tesi che assegna valore asseverativo ad un documento che attesta che quell’indicazione è avvenuta solo in un momento successivo, e cioè in sede di esame congiunto (Cass. 8 giugno 2015, n. 11754; Cass. 2 ottobre 2013, n. 22540; Cass. 12 dicembre 2011, n. 26587).

9.- Il sesto motivo è inammissibile in quanto denuncia come viziata la sentenza gravata “nella parte in cui la Corte territoriale ha ravvisato nelle sospensioni in CIGS avvenute negli anni 2008 e 2009 i medesimi vizi già individuati con riferimento alle precedenti procedure per crisi e per riorganizzazione aziendale”.

Orbene tale motivazione non è contenuta nella decisione impugnata per cui la censura è priva di oggetto, neanche specificando il quando ed il come la questione eventualmente fosse stata rite et recte introdotta nel giudizio e poi portata all’attenzione del giudice del gravame.

10.- Merita invece accoglimento l’ultimo motivo di ricorso con cui si lamenta la violazione o falsa applicazione di norme di diritto per avere la Corte di Appello condannato la società, oltre alle spese del grado, anche alla somma equitativamente determinata in Euro 3.000,00, ritenendo “la proposizione di un motivo di appello francamente temerario… suscettibile di valutazione ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3”. La ricorrente eccepisce che la Corte non avrebbe verificato in concreto la sussistenza della mala fede o della colpa grave della società ed avrebbe ritenuto sussistenti i presupposti della lite temeraria analizzando soltanto uno dei motivi di gravame e non anche l’atto di appello nel suo complesso.

Invero va premesso che, come deduce l’istante, la condanna al pagamento della somma equitativamente determinata, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, aggiunto dalla L. 18 giugno 2009, n. 69 ed applicabile ai giudizi instaurati dopo la sua entrata in vigore, necessita – secondo la giurisprudenza di questa Corte dell’accertamento della mala fede o della colpa grave della parte soccombente, non solo perchè la relativa previsione è inserita nella disciplina della responsabilità aggravata, ma anche perchè agire in giudizio per far valere una pretesa che si rivela infondata non è condotta di per sè rimproverabile (Cass. n. 21570 del 2012; Cass. n. 24546 del 2014; Cass. n. 27354 del 2014; Cass. n. 1115del 2016).

Si è pure osservato che l’applicazione della sanzione processuale, parificabile ad una pena pecuniaria, è indipendente sia dalla domanda della parte, sia dalla prova del danno casualmente derivato all’avversario, essendo collegata ad una iniziativa anche d’ufficio del giudice e rimessa alla sua discrezionalità (cfr. Cass. n. 3003 del 2014).

Discrezionalità non significa che non possano essere sindacati i presupposti per la sua applicazione, anche in ordine all’accertamento effettuato dal giudice di merito circa la sussistenza della mala fede o della colpa grave (v. Cass. n. 327 del 2010).

Va ribadito che la temerarietà della lite può essere in concrete circostanze ravvisata nella coscienza dell’infondatezza della domanda (mala fede) o nella carenza della ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta coscienza (colpa grave). Quest’ultima, infatti, si distingue dal dolo, che presuppone la coscienza dell’infondatezza della domanda, perchè consiste nella colpevole ignoranza in ordine a detta infondatezza, vale a dire, per quanto riguarda il giudizio d’appello, nella colpevole insistenza in tesi giuridiche già reputate manifestamente infondate dal primo giudice ovvero in ragioni di censura della prima sentenza, la cui inconsistenza giuridica ben avrebbe potuto essere apprezzata da parte dell’appellante, tanto da evitare appunto il gravame (ancora Cass. n. 24546/14 cit.).

La Corte territoriale, in assenza una specifica indagine sulla ricorrenza di tale elemento soggettivo, ha indirettamente tratto la convinzione della colpa grave della società appellante dalla circostanza che, tra i molteplici motivi di impugnazione, uno fra essi era da ritenersi “francamente temerario”.

Senza impingere nella valutazione di temerarietà del singolo motivo di appello operata dal giudice del merito, il Collegio invece ritiene che tra i presupposti di applicabilità della disposizione in esame vi sia che la mala fede o la colpa grave coinvolgano l’esercizio dell’azione processuale nel suo complesso, e non singoli aspetti di essa, di modo che si possa considerare meritevole di sanzione punitiva l’abuso dello strumento processuale in sè, anche a prescindere dal danno procurato all’avversario e da una richiesta di questi; tanto per opportuno contemperamento tra le esigenze di deflazione del contenzioso pretestuoso e strumentale, che chiaramente animano l’introduzione dell’art. 96 c.p.c., comma 3, e la tutela del diritto di azione di rilevo costituzionale, che potrebbe essere irragionevolmente leso dalla inflizione di danni punitivi non proporzionati.

11.- Conclusivamente vanno rigettati i motivi di ricorso dal primo al sesto. Accolto il settimo motivo, non essendo necessari ulteriori accertamenti, provvedendo in merito ad esso deve essere cassata senza rinvio la decisione della Corte di Appello di Torino sulla condanna “al pagamento in favore dell’appellato, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, della somma equitativamente determinata di Euro 3.000,00”.

Le spese del giudizio di legittimità vanno per 2/3 poste a carico della società ricorrente come liquidate per intero in dispositivo, considerata la prevalente soccombenza, restando compensato il residuo 1/3.

Non ricorrono invece i presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.

P.Q.M.

La Corte accoglie il settimo motivo, rigetta gli altri e, provvedendo nel merito del motivo accolto, cassa senza rinvio la decisione impugnata limitatamente alla condanna ex art.96 c.p.c., comma 3; condanna parte ricorrente al pagamento di 2/3 delle spese di lite, compensato il residuo 1/3, spese liquidate per l’intero in Euro 3.100,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Roma, così deciso nella camera di consiglio del 2 febbraio 2016