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Cassazione Civile 7871/2021 – Petitio hereditatis e rei vindicatio – Onere della prova

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Ordinanza 7871/2021

 

“Petitio hereditatis” e “rei vindicatio” – Onere della prova

La “petitio hereditatis” si differenzia dalla “rei vindicatio”, malgrado l’affinità del “petitum”, in quanto si fonda sull’allegazione dello stato di erede, ed ha per oggetto beni riguardanti elementi costitutivi dell'”universum ius” o di una quota parte di esso. Ne consegue, quanto all’onere probatorio, che, mentre l’attore in “rei vindicatio” deve dimostrare la proprietà dei beni attraverso una serie di regolari passaggi durante tutto il periodo di tempo necessario all’usucapione, nella “hereditatis petitio” può invece limitarsi a provare la propria qualità di erede ed il fatto che i beni, al tempo dell’apertura della successione, fossero compresi nell’asse ereditario; pertanto, deve ritenersi inammissibile il mutamento in corso di causa dell’azione di petizione ereditaria in azione di rivendicazione, anche quando non sia contestata dal convenuto la qualità di erede dell’attore, in quanto tale mancata contestazione non fa venire meno la funzione prevalentemente recuperatoria dell’azione ereditaria, ma produce effetti solo sul piano probatorio, senza incidere sulla radicale diversità per natura, presupposti, oggetto e onere della prova tra le due azioni.

Cassazione Civile, Sezione 2, Ordinanza 19-3-2021, n. 7871/2021   (CED Cassazione 2021)

Art. 2697 cc (Onere della prova)

 

 

FATTI DI CAUSA

  1. Con atto di citazione del 15 marzo 2001, Vi. Ba. conveniva in giudizio Ti. Pu., Ca. Pu., Ca. Ba. e il Comune di Roccella Valdemone.

Esponeva l’attore che in data 4 maggio 1991 era deceduto Gi. L.F., i cui eredi ex lege erano, oltre ad esso Vi. Ba., anche Ma. Ba., che aveva rinunciato all’eredità, e Ca. Ba., anch’egli citato in giudizio.

Tra i beni caduti in successione vi era l’immobile urbano di mq. 80 sito in Roccella Valdemone via della Rocca, n. 2, composto da piano terra e piano primo, con adiacente terreno di mq. 70, costruito dal de culus su terreno di proprietà del Comune e posseduto dal L.F. fino alla data del decesso. Per detto immobile l’attore aveva presentato istanza di condono edilizio, versando l’intera oblazione, e aveva chiesto la sdemanializzazione e la vendita.

L’attore, pur avendo ottenuto in suo favore, con sentenza 2368/2000 del Tribunale di Messina, il rilascio dell’immobile in questione, non ne aveva avuto il possesso per l’intero, in quanto una stanza non comunicante di mq. 40 posta al primo piano e il terreno di pertinenza dell’intero immobile da cui si accede dalla predetta stanza, erano occupati senza titolo da Ti. Pu. e da Ca. Pu..

L’attore chiedeva il rilascio immediato della stanza e del terreno in quanto coerede e legittimo comproprietario.

Si costituivano in giudizio i convenuti i quali non contestavano l’occupazione della stanza e del terreno, che, anzi, asserivano di possedere da oltre trenta anni, insistendo per il rigetto della domanda attorea, in quanto il terreno e l’immobile non appartenevano all’attore e non risultavano inseriti nei cespiti ereditari del de cuíus L.F..

  1. L’adito Tribunale di Messina, sezione distaccata di Taormina, con sentenza in data 9 aprile 2010, ha rigettato la domanda di petizione di eredità avanzata da parte attrice (rilevando che il bene immobile di cui parte attrice ha chiesto il rilascio non è mai appartenuto a Gi. L.F., al quale Vi. Ba. è succeduto per legge, in quanto il fabbricato, costruito dal L.F., ricadeva al momento del suo decesso su suolo di proprietà del Comune di Roccella Valdemone, in base al principio superficies solo cedit); ma dopo aver precisato che con l’atto di citazione Vi. Ba. ha esercitato, oltre all’azione di petizione di eredità, anche un’azione di rivendica in qualità di legittimo comproprietario dell’immobile di cui ha chiesto il rilascio ha ritenuto fondata, in quanto suffragata da idonea prova (attraverso l’atto di compravendita stipulato con il Comune di Roccella Valdemone in data 20 febbraio 2002), l’azione di rivendica e la domanda di rilascio, condannando i convenuti al rilascio della stanza e del terreno in favore del Ba., oltre al rimborso delle spese processuali.
  2. La Corte d’appello di Messina, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 26 maggio 2017, ha rigettato il gravame di Antonino e Lorenzo Pu., eredi di Ti. Pu., e di Ca. Pu., sia nella qualità di erede di Ti. Pu. che in proprio, gravame resistito da Ro., Lu. e Gi. Ba., quali eredi di Vi. Ba.. La Corte territoriale ha escluso la dedotta violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, rilevando che l’attore ha esercitato in giudizio, oltre all’azione di petizione di eredità, anche l’azione di rivendica in qualità di legittimo comproprietario dell’immobile.

La Corte di Messina ha poi precisato che, ai fini dell’esercizio dell’azione di rivendicazione, la qualità di proprietario non costituisce un presupposto processuale, bensì una condizione dell’azione, la quale è sufficiente che sussista al momento della decisione; sicché non costituiva impedimento all’accoglimento della domanda la circostanza che il Ba. avesse stipulato l’atto di acquisto dal Comune in corso di causa, e precisamente il 20 febbraio 2002.

La Corte territoriale ha infine evidenziato che i testi escussi, nel confermare che l’immobile per cui è causa fu costruito dal L.F., hanno smentito un possesso altrui uti dominus per oltre venti anni.

  1. Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Messina hanno proposto ricorso Antonino, Ca. e Lorenzo Pu., con atto notificato il 22 novembre 2017, sulla base di due motivi.

Hanno resistito, con controricorso, Ro., Gi. e Lu. Ba..

A seguito di ordinanza interlocutoria della VI-2 Sezione di questa Corte 3 dicembre 2018, n. 31219, i ricorrenti hanno provveduto a rinnovare la notifica del ricorso a Giovanna e a Salvatore Pu., quali eredi di Ti. Pu., con atto in data 7-15 marzo 2019.

  1. Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ex art. 380bis.1 cod. proc. civ.

In prossimità dell’adunanza camerale i ricorrenti hanno depositato memoria illustrativa.

RAGIONI DELLA DIECISIONE

  1. Con il primo motivo (violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato; vizio di extrapetizione; violazione del principio del contraddittorio; violazione degli artt. 112 e 101 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, nn. 4 e 5, cod. proc. civ.) i ricorrenti censurano l’affermazione della sentenza della Corte d’appello secondo cui Vi. Ba., con l’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado, avrebbe esercitato, oltre all’azione di petizione di eredità, anche quella di rivendica, in qualità di legittimo proprietario dell’immobile di cui ha chiesto il rilascio. Ad avviso dei ricorrenti, l’assunto sarebbe smentito per tabulas dalla causa petendi e dalle domande di cui all’atto di citazione. Il giudice di primo grado si sostiene avrebbe sostituito l’azione di petizione con quella di rivendica: ma tale mutamento sarebbe inammissibile, attesi i diversi presupposti, la diversa causa petendi ed, infine, l’introduzione di un nuovo ed autonomo tema di indagine nettamente diverso fra le due azioni.

1.1. La censura è infondata.

1.2. In generale, occorre premettere che l’azione di rivendicazione e quella di petizione di eredità si differenziano tra loro, con conseguenze sia sul contenuto dell’onere probatorio, sia sull’inammissibilità del mutamento in corso di causa dell’azione di petizione di eredità in azione di rivendicazione.

E’ stato infatti chiarito che la petitio hereditatis si differenzia dalla rei vindicatio, malgrado l’affinità del petitum, in quanto si fonda sull’allegazione dello stato di erede ed ha per oggetto beni riguardanti elementi costitutivi dell’universum ius o di una quota parte di esso. Se ne è fatta derivare la conseguenza, per un verso, quanto all’onere probatorio, che, mentre l’attore in rei vindicatio deve dimostrare la proprietà dei beni attraverso una serie di regolari passaggi durante tutto il periodo di tempo necessario all’usucapione, nella hereditatis petitio può invece limitarsi a provare la propria qualità di erede ed il fatto che i beni, al tempo dell’apertura della successione, fossero compresi nell’asse ereditario; e, per l’altro verso, che è inammissibile il mutamento in corso di causa dell’azione di petizione ereditaria in azione di rivendicazione, anche quando non sia contestata dal convenuto la qualità di erede dell’attore, in quanto tale mancata contestazione non fa venire meno la funzione prevalentemente recuperatoria dell’azione ereditaria, ma produce effetti solo sul piano probatorio, senza incidere sulla radicale diversità per natura, presupposti, oggetto e onere della prova tra le due azioni (Cass., Sez. II, 16 gennaio 2009, n. 1074).

1.3. Tanto premesso, va nella specie osservato che secondo la corretta ricostruzione operata dai giudici di merito in entrambi i gradi di giudizio Vi. Ba. ha agito in giudizio nei confronti di Ti. e Ca. Pu. non solo promuovendo una domanda di petizione di eredità (a tal fine deducendo: che in data 4 maggio 1991 era deceduto, senza lasciare testamento, Gi. L.F., al quale erano succeduti per legge l’attore, Ca. Ba. e Ma. Ba., che aveva successivamente rinunciato all’eredità; che tra i beni caduti in successione vi era l’immobile sito a Roccella Valdemone, composto da piano terra e primo piano, con adiacente terreno di mq. 70; che l’immobile era stato costruito dal de CLAJS su un terreno di proprietà del Comune di Roccella Valdemone, posseduto dal de cuius fino alla data del decesso), ma ha anche proponendo una domanda di rivendica. Vi. Ba., infatti, nella citazione introduttiva ha esposto di avere presentato, in relazione all’immobile oggetto di controversia, istanza di condono edilizio, versando l’intera oblazione, e di sdemanializzazione, chiedendo al Comune la vendita del terreno; ha dedotto di essere il legittimo comproprietario del bene; ha domandato che venisse ordinato ai convenuti Ti. Pu. e Ca. Pu., occupanti senza alcun titolo, il rilascio immediato della stanza e del terreno in suo favore, non solo in quanto coerede, ma anche in quanto legittimo comproprietario.

Correttamente, pertanto, la Corte distrettuale, senza incorrere nelle violazioni di legge denunciate dai ricorrenti, ha ritenuto che con la citazione introduttiva l’attore ha proposto anche una domanda di rivendica, avendo questi agito per il rilascio del terreno e della stanza qualificandosi legittimo comproprietario dell’immobile e prospettando l’assenza di titolo degli occupanti.

E’, infatti, qualificabile come rivendica l’azione per il rilascio di un fondo esercitata in base al titolo di proprietà dell’attore e all’assenza di titolo dell’occupante (Cass., Sez. II, 12 novembre 2015, n. 23121).

  1. Con il secondo mezzo (violazione dell’art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ. per falsa applicazione di norma di diritto e omesso esame di 6 un fatto decisivo per il giudizio; nullità della sentenza per violazione dell’art. 948 cod. civ.; insussistenza dei presupposti di legge; carenza di prova) i ricorrenti richiamato il principio secondo cui nell’azione di rivendica l’onere della prova grava sull’attore e deve consistere nella rigorosa dimostrazione del titolo originario di acquisto del bene deducono che, avendo i convenuti in primo grado sollevato l’eccezione di possesso uti dominus protratto per oltre trent’anni, era onere di controparte fornire la prova della sussistenza dell’asserito diritto di proprietà sul bene, anche attraverso i propri danti causa, fino a risalire ad un acquisto a titolo originario, ovvero della maturata usucapione dello stesso. La Corte territoriale avrebbe omesso in toto di affrontare, in motivazione, la sussistenza in atti dell’elemento probatorio, presupposto dell’azione di rivendica.

2.1. Il motivo deve essere disatteso.

2.2. E’ assorbente considerare che il Tribunale di Messina, sezione distaccata di Taormina, con la sentenza di primo grado in data 9 aprile 2010, aveva accolto la domanda di rivendicazione: evidenziando che nell’azione di rivendicazione ex art. 948 cod. civ. “l’attore è soggetto ad un onere probatorio rigoroso”, il primo giudice aveva ritenuto che parte attrice avesse fornito tale prova.

Il merito della regiudicanda è stato censurato in appello dai Pu. con il secondo motivo (con il primo motivo essendo dedotta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, e dell’art. 101 cod. proc. civ., principio del contraddittorio). Orbene, dalla sentenza della Corte d’appello risulta (pagina 5 e primi tre righe di pagina 6) quanto segue: “Con il secondo motivo di gravame gli appellanti lamentano nullità della sentenza per violazione dell’art. 948 cod. civ. Carenza e contraddittorietà della motivazione a fronte di un possesso legittimo. Muovendo dal dato certo che Ba. ha stipulato l’atto di vendita con il Comune in corso di causa e precisamente il 20 febbraio 2002 e che dunque al momento della proposizione della domanda (15 marzo 2001) l’attore non era proprietario, censurano violazione di legge della sentenza impugnata stante che la non esistenza del presupposto per l’azione di rivendica al momento dell’incardinarsi del giudizio, Imponeva il rigetto della domanda. In ogni caso contraddittoria e carente di motivazione sarebbe la sentenza poiché nessun rilascio dovevasi ordinare ai Pu., stante la legittimità del loro possesso ultraventennale”.

Tale essendo la censura proposta con l’atto di appello che risulta dalla sentenza qui impugnata (e che è confermata dalla lettura dell’atto di appello nelle pagine da 7 a 9 dove la doglianza si trova illustrata), è evidente che con il motivo di gravame l’accoglimento della domanda di rivendica da parte del Tribunale è stato contestato sotto un duplice punto di vista: (a) perché l’acquisto del bene da parte dell’attore rivendicante era sopravvenuto in corso di causa, mentre al momento della proposizione dell’azione tale presupposto mancava; (b) perché nessun rilascio poteva ordinarsi a carico dei Pu., considerato che i convenuti si trovavano nel possesso del bene da oltre venti anni.

Nessuna censura specifica è stata quindi mossa con l’atto di appello avverso la sentenza di primo grado in ordine al mancato assolvimento, da parte degli attori, della probatio diabolica, ossia della rigorosa dimostrazione del titolo originario di acquisto del bene, anche attraverso i propri danti causa.

Ne deriva che il motivo di ricorso per cassazione là dove addebita alla sentenza della Corte d’appello di avere omesso in toto di affrontare, in motivazione, la sussistenza in atti dell’elemento probatorio, presupposto dell’azione di rivendica, risalendo ad un acquisto a titolo originario non tiene conto che la questione della mancata dimostrazione rigorosa del titolo originario di acquisto o del possesso ad usucapionem non era stata specificamente devoluta alla Corte messinese con l’atto di gravame ed è proposta per la prima volta in sede di legittimità.

2.3. In ogni caso preme sottolineare che la Corte territoriale, nel confermare la decisione del Tribunale con cui è stata accolta la domanda di rivendicazione, si è attenuta ai principi regolatori della materia.

Secondo questi principi, per esperire vittoriosamente l’azione di rivendicazione, l’attore non può limitarsi a dimostrare di essere l’attuale intestatario del bene, dovendo esso assolvere il più gravoso onere probatorio della continuità dei trasferimenti di proprietà dai propri danti causa, fino a coprire un arco temporale di possesso effettivo idoneo all’acquisto per usucapione (Cass., Sez. II, 4 dicembre 2014, n. 25643; Cass., Sez. VI-2, 10 settembre 2018, n. 21940); peraltro, il rigore della probatio diabolica si attenua in caso di mancata contestazione, da parte del convenuto, dell’originaria appartenenza del bene (Cass., Sez. II, 5 novembre 2010, n. 22598; Cass., Sez. II, 18 gennaio 2016, n. 694).

Orbene, la Corte di Messina si è basata, innanzitutto, al pari del Tribunale, sul titolo di acquisto di Vi. Ba. e di Ca. Bal!arino, ossia sull’atto di compravendita del 20 febbraio 2002. Da tale atto risultano non solo l’attuale proprietà del fondo oggetto di controversia in capo all’attore rivendicante, ma anche le seguenti circostanze: (a) che il terreno apparteneva in precedenza al Comune di Roccella Valdemone e che il Comune, alienante, con deliberazione consiliare n. 37 del 30 settembre 2001, aveva proceduto alla sdemanializzazione del terreno; (b) che sul tratto di terreno oggetto della compravendita insiste un fabbricato realizzato negli anni cinquanta del secolo scorso dall’originario assegnatario, Gi. L.F..

La Corte d’appello, inoltre, ha considerato le prove testimoniali (deposizioni dei testi Leonardo Russo e Antonino Ba.), dalle quali emerge che l’edificio fu costruito ed abitato dal L.F. e che soltanto dopo la di lui morte, avvenuta nel maggio 1991, ha iniziato a possederlo, ma per un periodo inferiore al ventennio, Ti. Pu.. I testi escussi ha affermato la Corte d’appello “smentiscono un possesso altrui uti dominus per oltre venti anni”.

2.4. Va qui inoltre considerato che esente da censure è la rilevanza attribuita dalla Corte messinese all’avvenuta stipulazione, in corso di causa, dell’atto di acquisto in favore del rivendicante.

Al riguardo, infatti, la Corte distrettuale si è attenuta al principio di diritto, che il Collegio condivide, secondo cui, ai fini dell’esercizio dell’azione di rivendicazione, la qualità di proprietario, che la legittima, non costituisce un presupposto processuale, che è necessario che sussista al momento della proposizione della domanda, bensì una condizione dell’azione, la quale, estrinsecandosi nella manifestazione del potere di provocare, mediante l’esercizio dell’attività giurisdizionale, il riconoscimento di un diritto realmente spettante, è sufficiente che sussista nel momento della decisione (Cass., Sez. H, 9 giugno 2010, n. 13882).

Preme inoltre ribadire che la proprietà e gli altri diritti reali di godimento appartengono alla categoria dei cd. diritti autodeterminati, che si identificano in base alla sola indicazione del loro contenuto e non per il titolo che ne costituisce la fonte, la cui eventuale deduzione non assolve ad una funzione di specificazione della domanda o dell’eccezione, ma è necessaria ai soli fini della prova: ne consegue che l’allegazione, nel corso del giudizio inteso alla tutela del diritto di proprietà, di un titolo diverso rispetto a quello posto originariamente a fondamento della domanda rappresenta solo un’integrazione delle difese che non dà luogo alla proposizione di una domanda nuova, così come non influisce in alcun modo sulle conclusioni, che restano, comunque, cristallizzate nel medesimo petitum, consistente nella richiesta di accertamento del diritto di proprietà (Cass., Sez. II, 23 agosto 2019, n. 21641).

  1. Priva di autonomia si appalesa l’impugnazione (che i ricorrenti formulano nelle ultime tre righe di pagina 16 del ricorso) del “capo della sentenza di condanna degli stessi al pagamento in favore di controparte delle spese, compensi dei due gradi di giudizio”.

L’impugnazione è prospettata, evidentemente, sul presupposto di non essere, i ricorrenti, soccombenti per effetto dell’auspicato accoglimento dei motivi di ricorso.

Poiché sia il primo che il secondo motivo sono infondati, la statuizione sulle spese operata dalla Corte territoriale, con la condanna di Antonino, Lorenzo e Ca. Pu. al pagamento delle spese del grado in favore di Ro., Gi. e Lu. Ba., liquidate in euro 1.830 per compensi, oltre accessori, si appalesa applicazione del principio di soccombenza.

  1. Il ricorso è rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

  1. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono i presupposti processuali per dare atto ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. n. 115 del 2002 della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali sostenute dalle controricorrenti, che liquida in complessivi euro 1.700, di cui euro 1.500 per compensi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile, il 21 gennaio 2021.