Sentenza 7897/2014
Ripetizione di indebito – Restituzione di somme pagate sulla base di un titolo inesistente – Diritto alla restituzione dell’indennizzo assicurativo – Prescrizione
Va qualificata come ripetizione di indebito, ai sensi dell’art. 2033 cod. civ., qualunque domanda avente ad oggetto la restituzione di somme pagate sulla base di un titolo inesistente, sia nel caso di inesistenza originaria, che di inesistenza sopravvenuta o di inesistenza parziale. Ne consegue che il diritto alla restituzione dell’indennizzo assicurativo, per la parte che l’assicuratore assuma di aver pagato in eccedenza rispetto al dovuto, è soggetto alla prescrizione ordinaria decennale e non a quella breve di cui all’art. 2952 cod. civ., in quanto scaturente dall’indebito e non dal contratto di assicurazione.
Cassazione Civile, Sezione 3, Sentenza 4-4-2014, n. 7897 (CED Cassazione 2014)
Art. 2033 cc (Indebito oggettivo) – Giurisprudenza
Art. 2952 cc (Prescrizione in materia assicurativa) – Giurisprudenza
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. La società (OMISSIS) s.p.a. (d’ora innanzi, per brevità, “(OMISSIS)”) nel 1986 stipulò un contratto d’appalto col ministero dei lavori pubblici e dell’ambiente tunisino (Ministere de l’Equipment e de l’Habitat), avente ad oggetto la realizzazione di una diga. La (OMISSIS) si garantì contro il rischio di revoca della commessa da parte dell’amministrazione committente stipulando una polizza assicurativa con l’allora S.A.C.E. – Sezione speciale per l’Assicurazione del Credito all’Esportazione, di cui alla L. 24 maggio 1977, n. 227, successivamente soppressa dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 143, art. 13, comma 2 e sostituita dall’Istituto per i servizi assicurativi del commercio estero (ISACE), anch’esso in seguito trasformato in SACE s.p.a. dal D.L. 30 settembre 2003, n. 269, art. 6, convertito nella L. 24 novembre 2003, n. 326; d’ora innanzi, per brevità, “SACE” tout court.
2. Nel 1989, insorta controversia tra il Ministere de l’Equipment e de l’Habitat tunisino e la (OMISSIS) circa i maggiori compensi dovuti all’appaltatore per difficoltà di tipo geologico emerse in corso d’opera, le parti risolsero consensualmente il contratto. La SACE, su richiesta della (OMISSIS), nel 1991 liquidò all’impresa appaltatrice, a titolo di indennizzo per la perdita del credito, l’importo di L. 33.319.570,497.
3. Nove anni dopo il pagamento dell’indennizzo, la SACE ritenne di averne male calcolato l’importo, e di avere liquidato alla (OMISSIS) una somma superiore di circa L. 5 miliardi e mezzo rispetto a quanto dovuto a termini di contratto.
Nel 2000 convenne pertanto dinanzi al Tribunale di Roma la (OMISSIS), chiedendone la condanna alla restituzione della suddetta eccedenza.
4. Il Tribunale di Roma con sentenza 29.4.2003 n. 14199 accolse la domanda, rigettando l’eccezione di prescrizione annuale ex art. 2952 c.c., sollevata dalla (OMISSIS).
5. La Corte d’appello, adita dalla (OMISSIS), con sentenza 22.10.2007 n. 4341 riformò la decisione di primo grado, dichiarando prescritto il credito della SACE.
6. Tale sentenza viene ora impugnata dalla SACE, sulla base di tre motivi. La (OMISSIS) ha resistito con controricorso, e proposto ricorso incidentale condizionato.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo di ricorso la ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in una nullità processuale, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4. Espone, al riguardo, di avere domandato sin dall’atto introduttivo del giudizio la restituzione dell’indennizzo pagato in eccedenza, ai sensi dell’art. 2033 c.c.. Nonostante tale chiara formulazione, la Corte d’appello aveva invece V qualificato il diritto azionato dalla SACE come un diritto nascente dal contratto di assicurazione, per assoggettarlo alla prescrizione breve di cui all’art. 2952 c.c.. Così facendo, la corte d’appello avrebbe secondo la ricorrente posto a fondamento della decisione una domanda diversa da quella formulata dall’attrice.
1.2. Il motivo è manifestamente infondato. La corte d’appello ha giudicato sulla domanda attorea, ovvero sulla domanda di restituzione. Stabilire poi quale fosse la qualificazione giuridica del diritto azionato e quale ne fosse la fonte è compiuto riservato al giudice di merito, il quale nell’assolverlo non è vincolato alle qualificazioni date dalle parti ai loro atti, e dunque non incorre in un vizio di ultrapetizione se qualifica la domanda in modo diverso da quello invocato dalla parte.
2. Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Anche col secondo motivo di ricorso la ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in una nullità processuale, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4. Espone, al riguardo, che la Corte d’appello ha qualificato come “contrattuale” l’azione proposta dalla SACE, in base al rilievo che l’accoglimento od il rigetto di essa dipendevano dall’interpretazione che si fosse voluta adottare di una certa clausola del contratto. Tale decisione sarebbe secondo la ricorrente viziata da ultrapetizione, perché la propria domanda prescindeva del tutto dal contenuto del contratto, ed assumeva quale unico fatto costitutivo della pretesa il pagamento dell’indebito.
2.2. Anche il motivo in esame è infondato, per le identiche ragioni già indicate al par. 1.2: la qualificazione sub specie iuris della domanda spetta al giudice di merito a prescindere dalle denominazioni ad essa assegnate dalle parti. Nè la SACE ha indicato per quali ragioni la diversa qualificazione adottata dal giudice di merito dovrebbe ritenersi frutto di una erronea interpretazione dell’atto di citazione.
3. Il terzo motivo di ricorso.
3.1. Col terzo motivo di ricorso la SACE sostiene che la sentenza impugnata sarebbe incorsa nel vizio di violazione di legge (di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3). Si assume in particolare che essa avrebbe violato gli artt. 2033 e 2952 c.c.. Sostiene che il diritto azionato dalla SACE non era sorto dal contratto di assicurazione, ma dal pagamento dell’indebito, ed era pertanto soggetto alla prescrizione ordinaria decennale, e non a quella breve di cui all’art. 2952 c.c..
3.2. Il motivo è fondato.
I fatti costitutivi del diritto alla ripetizione dell’indebito oggettivo sono due: che sia stato effettuato un pagamento, e che questo pagamento non fosse dovuto. Non è necessario, invece, l’errore del solvens, che costituisce elemento essenziale della fattispecie di ripetizione dell’indebito soggettivo e latere solventis.
3.2. Il primo dei suddetti requisiti (la nozione di “pagamento”) non ha mai dato luogo a serie difficoltà interpretative: la dottrina pressoché unanime infatti è da tempo concorde nel ritenere che col termine “pagamento” l’art. 2033 c.c., intende far riferimento a qualsiasi prestazione derivante da un vincolo obbligatorio che risulti a posteriori non dovuta. Dello stesso avviso è stata anche questa Corte, che è pervenuta a tale conclusione sia alla luce della disciplina dell’istituto, chiaramente concernente anche cose determinate diverse dal danaro; sia in base alla ratio dell’art. 2033 cod. civ. e segg., diretti ad apprestare un rimedio giuridico
completo per tutte le situazioni in cui un’attribuzione patrimoniale a favore di taluno sia stata eseguita senza una giustificata ragione giuridica (Sez. 3, Sentenza n. 2029 del 02/04/1982). 3.3. Il secondo requisito, e cioè l’essere il pagamento “non dovuto”, ha invece costituito da tempo una fonte interminabile di discussioni dottrinarie, che hanno messo capo a teorie molto difformi tra loro; ne’ i contrasti della dottrina hanno lasciato immune la giurisprudenza.
3.4. Mentre tutti gli autori concordano sull’applicabilità dell’art. 2033 c.c., nei casi in cui tra solvens ed accipiens non sia mai
esistito alcun titolo giuridico giustificativo dell’attribuzione patrimoniale, le opinioni divergono allorché si tratti di stabilire se le norme sulla ripetizione di indebito (ivi comprese quelle sulla prescrizione) trovino applicazione allorché il pagamento sia stato effettuato in base ad un titolo apparente (come nel caso di nullità del contratto), ovvero che sia venuto meno dopo la solutio (come nel caso di annullamento, rescissione o risoluzione), od ancora nel caso di pagamento effettuato contro il titolo (come nel caso del pagamento del debito sottoposto a condizione sospensiva, prima del verificarsi di questa) oppure oltre il titolo (come nel caso di specie, in cui si assume che la prestazione contrattualmente dovuta fosse inferiore a quella effettivamente pagata).
3.5. Una prima e tradizionale opinione interpreta in modo molto ampio l’art. 2033 c.c. e segg., ritenendo che la disciplina ivi prevista si applichi a tutti i casi in cui un pagamento sia eseguito in assenza di titolo giustificativo: a nulla rilevando che tale assenza sia originaria o sopravvenuta, totale o parziale. Questo orientamento propugna dunque la irrilevanza della ragione per la quale il pagamento non sia dovuto, ed in virtù di esso il pagamento di una somma eccedente rispetto a quello contrattualmente dovuta costituisce un indebito oggettivo limitatamente all’eccedenza. Tale conclusione viene solitamente fondata dagli autori che la sostengono sulla lettera della legge (la quale non fa distinzioni circa la ragione della “non spettanza” del pagamento); sulla storia dell’istituto (caratterizzata da un lento ma progressivo processo di accorpamento delle varie ipotesi di azioni di ripetizione previste dal diritto romano ed intermedio, ciascuna dedicata ad una diversa ragione di “non spettanza” del pagamento); e sulla finalità della legge, che è tutelare l’affidamento del terzo incolpevole (come si desume dall’art. 2038 c.c.), finalità che resterebbe frustrata se, in luogo dell’azione di ripetizione dell’indebito, al solvens si concedesse in determinati casi l’azione di nullità o di rivendicazione, le quali travolgono l’acquisto del terzo (ovviamente non vengono in rilievo, ai nostri fini, gli effetti della trascrizione).
3.6. Altri autori, con scelta interpretativa opposta, hanno invece ritenuto che l’art. 2033 c.c., debba essere interpretato restrittivamente, e che esso non possa applicarsi ai casi in cui solvens ed accipiens siano stati “in qualche modo” in rapporto fra loro. Questa opinione, risalente ed oggi pressoché abbandonata, si fonda sull’antica distinzione romanistica tra prestazioni restituende perché non dovute ab origine (recuperabili con la condictio indebiti) e prestazioni non dovute per una causa sopravvenuta (recuperabili con la condictio causa data causa non secuta ovvero con la condictio ob causam finitam).
Quell’antica distinzione, secondo la tesi in esame, si sarebbe perpetuata nel nostro ordinamento, nel quale pertanto l’azione di ripetizione ex art. 2033 c.c., sarebbe invocabile solo nei casi di inesistenza originaria della causa giustificativa dell’attribuzione patrimoniale. La prova di ciò si rinverrebbe nell’art. 1463 c.c., che solo nel caso di risoluzione per impossibilità sopravvenuta assoggetta al regime dell’indebito la ripetizione delle prestazioni eseguite in adempimento del contratto risolto: dal che si desumerebbe che nelle diverse ipotesi di risoluzione per inadempimento od eccessiva onerosità l’azione di ripetizione di indebito non sia applicabile.
3.7. Infine, un terzo orientamento ha adottato una tesi intermedia, ritenendo che l’art. 2033 c.c., si applichi: (a) tra le parti del pagamento sempre e comunque, anche nelle ipotesi di estinzione sopravvenuta della causa giustificativa del pagamento; (b) rispetto ai terzi, solo nel caso in cui la disciplina degli effetti dell’indebito (art. 2038 c.c.) risulti per loro più favorevole rispetto a quella eventualmente concorrente prevista dalle norme in tema di nullità, annullabilità, risoluzione.
3.8. Dalla maggior o minore ampiezza con la quale si volesse intendere il concetto di “non spettanza” del pagamento, per i fini di cui all’art. 2033 c.c., dipende strettamente la soluzione del connesso problema di delimitazione dell’art. 2952 c.c., comma 2, là dove assoggetta alla prescrizione breve biennale i diritti “derivanti dal contratto di assicurazione”.
Quegli autori, infatti, che aderiscono alla tradizionale lettura estensiva dell’art. 2033 c.c., ritengono che l’eccedenza nel pagamento del premio o dell’indennizzo non possano farsi rientrare tra i “diritti derivanti dal contratto”. La quota di premio o di indennizzo non dovuta non è infatti sorretta da un titolo giustificativo, e forma oggetto non di una domanda contrattuale, ma di una condictio indebiti soggetta a prescrizione decennale. Per contro, coloro i quali muovono da una lettura restrittiva dell’art. 2033 c.c., e ritengono che non ci sia coincidenza biunivoca tra i concetti di “pagamento non dovuto” e “pagamento sine titulo”, ritengono che sia soggetta al termine prescrizionale breve ex art. 2952 c.c., anche la domanda di restituzione del premio o
dell’indennizzo pagato in eccedenza, sia pure con motivazioni non omogenee: talora sottolineandosi che l’esigenza di pronta definizione delle controversie tra assicurato ed assicuratore, funzionale al corretto equilibrio finanziario del secondo e giustificativa della prescrizione breve, sussista anche con riferimento alla contesa riguardante la restituzione del premio o dell’indennizzo che si assumono non dovuti; talaltra invece affermandosi che l’azione di ripetizione dell’indennizzo pagato in eccedenza è pur sempre una azione di indebito, ma che in questo caso “deriva dal contratto”, ed è quindi soggetta alla prescrizione breve ex art. 2952 c.c., comma 2.
3.9. I contrasti dottrinari appena riassunti, come accennato, non hanno lasciato del tutto immune la giurisprudenza di legittimità.
3.10. L’orientamento largamente prevalente, pur senza affrontare espressamente il problema qui in esame, ha in molteplici occasioni mostrato di ritenere che la disciplina dell’indebito, e quindi la prescrizione decennale, si applichi in tutti i casi in cui il solvens abbia eseguito la propria prestazione in esecuzione d’un titolo esistente e valido, pagando tuttavia importi eccedenti quelli dovuti per legge o per contratto.
Questo principio è stato affermato:
(a) in tema di ripetizione degli interessi anatocistici pagati dal cliente d’una banca in esecuzione d’una clausola di capitalizzazione nulla (Sez. U, Sentenza n. 24418 del 02/12/2010);
(b) in tema di ripetizione del corrispettivo pagato a titolo di revisione prezzi dal committente all’appaltatore in corso d’opera, ed eccedente quello effettivamente dovuto (Sez. 1, Sentenza n. 1558 del 26/05/1971);
(c) in tema di ripetizione del pagamento in eccesso effettuato dal somministrato al somministrante (Sez. 3, Sentenza n. 16612 del 19/06/2008);
(d) in tema di ripetizione dei contributi previdenziali versati dal lavoratore transitato dall’uno ad altro ente mutualistico (Sez. L, Sentenza n. 2111 del 10/03/1997);
(e) in tema di ripetizione del canone di locazione versato dal conduttore in eccedenza rispetto alla soglia massima fissata (all’epoca) dalla legge (ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 2936 del 14/03/1995), ovvero degli aumenti del canone praticati dal locatore contra legem (Sez. 3, Sentenza n. 1918 del 10/08/1965);
(f) in tema di ripetizione, da parte dell’ente previdenziale, degli assegni familiari versati all’assicurato privo dei requisiti previsti dalla legge per tale beneficio (ex multis, Sez. L, Sentenza n. 1401 del 18/02/1985). Tra le decisioni aderenti a questo consolidato orientamento può infine inscriversi anche Sez. 1, Sentenza n. 889 del 05/04/1966, la quale proprio in un caso di ripetizione di corrispettivo pagato in eccesso in tema di trasporti ferroviari, ha sì applicato il termine di prescrizione breve, ma soltanto perché tale termine era previsto dal R.D. 25 gennaio 1940, n. 9, art. 66 (regolamento ferroviario) sia per le azioni contrattuali, sia per quelle di indebito: dal che si desume a contrario che, in mancanza di tale previsione, la Corte avrebbe pacificamente applicato il termine di prescrizione ordinario alla domanda di ripetizione di corrispettivi pagati in surplus rispetto a quelli dovuti.
3.11. Con l’orientamento appena ricordato si è tuttavia posta in contrasto l’isolata decisione pronunciata da Sez. 3, Sentenza n. 13207 del 28/05/2013, la quale ha ritenuto soggetta al termine di prescrizione breve, ex art. 2951 c.c., e non a quello decennale ordinario, l’azione di ripetizione del corrispettivo versato dal mittente al vettore in eccedenza rispetto a quanto effettivamente dovuto in base al chilometraggio percorso. Tale decisione venne giustificata dalla sentenza in esame col rilievo che “il fondamento della ripetizione dell’indebito consiste (…) nell’assenza di un rapporto giuridico tra le parti, trovando il diritto di ripetere la prestazione ex art. 2033 c.c., la sua giustificazione nell’inesistenza della ragion d’essere del dovere della prestazione, nel difetto, cioè della causa dell’obbligazione di pagare”. 4. Così riassunto il quadro dei contrasti dottrinari e – su scala minore – giurisprudenziali, ritiene questa Corte che l’orientamento preferibile sia quello che interpreta estensivamente l’art. 2033 c.c., e ritiene sussistere il requisito del “pagamento non dovuto” sia nel caso di mancanza originaria del titolo; sia nel caso di mancanza sopravvenuta del titolo; sia nel caso di pagamento eccedente la misura imposta dal titolo.
Depongono in tal senso l’interpretazione storica, quella letterale, quella sistematica.
4.1. Dal punto di vista dell’interpretazione storica, l’art. 2033 vigente cod. civ., costituisce il punto d’approdo di una lenta ma progressiva spinta alla razionalizzazione ed alla omogeneizzazione delle molteplici e disorganiche azioni di ripetizione (condictiones) previste dal diritto romano e da quello intermedio.
Il diritto romano classico, infatti, ammise l’idea che una obbligazione potesse sorgere, oltre che dalla legge o dal negozio, anche dalla violazione del generale dovere morale di restituire le cose che appartengono ad altri, corollario del principio dell’unicuique suum tribuere (lo si ricava dal testo di Ulpiano, che riportando il parere di Sabino e Celso ci informa che id quod ex injusta causa apud aliquem sit, posse condici), tuttavia quell’ordinamento prevedeva varie ipotesi, specifiche e determinate, di condictiones: la condictio rei certae, la condictio furtiva, la condictio causa data causa non secuta, la condictio ob turpem causa, la condictio ob causam finitam. Tra queste, la condictio indebiti era attribuita a chi avesse eseguito una prestazione non dovuta, per tale intendendosi non solo quella compiuta sine titulo, ma anche quella eseguita sulla base di un titolo invalido, ed addirittura quella eseguita in base ad un titolo formalmente valido, ma al quale poteva essere opposta una valida eccezione.
Questa frammentazione di istituti, conservatasi attraverso il diritto intermedio sino alla vigilia dell’età delle codificazioni, influenzò i codici ottocenteschi: quello francese, in primo luogo, e quello italiano del 1865, che del primo mutuò come noto in gran parte sistema e struttura. Il codice civile del 1865 infatti dedicava due gruppi di norme all’indebito: l’art. 1237, il quale sanciva il generale principio dell’obbligo di restituzione del pagamento non dovuto; e gli artt. 1145-1146, i quali esigevano tra i presupposti per promuovere l’azione di ripetizione l’errore del solvens. Nella vigenza di quella disciplina, la dottrina si era avviluppata in una infinità di questioni circa i limiti ed i presupposti dell’azione di ripetizione: vi era infatti chi riteneva che gli artt. 1145-1146 da un lato, e l’art. 1237 dall’altro, disciplinassero due distinte ipotesi di indebito; vi era chi riteneva che i due gruppi di norme disciplinassero il medesimo istituto; e soprattutto di discuteva se l’azione di ripetizione avesse una valenza generale ovvero residuale, sì da potersi invocare solo quando l’ordinamento non prevedesse rimedi ad hoc, quali ad esempio l’azione di rivendicazione della cosa consegnata in esecuzione d’un contratto nullo.
Furono proprio questi contrasti a spingere la dottrina del 19^ e del 20^ secolo ad uno sforzo unificatore delle varie ipotesi previste dal diritto romano e codificate dai compilatori giustinianei, donde derivò l’interpretazione “estensiva” dell’art. 2033 c.c.: così come nel diritto romano tanto la condictio indebiti quanto la condictio causa data causa non secuta avevano una matrice comune nel rispetto del generale principio dell’unicuique suum tribuere, allo stesso modo – si disse – l’istituto della ripetizione di indebito dev’essere inteso come inclusivo di qualsiasi ipotesi di mancanza d’un titolo giustificativo del pagamento: mancanza originaria, mancanza sopravvenuta, mancanza parziale.
Questi voti della dottrina furono raccolti dal legislatore del 1942 il quale, riunendo in un unico capo la disciplina dell’indebito, intese appunto troncare quei contrasti, e fare della ripetizione di indebito un istituto a valenza generale, applicabile in tutte le ipotesi di trasferimenti patrimoniali non sorretti da una giusta causa.
4.2. Dal punto di vista dell’interpretazione letterale, il testo dell’art. 2033 c.c. è di cristallina chiarezza, ed accorda l’azione di ripetizione a chi abbia “eseguito un pagamento non dovuto”. E non può esservi dubbio che il pagamento non dovuto sia quello non sorretto da alcuna obbligazione; quello sorretto da un’obbligazione sorta e poi estinta; quello sorretto da una obbligazione qualitativamente o quantitativamente diversa dalla prestazione seguita.
4.3. Dal punto di vista dell’interpretazione sistematica, infine, l’art. 2033 c.c. costituisce il corollario del generale principio, che permea l’intero campo del diritto delle obbligazioni, secondo cui cum nulla subest causa, constare non potest obligatio. Tale principio si desume – tra gli altri – dall’art. 1174 c.c., ultima parte, artt. 1987 e 1988 c.c., i quali dimostrano che per l’efficacia del vincolo
obbligatorio non basta una dichiarazione unilaterale, e che quando questa è ritenuta sufficiente dalla legge il suo effetto è solo quello di invertire l’onere della prova della iuxta causa obligationis, e non quello di generare una obbligazione senza causa. Se dunque il nostro ordinamento è tendenzialmente ostile a vincoli obbligatori non sorretti da giusta causa, è alla luce di questa fisiologica ostilità che dovrà riguardarsi il requisito della mancanza di causa o titolo giustificativo dell’attribuzione patrimoniale: e dunque tale requisito dovrà ritenersi sussistente non solo quando sia del tutto mancante o sia venuto meno, ma anche quando sia solo parzialmente mancante, come appunto nel caso di pagamento di una somma di denaro in eccesso rispetto alla misura prevista dal contratto.
Infine, sempre dal punto di vista sistematico, non può tacersi che tanto le norme in tema di nullità (art. 1422 c.c.), quanto quelle in tema di risoluzione (art. 1463 c.c.) espressamente rinviano alla disciplina dell’indebito: dal che si desume che quest’ultima ha senz’altro carattere generale, e si applica in tutti i casi di inesistenza originaria o sopravvenuta del titolo giustificativo dell’attribuzione patrimoniale, come appunto avviene nel caso di risoluzione del contratto.
5. Posto dunque che l’azione di ripetizione di importi pagati in eccedenza rispetto a quanto contrattualmente dovuto è soggetta al termine di prescrizione decennale, occorre ora chiedersi se per avventura tale disciplina non sia derogata dall’art. 2952 c.c., comma 2, in tema di assicurazione.
A tale quesito deve darsi risposta negativa.
L’art. 2952 c.c., comma 2, assoggetta alla prescrizione breve biennale i “diritti derivanti dal contratto” diversi da quelli al pagamento del premio.
Il pagamento d’un premio eccessivo o d’un indennizzo eccessivo costituiscono prestazioni, per la parte eccedente il dovuto, non sorrette da una iuxta causa obligationis, ovvero da un valido titolo giustificativo. Pertanto, se un simile pagamento sia eseguito, il diritto soggettivo perfetto alla restituzione dell’eccedenza non deriva dal contratto, ma dall’art. 2033 c.c.: per la semplice ragione che un contratto non può attribuire alle parti diritti ulteriori rispetto a quelli in esso previsti, sicché una prestazione eccedente quella promessa è sine causa per la parte pagata in eccesso. Questa conclusione, affermata dalla Corte di cassazione in modo espresso soltanto in un precedente ormai remoto (Cass. Torino 27.7.1914, in Riv. dir. comm., 1915, 2^, 103), è tuttavia corroborata indirettamente da non poche decisioni.
Il giudice di legittimità, infatti, chiamato a stabilire come dovesse intendersi l’espressione “diritti derivanti dal contratto” di cui all’art. 2952 c.c., comma 2, ha chiarito che tali sono soltanto “quelli che si ricollegano direttamente ed unicamente alla disciplina legale o pattizia del contratto di assicurazione, nel quale, cioè, trovino il loro titolo immediato ed esclusivo” (Sez. 1, Sentenza n. 2669 del 23/06/1977). Non sono tali pertanto i diritti che, sia pure in occasione o in esecuzione del rapporto assicurativo, sorgano o siano fatti valere dall’assicurato o dall’assicuratore sulla base di altro titolo: come ad esempio quelli fatti valere in base ad un giudicato, ad una novazione, ad un indebito.
Il principio ha trovato poi conferma diretta, in tema di assicurazioni sociali, in quella copiosa giurisprudenza che ha qualificato come azione di indebito la domanda di ripetizione dei contributi assicurativi versati in eccedenza dal datore di lavoro (sebbene questi non abbia nell’assicurazione sociale, la qualifica di “assicurato” in senso tecnico: cfr., ex multis, Sez. L, Sentenza n. 11033 del 10/08/2001; Sez. L, Sentenza n. 2023 del 22/02/1995). Deve, pertanto, concludersi nel senso che la domanda di ripetizione dell’indennizzo che l’assicuratore assume pagato in eccedenza rispetto a quanto contrattualmente previsto sia soggetta al termine di prescrizione decennale.
5.1. La sentenza va dunque cassata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Roma, il quale deciderà la controversia in base al seguente principio di diritto:
Va qualificata come ripetizione di indebito ai sensi dell’art. 2033 c.c., qualunque domanda avente ad oggetto la restituzione di somme
pagate sulla base di un titolo inesistente: tanto nel caso di inesistenza originaria, quanto nel caso di inesistenza sopravvenuta, quanto nel caso di inesistenza parziale. Ne consegue che il diritto dell’assicuratore alla restituzione dell’indennizzo che assume avere pagato in eccedenza rispetto al dovuto, in quanto scaturente dall’indebito e non dal contratto di assicurazione, è soggetto non già alla prescrizione breve di cui all’art. 2952 c.c., ma a quella ordinaria decennale.
6. Il ricorso incidentale.
6.1. Il ricorso incidentale proposto dalla (OMISSIS) è inammissibile, per due indipendenti ragioni:
(a) sia perché privo dell’esposizione dei fatti di causa, prescritta dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3 (noto essendo che è il solo controricorso a non necessitare dell’esposizione sommaria dei fatti di causa, mentre quando il controricorso contenga anche un ricorso incidentale, esso deve contenere l’esposizione sommaria dei fatti della causa ai sensi del combinato disposto dell’art. 371 cod. proc. civ., comma 3 e art. 366 cod. proc. civ., comma 1, n. 3: così, ex permultis, Sez. 3, Sentenza n. 76 del 08/01/2010, Rv. 611105);
(b) sia, in ogni caso, perché non concluso dal quesito di diritto, prescritto dall’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis al presente giudizio.
7. Le spese.
Le spese del giudizio di legittimità e dei gradi precedenti di merito saranno liquidate dal giudice del rinvio, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 3.
P.Q.M.
la Corte di Cassazione, visto l’art. 383 c.p.c., comma 1:
-) riunisce i ricorsi;
-) accoglie il ricorso principale;
-) dichiara inammissibile il ricorso incidentale;
-) cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa ad altra sezione della Corte d’appello di Roma;
-) rimette al giudice del rinvio la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità e di quelle dei gradi di merito. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della
Corte di Cassazione, il 6 febbraio 2014.