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Cassazione Civile 8066/2016 – Nullità del contratto per contrarietà a norme imperative – Presupposti  

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Sentenza 8066/2016

Nullità del contratto per contrarietà a norme imperative – Presupposti  

In tema di nullità del contratto per contrarietà a norme imperative, l’area delle norme inderogabili di cui all’art. 1418, comma 1, c.c., ricomprende, oltre le norme relative al contenuto dell’atto, anche quelle che, in assoluto, oppure in presenza o in difetto di determinate condizioni oggettive e soggettive, direttamente o indirettamente, vietano la stipula stessa del contratto ponendo la sua esistenza in contrasto con la norma imperativa. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto la nullità di un accordo transattivo relativo al conferimento dell’incarico di direttore generale della RAI, illecito perché stipulato in violazione dell’incompatibilità di cui all’art.2, comma 9, della l. n. 481 del 1995).

Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza 21 aprile 2016, n. 8066 (CED Cassazione 2016)

 

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

  1. La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 665 del 2011, depositata il 23 marzo 2011, ha rigettato l’impugnazione proposta da (OMISSIS) nei confronti della (OMISSIS) spa, nonchè dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM), in ordine alla sentenza resa, tra le parti, dal Tribunale di Roma in data 24 aprile/8 maggio 2008, n. 7361.
  2. La sentenza della Corte d’Appello premette in fatto che su domanda di (OMISSIS), il Tribunale di Roma aveva emesso due decreti ingiuntivi, rispettivamente n. 4908/2007e n. 4909/2007, con i quali era stato ingiunto alla (OMISSIS) spa, di pagare, rispettivamente, le somme di Euro 46.392,00 e di Euro 137.392,00, in favore dello stesso.

Il titolo posto a fondamento delle domande monitorie era costituito dall’accordo stipulato tra le parti, in forma di scrittura privata, in data 19 giugno 2006. Detta scrittura privata era stata recepita nel verbale di conciliazione sindacale in data 27 giugno 2006.

Nella premessa di tale accordo, parte integrante della conciliazione, si legge tra l’altro, (pag. 38 del ricorso per cassazione del (OMISSIS)) “le parti intendono definire tramite conciliazione in sede sindacale tutti gli aspetti giuridici afferenti all’assunzione, all’espletamento e alla cessazione da parte del dott. (OMISSIS) delle funzioni di direttore generale”.

Con detto accordo, la (OMISSIS) spa, a fronte della rinuncia di (OMISSIS) all’incarico ed alle funzioni di direttore generale della (OMISSIS), si accollava, fra l’altro, il pagamento della sanzione pecuniaria irrogata ad (OMISSIS) con provvedimento dell’AGCOM n. 220/2006, del 27 aprile 2006 (in ragione della violazione della L. n. 481 del 1995, art. 2, comma 9, per il conferimento allo stesso dell’incarico di direttore generale della (OMISSIS)), ed il pagamento delle spese legali sostenute dal (OMISSIS) medesimo sia per la difesa nel procedimento dinanzi alla medesima Autorità, concluso con l’irrogazione della suddetta sanzione, sia davanti al TAR Lazio per l’impugnazione della citata delibera n. 220/2006, che per l’assistenza per la sottoscrizione dell’accordo conciliativo del 19 giugno 2006. Designava il (OMISSIS) ad assumere le funzioni di Presidente del Consiglio di amministrazione della consociata di diritto statunitense (OMISSIS). Si impegnava, in particolare, a riconoscergli, mediante stipulazione di apposita convenzione con (OMISSIS) entro il mese di luglio c.a., un trattamento economico complessivo pari a Euro 750.000,00 annui per la parte fissa e Euro 80.000,00 annui per la parte variabile, rapportata al ruolo di Presidente del Consiglio di amministrazione di (OMISSIS) in relazione agli specifici obiettivi assegnati dal CdA di detta società.

La somma di Euro 137.392,00, di cui al decreto ingiuntivo n. 4909/2007, rappresentava la parte della sanzione pecuniaria nelle more corrisposta dal (OMISSIS) all’AGCOM; la somma di Euro 46.392,00, di cui al decreto ingiuntivo n. 4908/2007, corrispondeva, invece, alle somme in acconto versate dal (OMISSIS) per l’assistenza e difesa legale, sul complessivo importo delle spese legali quantificato in Euro 204.642,00.

La (OMISSIS), con separati ricorsi, poi riuniti, proponeva opposizione avverso i suddetti decreti ingiuntivi e agiva, contestualmente, in via riconvenzionale per chiedere la restituzione delle somme medio tempore corrisposte al (OMISSIS) in attuazione dell’accordo del giugno 2006.

Si costituiva per resistere il (OMISSIS).

Il Tribunale accoglieva l’opposizione e revocava i decreti ingiuntivi sulla base della ritenuta nullità della transazione a suo tempo sottoscritta dalle parti. In accoglimento della domanda riconvenzionale di restituzione degli importi pagati al (OMISSIS) per effetto della transazione, condannava il (OMISSIS) a pagare alla (OMISSIS) la somma di Euro 320.402,99, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria (v. ricorso per cassazione, pag. 7).

  1. La Corte d’Appello rigettava l’impugnazione proposta dal (OMISSIS) avverso la sentenza n. 7361 del 2008 emessa dal Tribunale di Roma.
  2. Per la cassazione della sentenza resa tra le parti dalla Corte d’Appello di Roma, ricorre (OMISSIS) prospettando sette motivi di impugnazione.
  3. Resiste la (OMISSIS) spa, con controricorso.
  4. L’AGCOM è rimasta intimata.
  5. Il ricorrente ha depositato memoria di costituzione di nuovo difensore.
  6. In prossimità dell’udienza pubblica, sia il ricorrente (OMISSIS), sia la resistente (OMISSIS) hanno depositato memorie ex art.378 c.p.c..

MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. Occorre premettere che (OMISSIS), assunto dal 1982 alle dipendenze della (OMISSIS) spa, ha svolto, in aspettativa non retribuita dal febbraio 1998 al marzo 2005, le funzioni di componente dell’ Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Cessato l’incarico, con Delib. Consiglio di amministrazione della (OMISSIS), nel 2005 veniva nominato direttore generale della (OMISSIS) spa.

L’AGCOM ravvisava in detta nomina una violazione della L. n. 481 del 1985, art. 2, comma 9, e, all’esito del procedimento di contestazione, sanzionava sia la (OMISSIS), sia (OMISSIS), ingiungendo alla prima il pagamento della sanzione amministrativa di Euro 14.379.307,00, e al secondo il pagamento di una sanzione amministrativa di Euro 372.923,83.

Le ordinanze ingiunzione venivano impugnate, con distinti ricorsi, dalla (OMISSIS) e dal (OMISSIS) dinanzi al TAR Lazio.

Nelle more del giudizio dinanzi al giudice amministrativo, in data 19 giugno 2006, la (OMISSIS) spa e (OMISSIS) stipulavano un accordo in data 19 giugno 2006, che veniva formalizzato il 27 giugno 2006 anche davanti al collegio di conciliazione.

Detto accordo costituiva oggetto di un’ulteriore atto di contestazione in data 8 gennaio 2007 da parte dell’AGCOM nei confronti del (OMISSIS) e della RAI-Radiotelevisione italiana spa, ravvisandosi nel medesimo un’ulteriore violazione della L. n. 481 del 1995, art. 2, comma 9.

Il TAR Lazio rigettava i ricorsi e tale decisione era confermata dal Consiglio di Stato.

Con Delib. del gennaio 2007 la (OMISSIS) confermava l’inquadramento del (OMISSIS) nella qualifica di caporedattore con una retribuzione parametrata a detta qualifica ed alle equivalenti posizioni aziendali, retribuzione determinata in Euro 250.000 lordi annui.

Il secondo procedimento aperto da AGICOM in relazione all’accordo transattivo veniva chiuso con provvedimento di archiviazione condizionata.

Tanto premesso, in sintesi, in fatto, può passarsi all’esame dei motivi di ricorso.

  1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 115 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

Premette il ricorrente che la Corte d’Appello affermava che il dott. (OMISSIS) aveva pieno diritto a rientrare a lavorare alla (OMISSIS) al termine del mandato di componente dell’AGCOM, in ragione di una lettura costituzionalmente orientata della L. n. 481 del 1995, art. 1, commi 8 e 9. Tuttavia, riteneva che attraverso il conferimento dell’incarico di direttore generale, tra le parti fosse intercorso un nuovo rapporto di lavoro in quanto il suddetto incarico non poteva essere “in alcun modo ricondotto all’ambito del ripristino del precedente rapporto di lavoro dipendente quale giornalista”. Come ulteriormente argomentato in sentenza, non vi sarebbe stata, quindi, continuità con il rapporto di lavoro giornalistico già svolto in ragione, tra l’altro, delle diversità ontologiche non solo delle modalità di accentro ma del tipo di competenze e dei livelli di responsabilità che caratterizzavano l’incarico in questione.

Tanto premesso, assume il ricorrente che la Corte d’Appello ha posto a fondamento della propria decisione delle circostanze in fatto, e delle eccezioni fondate sulle medesime circostanze in fatto, che la (OMISSIS) non ha mai dedotto in giudizio.

Infatti, dalla lettura dei ricorsi della (OMISSIS), introduttivi del giudizio, e dalla documentazione in atti, si poteva rilevare che la (OMISSIS) non aveva eccepito alcunchè in ordine al carattere nuovo del rapporto di lavoro, anzi dava per pacifico che il rapporto di lavoro con il (OMISSIS) fosse proseguito. Pertanto, che l’incarico di direttore generale rientrasse nell’ambito del rapporto di lavoro, doveva ritenersi pacifico tra le parti, in quanto non contestato dalla (OMISSIS). Conseguentemente, la pronuncia della Corte d’Appello sarebbe andata oltre i limiti della domanda, violando l’art. 112 c.p.c., nonchè l’art. 115 c.p.c.. Peraltro, il ricorrente ricorda che il posto di direttore generale è ricoperto spesso da giornalisti (OMISSIS).

  1. Il motivo è in parte inammissibile e in parte non fondato.

L’opposizione a decreto ingiuntivo dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione, in cui il giudice non deve limitarsi a stabilire se l’ingiunzione è stata emessa legittimamente in relazione alle condizioni previste dalla legge per l’emanazione del provvedimento monitorio, ma deve accertare il fondamento della pretesa fatta valere col ricorso per ingiunzione.

Osserva il Collegio che la giurisprudenza di questa Corte ha già avuto modo di affermare (cfr. sentenza n. 6757 del 2011 e n. 11039 del 2006) che anche nel rito del lavoro, trova applicazione il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (imposto dall’art. 112 c.p.c.) cui fa riscontro, nel giudizio d’appello, il principio del tantum devolutum quantum appellatum (artt. 434 e 437 c.p.c.). Pertanto, mentre il giudice di primo grado non può pronunciare ultra petita, il giudizio d’appello ha per oggetto la medesima controversia, decisa dalla sentenza di primo grado, entro i limiti, tuttavia, della devoluzione, quali risultano fissati dai motivi specifici che l’appellante ha l’onere di proporre con l’atto d’appello (ai sensi dell’art. 434 c.p.c.), con la conseguenza che la sentenza di secondo grado non può trattare e decidere una questione, già decisa in primo grado, se – in difetto di specifico motivo d’appello – la questione stessa non risulti, comunque, devoluta al giudice d’appello oppure la decisione relativa risulti, addirittura, coperta dai giudicato sostanziale interno (art. 2909 c.c.).

Il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) come il principio del tantum devolutum quantum appellatum (artt. 434 e 437 c.p.c.) non osta, tuttavia, a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma, rispetto a quella prospettata dalle parti, nonchè in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi ed, in genere, all’applicazione di una norma giuridica, diversa da quella invocata dall’istante, ma implica tuttavia il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene della vita – diverso da quello richiesto (petitum mediato) – oppure di emettere una qualsiasi pronuncia – su domanda nuova, quanto a causa pretendi – che non si fondi, cioè, sui fatti ritualmente dedotti o, comunque, acquisiti al processo – anche se ricostruiti o giuridicamente qualificati dal giudice in modo diverso rispetto alle prospettazioni di parte – ma su elementi di fatto, che non siano, invece, ritualmente acquisiti come oggetto del contraddittorio.

Quindi, la corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che vincola il giudice ex art. 112 c.p.c., riguarda il petitum che va determinato con riferimento a quel che viene domandato sia in via principale, sia in via subordinata, in relazione al bene della vita che l’attore intende conseguire, ed alle eccezioni che in proposito siano state sollevate dal convenuto (Cass. n. 8479 del 2002).

Tale principio va; peraltro, posto in immediata correlazione con il principio iura novit curia, di cui all’art. 113 c.p.c., comma 1, rimanendo pertanto sempre salva la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite nonchè all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al proprio esame, e ponendo a fondamento della propria decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti (Cass., n. 25140 del 2010).

Va, infine, rilevato che, come riaffermato dalla sentenza di questa Corte n. 21775 del 2015, la legittimità della rilevazione di una causa di nullità diversa da quella prospettata dalla parte è stata del pari affrontata e risolta dalle Sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 26242 del 2014, che, operando un radicale revirement rispetto al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (che ne predicava l’inammissibilità), ha stabilito che la domanda di nullità risulta pur sempre unica rispetto ai diversi, possibili vizi di radicale invalidità che affliggono il negozio. La rilevazione ex officio di un diverso vizio di nullità negoziale (o, come nella specie, plurinegoziale) non contrasta, pertanto, nè con l’originario petitum (costituito da una domanda di declaratoria di nullità negoziale) nè con la causa petendi (i.e. il negozio ovvero il collegamento negoziale di cui si assume la nullità).

Al giudice cui sia stata proposta la domanda di nullità viene pertanto riconosciuto, secondo il più recente insegnamento delle Sezioni unite, il potere-dovere di accertare tutte le possibili ragioni di nullità, non soltanto quella indicata dall’attore, anche in ragione della rado sottesa alla fattispecie invalidante (e, a più forte ragione, quella indicata, anche intempestivamente, dalla parte nel precedente grado di giudizio), salva attivazione del contraddittorio sul punto.

La sentenza impugnata non si discosta dai principi di diritto enunciati. Ed infatti, sia le domande monitorie del (OMISSIS), che la domanda riconvenzionale della (OMISSIS), nonchè i motivi di appello, come si evince, oltre che dalla sentenza di appello, dalle difese prospettate proprie nel ricorso e nel controricorso, nonchè nelle memorie, vertevano sulla nullità o meno dell’accordo transattivo proprio in relazione alla violazione della L. n. 481 del 1995, art. 2, comma 9, ravvisata dall’AGCOM nel conferimento dell’incarico di direttore generale della (OMISSIS) al (OMISSIS) al termine dello svolgimento delle funzioni di componente dell’Autorità medesima.

4- Il ricorrente non ha specificamente contestato la ricostruzione in fatto della sentenza della Corte d’Appello, nè ha riprodotto, ai fini del rispetto del principio di autosufficienza, nonchè della decisività del motivo di ricorso, i compiuti passi degli atti processuali che richiama e su cui fonda la suddetta generica censura, limitandosi a sostenere le proprie argomentazioni inframmezzando e inserendo nelle deduzioni difensive passi di documenti versati in atti (in sè non dirimenti, quali: “rapporto di lavoro subordinato giornalistico tra lei e noi intercorrente dal 23 marzo 1982” pag. 15 del ricorso), di cui, estrapolandoli dal compiuto contesto in cui si inseriscono, offre una propria lettura.

Il suddetto thema decidendum, relativo alla nullità o meno dell’accordo transattivo, in relazione all’attribuzione dell’incarico di direttore generale in violazione della L. n. 481 del 1995, art. 2, comma 9, già oggetto del giudizio, era, quindi, devoluto, attraverso i motivi di appello, alla Corte d’Appello di Roma, e sullo stesso si era formato il contraddittorio. Pertanto il giudice di secondo grado decideva la controversia nel rispetto delle disposizioni processuali e dei principi giurisprudenziali sopra richiamati.

Come si rileva dallo stesso ricorso del (OMISSIS) (pag. 6 sg.), la (OMISSIS) spa, non dava esecuzione all’accordo transattivo che era intercorso tra le parti che prevedeva, tra l’altro, il pagamento da parte della società della sanzione pecuniaria irrogata al (OMISSIS) dall’AGCOM e delle spese legali connesse allo stesso per effetto dell’ulteriore contestazione dell’AGCOM, relativa all’accordo, le cui pattuizioni avrebbero potuto costituire una nuova situazione di incompatibilità ai sensi della L. n. 481 del 1995, art. 2, comma 9, in ragione, tra l’altro, del fatto che l’originario contratto con il quale il dott. (OMISSIS) era stato preposto alla Direzione generale della (OMISSIS) era verosimilmente in contrasto con una norma imperativa, e, comunque, nullo quanto meno per l’incapacità speciale gravante sull’ex componente dell’Autorità.

I decreti ingiuntivi venivano azionati per ottenere l’adempimento delle suddette prestazioni previste nella transazione.

La (OMISSIS) proponeva opposizione nonchè domanda riconvenzionale per la restituzione di quanto già corrisposto al (OMISSIS) a valere dell’accordo transattivo, con cui contestava, tra l’altro, l’accordo transattivo.

Come riportato nella sentenza di appello (pag. 2) “Con atto di appello, tempestivamente proposto, (OMISSIS), aveva censurato la decisione deducendo:” (…) “b) che il primo giudice aveva errato nel ritenere che dal divieto inderogabile stabilito dall’art. 2, comma 9 L. cit. scaturisse la indisponibilità dei diritti oggetto dell’accordo transattivo del giugno 2006, e in conseguenza la nullità dello stesso ai sensi dell’art. 1966 c.c.. Ha dedotto che la portata precettiva del divieto stabilito dall’art. 2, comma 9, cit., si esaurisce nel solo profilo sanzionatorio, di talchè il rapporto tra l’ex Commissario dell’Autorità garante e l’azienda soggetta alla vigilanza della medesima “nonostante la situazione di incompatibilità potrebbe benissimo proseguire, ferma restando l’eventuale applicazione delle sanzioni previste (v. ricorso in appello, pag. 24)” (…).

Tale deduzione del ricorrente in appello, non è contestata con l’odierno motivo di ricorso e la stessa, in uno alle altre circostanze sopra richiamate, di cui all’odierno ricorso e al controricorso (OMISSIS), pongono in luce come la Corte d’Appello non ha violali) gli artt. 112 e art. 115 c.p.c., in ragione dei principi della giurisprudenza di legittimità sopra enunciati.

In proposito, si ricorda, altresì, che il giudice del merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla propria cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante (Cass., 21087 del 2015). Ai fini dell’interpretazione delle domande giudiziali non sono utilizzabili le norme sull’interpretazione del contratto, in quanto, rispetto alle attività giudiziali, non si pone una questione di individuazione della comune intenzione delle parti e la stessa soggettiva intenzione della parte rileva solo nei limiti in cui sia stata esplicitata in modo tale da consentire alla controparte di cogliere l’effettivo contenuto dell’atto e di poter svolgere un’adeguata difesa (Cass., n. 25853 del 2014).

Infine, va osservato che la dedotta possibilità che un giornalista della (OMISSIS) venga nominato direttore generale, non ha carattere decisivo rispetto alla questione della incompatibilità come delineata dalla L. n. 481 del 1985, art. 2, comma 9 cit..

  1. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione dellaL. n. 481 del 1995, art. 2, comma 9, in connessione con gli artt. 1230, 1362 e 2103 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

Il ricorrente censura la statuizione che esclude che l’incarico di direttore generale poteva essere ricondotto al precedente rapporto di lavoro dipendente quale giornalista, non potendo presentare alcuna continuità con quest’ultimo.

Deduce il (OMISSIS) che le parti non avevano voluto dare luogo ad un nuovo rapporto di lavoro, atteso che il conferimento dell’incarico delle funzioni di direttore generale si sarebbe dovuto inscrivere nel preesistente “rapporto di lavoro subordinato giornalistico tra lei e noi intercorrente fin dal 23 marzo 1982” (sono richiamate le lettere (OMISSIS) del 25 agosto e 24 ottobre 2005). Sarebbe, quindi, mancato l’intento novativo atteso che, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, Cass., n. 5797 del 2007, perchè si abbia novazione del rapporto di lavoro è indispensabile che le parti concordino nell’imprimere al rapporto medesimo concreti e qualificanti aspetti di diversità, fondati su situazioni ed esigenze aziendali radicalmente nuove che ne comportino la modificazione sostanziale.

Quindi, sarebbe stato violato l’art. 1362 c.c. che impone, nell’interpretazione dei contratti, di indagare sulla volontà delle parti. Nè la modifica delle mansioni avrebbe dato luogo alla novazione del contratto, modifica che può operare solo in melius.

Nè poteva condividersi la distinzione ontologica tra mansioni giornalistiche e mansioni manageriali operata dalla Corte d’Appello, tenuto conto che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di un rapporto di lavoro subordinato che di un rapporto di lavoro autonomo, non essendo intervenuta nella specie una modifica radicale dei termini del rapporto di lavoro

Sussisterebbe, quindi la violazione degli artt. 1230 e 2103, in ragione della ritenuta sussistenza di novazione del rapporto di lavoro, nonchè dell’art. 1362 c.c., atteso che la novazione veniva ritenuta sussistere senza tener conto della reale comune volontà e dei comportamenti complessivi dei contraenti.

  1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.

A norma dell’art. 1230 cod. civ., l’obbligazione si estingue quando le parti sostituiscono alla obbligazione originaria una nuova obbligazione con oggetto o titolo diverso.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte (ex multis, Cass., n. 23528 del 2006, n. 5665 del 2010, n. 17328 del 2012), la novazione oggettiva si configura come un contratto estintivo e costitutivo di obbligazioni, caratterizzato dalla volontà di far sorgere un nuovo rapporto obbligatorio in sostituzione di quello precedente con nuove ed autonome situazioni giuridiche; di tale contratto sono elementi essenziali, oltre ai soggetti e alla causa, l’animus novandi, consistente nella inequivoca, comune intenzione di entrambe le parti di estinguere l’originaria obbligazione, sostituendola con una nuova, e l’aliquid novi, inteso come mutamento sostanziale o dell’oggetto della prestazione o del titolo del rapporto, dovendosi escludere che la semplice regolazione pattizia delle modalità di svolgimento della preesistente prestazione produca novazione. L’esistenza di tali specifici elementi deve essere in concreto verificata dal giudice del merito.

Nella specie, la Corte d’Appello non ha affermato la novazione del rapporto di lavoro subordinato di giornalista in quello di direttore generale, ma ha statuito che non era possibile ravvisare nel contratto di nomina a direttore generale, una modalità di ripristino, con conferimento di diverse mansioni, dell’originario rapporto di lavoro giornalistico. Ciò in ragione della diversità che investe non solo le condizioni di accesso (specifica Delib. Consiglio di amministrazione della (OMISSIS)), ma il tipo di competenze (di carattere spiccatamente manageriale), il bagaglio professionale, i livelli di responsabilità, gli ambiti di autonomia, i diversi possibili percorsi di carriera (nel senso che la nomina a direttore generale non costituisce una progressione o un’evoluzione naturale della carriera di giornalista).

Pertanto, la Corte d’Appello configurava, nella specie, la nomina a direttore generale, come conferimento ex novo di un vero e proprio incarico professionale, autonomo e privo di collegamento con il preesistente rapporto di lavoro, senza affermare la intervenuta novazione del rapporto di lavoro subordinato, ma anzi escludendo con corretta motivazione la riconducibilità dello stesso al preesistente rapporto di lavoro subordinato.

Nè, proprio in ragione di detta statuizione, assume rilievo il richiamo effettuato dal ricorrente al CCNL per i dirigenti del settore industria (art. 26).

  1. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dellaL. n. 481 del 1995, art. 2, comma 9, in connessione con gli artt. 1418 e 1972 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

La Corte d’Appello, sulla base della pretesa violazione della L. n. 481 del 1995, art. 2, comma 9, ha ritenuto che l’accordo del giugno 2006 sottoscritto dal (OMISSIS) e dalla (OMISSIS), pur non avendo ad oggetto diritti indisponibili ex art. 1996 c.c., era nullo ex art. 1972 c.c., in quanto relativo ad un contratto illecito, tale essendo il contratto avente ad oggetto il conferimento al (OMISSIS) dell’incarico di direttore generale della (OMISSIS), posto in essere in violazione del divieto di cui alla L. n. 418 del 1995, art. 2, comma 9.

L’incarico di direttore generale al (OMISSIS) sarebbe stato da considerare nullo ex art. 1418 c.c. per illiceità della causa e/o dell’oggetto, non potendosi circoscrivere la portata precettiva del suddetto divieto di cui alla L. n. 481 del 1995, art. 2 al solo profilo sanzionatorio, interessante l’ambito pubblicistico.

Assume il ricorrente che l’accordo del 24 ottobre 2005 (conferimento incarico di direttore generale) non potrebbe essere ritenuto un contratto illecito, atteso che lo stesso riguardava la legittima e lecita variazione delle condizioni contrattuali (mansioni e retribuzione) di un rapporto di lavoro subordinato. Non era illecito l’oggetto, nè l’illiceità poteva discendere dal contrasto con la L. n. 481 del 1995, art. 2, comma 9, ritenuta dal giudice di secondo grado, erroneamente, norma imperativa.

Detta norma, a proprio avviso, non aveva tale carattere, poichè posta a sostegno di interessi settoriali e non generali.

In ogni caso, dal tenore dell’art. 1418 c.c., si rilevava che la sanzione per la contrarietà a norma imperativa poteva essere anche diversa dalla nullità (si richiama, ad es. la fattispecie della vendita del fondo agrario in violazione della L. n. 590 del 1965). La disposizione della L. n. 481 del 1995 che qui viene in rilievo non sancisce la nullità ma una sanzione pecuniaria, salvo che il fatto non costituisca reato. Ciò troverebbe conferma nella giurisprudenza di legittimità sulle conseguenze sui contratti di lavoro di varie situazioni di incompatibilità, come nel caso del dipendente pubblico (comunale) licenziato per avere assunto incarichi incompatibili con il lavoro alle dipendenze delle PA, con la conseguenza tuttavia della mancanza di nullità dei contratti stipulati tra privati in relazione ai suddetti incarichi.

Nè potrebbe trovare applicazione l’art. 1972 c.c., comma 2, con riferimento alla transazione del giugno 2006, atteso che la (OMISSIS) non poteva sostenere di non essere a conoscenza della pretesa nullità del contratto.

La validità della transazione permarrebbe anche laddove dovesse ritenersi illecita la nomina del (OMISSIS) alla direzione generale della (OMISSIS), in quanto l’accordo transattivo aveva ad oggetto solo le conseguenze restitutorie e risarcitorie che da quel contratto erano scaturite.

  1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.

Occorre ricordare che la L. n. 481 del 1995, art. 2, comma 9, nel testo vigente ratione temporis, precedente alle modifiche apportate dal Decreto Legge 24 giugno 2014, n. 90, come convertito dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, prevede, tra l’altro, che per almeno quattro anni dalla cessazione dell’incarico i componenti delle Autorità non possono intrattenere, direttamente o indirettamente, rapporti di collaborazione, di consulenza o di impiego con le imprese operanti nel settore di competenza; la violazione di tale divieto è punita, salvo che il fatto costituisca reato, con una sanzione pecuniaria pari, nel minimo, alla maggiore somma tra 50 milioni di Lire e l’importo del corrispettivo percepito e, nel massimo, alla maggiore somma tra 500 milioni di Lire e l’importo del corrispettivo percepito. All’imprenditore che abbia violato tale divieto si applica la sanzione amministrativa pecuniaria pari allo 0,5 per cento del fatturato e, comunque, non inferiore a 300 milioni di Lire e non superiore a 200 miliardi di Lire, e, nei casi più gravi o quando il comportamento illecito sia stato reiterato, la revoca dell’atto concessivo o autorizzativo.

Va, altresì, premesso che con l’ordinanza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 27092 del 2009, nel ritenere la giurisdizione della Corte dei Conti, si è statuito che spetta alla Corte dei conti la giurisdizione in tema di risarcimento del danno cagionato alla (OMISSIS) spa, da componenti del consiglio d’amministrazione e da dipendenti di tale società e degli enti pubblici azionisti, in relazione alla nomina del direttore generale e al trattamento economico dello stesso e degli ex direttori generali; la (OMISSIS), infatti, nonostante la veste di società per azioni (peraltro partecipata totalitariamente da enti pubblici), ha natura sostanziale di ente pubblico, con uno statuto assoggettato a regole legali, per cui essa è designata direttamente dalla legge quale concessionaria dell’essenziale servizio pubblico radiotelevisivo; sottoposta a penetranti poteri di vigilanza da parte di un’apposita commissione parlamentare; destinataria di un canone d’abbonamento avente natura di imposta; compresa tra gli enti sottoposti al controllo della Corte dei Conti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria; tenuta all’osservanza delle procedure di evidenza pubblica nell’affidamento degli appalti; nè l’esperibilità dell’azione di responsabilità amministrativa è ostacolata dalla possibilità di promuovere l’ordinaria azione civilistica di responsabilità, poichè la giurisdizione civile e quella contabile sono reciprocamente indipendenti nei loro profili istituzionali, sicchè il rapporto tra le due azioni si pone in termini di alternatività anzichè di esclusività, dando luogo a questioni non di giurisdizione ma di proponibilità della domanda.

Nella medesima ordinanza, si è affermato, nel confutare che nella (OMISSIS) sarebbero presenti “due anime”, corrispondi ai distinti settori in cui essa agisce (il servizio pubblico espletato in concessione, finanziato esclusivamente mediante il canone di abbonamento; l’attività imprenditoriale svolta nel libero mercato radiotelevisivo, finanziata esclusivamente mediante gli introiti pubblicitari), che il direttore generale della (OMISSIS), “è preposto alla complessiva sua gestione, organizzazione e funzionamento, con competenze che si estendono a tutto il campo di operatività della società, senza alcuna esclusione per l’esercizio del servizio pubblico generale radiotelevisivo”.

Correttamente, la Corte d’Appello ha ritenuto nullo l’accordo transattivo, ai sensi dell’art. 1972 c.c., in ragione dell’illiceità del conferimento dell’incarico di direttore generale ai (OMISSIS) effettuato in violazione di una norma imperativa quale la L. n. 481 del 1995, art. 2, comma 9, tale dovendosi qualificare quest’ultima in ragione degli interessi generali tutelati.

Trova applicazione nella specie l’art. 1972 c.c., comma 1, che stabilisce: “È nulla la transazione relativa a un contratto illecito, ancorchè le parti abbiano trattato della nullità di questo”, in relazione all’art. 1418 c.c., comma 1, che prevede “Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative salvo che la legge disponga diversamente”.

Come le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato Cass., S.U. n. 26724 del 2007 (cui adde, Cass., n. 8462 del 2014), l’area delle norme inderogabili, la cui violazione può determinare la nullità del contratto in conformità al disposto dell’art. 1418 c.c., comma 1, è in effetti più ampia di quanto parrebbe a prima vista suggerire il riferimento al solo contenuto del contratto medesimo. Vi sono ricomprese sicuramente anche le norme che, in assoluto, oppure in presenza o in difetto di determinate condizioni oggettive o soggettive, direttamente o indirettamente, vietano la stipulazione stessa del contratto: come è il caso dei contratti conclusi in assenza di una particolare autorizzazione al riguardo richiesta dalle legge, o in mancanza dell’iscrizione di uno dei contraenti in albi o registri cui la legge eventualmente condiziona la loro legittimazione a stipulare quel genere di contratto, e simili. Se il legislatore vieta, in determinate circostanze, di stipulare il contratto e, nondimeno, il contratto viene stipulato, è la sua stessa esistenza a porsi in contrasto con la norma imperativa; e non par dubbio che ne discenda la nullità dell’atto per ragioni – se così può dirsi – ancor più radicali di quelle dipendenti dalla contrarietà a norma imperativa del contenuto dell’atto medesimo.

L’accordo transattivo in questione, intercorso tra la (OMISSIS) e il (OMISSIS), nel disporre delle pattuizioni oggetto del contratto di conferimento dell’incarico di direttore generale, che costituiva, proprio per il contrasto con la L. n. 481 del 1995, art. 2, comma 9, oggetto dei provvedimenti AGCOM, la cui impugnazione è stata rigettata dal giudice amministrativo, incorre nella previsione del citato art. 1972 c.c., comma 1, che la disciplina posta a fondamento delle misure AGCOM, costituisce disposizione imperativa, inderogabile dai singoli in quanto diretta a soddisfare interessi generali (cfr. Cass., n. 17765 del 2012).

Nel dettare i principi generali che devono ispirare la normativa relativa alle diverse Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità, atteso che dette Autorità operano in piena autonomia, con indipendenza di giudizio e di valutazione, venendo preposte alla regolazione e al controllo del settore di propria competenza (L. n. 481 del 1995, art. 2, comma 5), il legislatore ha stabilito che, cessato l’incarico, il componente non può intrattenere direttamente o indirettamente rapporti di collaborazione, di consulenza o di impiego con le imprese operanti nel settore di competenza (art. 2, comma 9 L. cit.).

Tale divieto, di carattere oggettivo, si sostanzia in una incompatibilità successiva, che si affianca e rafforza le incompatibilità che scattano nella costanza dell’incarico, a garanzia anch’essa dell’indipendenza dei singoli componenti, ed è funzionale, altresì, a garantire, nello svolgimento del mandato di componente delle suddette Autorità, il buon andamento e l’imparzialità dell’Amministrazione (art. 3 Cost. e art. 97 Cost., comma 2), posti a presidio del generale interesse al corretto esercizio dell’azione pubblica – che possono concorrere con altri valori costituzionalmente garantiti in ragione dei diversi settori di competenza.

Le specifiche sanzioni amministrative pecuniarie previste non escludono che possa trovare applicazione la distinta disciplina del negozio giuridico nel vagliare gli atti negoziali posti in essere in violazione della suddetta norma imperativa.

  1. Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1965 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

Espone il ricorrente che la Corte d’Appello ha erroneamente ritenuto che la transazione era priva di causa per carenza della res litigiosa da comporre tra le parti, e che, comunque, sarebbero mancate le reciproche concessioni tra le parti.

Ed infatti, le parti avevano inteso prevenire la lite che sarebbe insorta in merito alle condizioni del rapporto di lavoro del dott. (OMISSIS) alla luce dei provvedimenti sanzionatori dell’AGCOM, posto che i suddetti provvedimenti non potevano incidere direttamente sul rapporto di lavoro, non avendo l’Autorità un simile potere. Ciò, in quanto le sanzioni dell’AGCOM non impingevano i profili relativi al rapporto di lavoro.

Il ricorrente prospetta che i diritti di cui le parti hanno disposto nella transazione in questione erano diritti pienamente disponibili, essendo relativi alle mansioni e, più in generale, al contenuto del rapporto di lavoro.

Censura, quindi la statuizione con la quale la Corte d’Appello ha affermato che il negozio transattivo sarebbe stato finalizzato alla elusione di un precetto imperativo, ravvisandosi in ciò un vizio di ultrapetizione.

  1. Al rigetto del terzo motivo di ricorso relativo alla statuizione di nullità della transazione per illiceità del contratto di conferimento dell’incarico di direttore generale, consegue l’inammissibilità del quarto motivo che censura l’ulteriore ratio decidendi di nullità dell’accordo transattivo per mancanza di causa propria.

Ed, infatti, come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass., n. 12372 del 2006, n. 2108 del 2012), in tema di ricorso per cassazione, qualora la decisione impugnata si fondi su una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, e singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle “rationes decidendi” rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa.

  1. Con il quinto motivo di ricorso è prospettata la violazione e falsa applicazione artt. 2697 e 2702 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

Il ricorrente censura la statuizione della Corte d’Appello che, oltre a revocare i decreti ingiuntivi, accoglieva la domanda riconvenzionale della (OMISSIS) condannando il (OMISSIS) a corrispondere alla società la somma di Euro 320.402,99, in ragione della nullità dell’accordo transattivo.

Secondo la Corte d’Appello, il diritto alla restituzione di detta somma da parte della (OMISSIS) conseguirebbe alla mancanza di una causa adquirendi, vertendosi in ipotesi di ripetizione di indebito oggettivo. Nè sarebbe applicabile l’art. 2103 c.c.. La Corte d’Appello, assume il (OMISSIS), sembra aver accolto il rilievo della (OMISSIS) secondo il quale esso ricorrente non avrebbe mai svolto un’attività tale da giustificare la retribuzione prevista nel verbale di conciliazione, ed effettivamente corrisposta ad esso ricorrente dal 19 giugno al 31 dicembre 2006.

Il ricorrente, premesso che alla validità e alla legittimità dell’accordo transattivo sarebbe conseguita la riforma della sentenza d’appello sul punto, osserva che le argomentazioni della Corte d’Appello sarebbero errate in ragione del contenuto della transazione, dal quale si evinceva che la (OMISSIS) aveva inteso riconoscere al (OMISSIS) un determinato trattamento economico retributivo senza peraltro collegarlo esclusivamente allo svolgimento dell’incarico di Presidente di (OMISSIS) che gli sarebbe stato conferito.

Ciò trovava conferma anche in altra documentazione allegata agli atti (lettera 9 novembre 2006 di cui si riporta uno stralcio e il cui contenuto è uguale a quello riportato in sentenza in relazione a lettera dell’11 novembre 2006), con natura confessoria.

  1. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.

Le censure del ricorrente non incidono la corretta motivazione della Corte d’Appello che ha ravvisato nella fattispecie la sussistenza di un indebito oggettivo, oggetto di ripetizione, con conseguente inapplicabilità dell’art. 2103 c.c..

Come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass., n. 11973 del 1995, n. 4268 del 1995) il pagamento effettuato in base a contratto nullo per contrarietà a norme imperative configura un’ipotesi di indebito oggettivo cui consegue per il disposto dell’art. 2033 cod. civ. la ripetibilità di quanto sia stato pagato.

Ed infatti, come confermato dalla successiva giurisprudenza di legittimità, sussiste indebito oggettivo tutte le volte in cui manchi la causa della prestazione e “accipiens” non abbia titolo per riceverla: tanto accade nei casi di nullità del contratto, ove l’azione “de qua” diventa esperibile per la restituzione delle prestazioni rese in base ad esso, ma anche nei casi di nullità di specifiche clausole contrattuali e per la restituzione delle corrispondenti prestazioni e controprestazioni da tali clausole originate (Cass., n. 21096 del 2005, n. 9052 del 2010, n. 2956 del 2011).

La Corte d’Appello, peraltro, ha vagliato la documentazione allegata dal ricorrente con accertamento di fatto adeguatamente motivato e in quanto tale non sindacabile in sede di legittimità.

Il giudice di secondo grado nel richiamare il contenuto della lettera in data 11 novembre 2006 (indicata come 9 novembre nel ricorso), di cui escludeva la natura confessoria, con la quale il direttore generale della (OMISSIS) dava atto della apprezzata collaborazione prestata alla direzione generale nella esigenza di aumentare il tasso di contenuto informativo e di approfondimento culturale nella programmazione destinata all’estero e nella individuazione dei problemi da affrontare e invitava il (OMISSIS) a proseguire nell’attività consultiva e preistruttoria, in particolare rilevava il carattere generico ed inadeguato dello stesso a dare contezza, in relazione all’intero periodo in contestazione, dell’effettiva entità dell’impegno profuso dal (OMISSIS) e se esso abbia assunto per continuità ed intensità i caratteri di una vera e propria controprestazione lavorativa. Ravvisava, quindi, la mancanza di adeguata prova in ordine all’eventuale attività lavorativa espletata nel periodo in questione. Riteneva in proposito insufficiente la prova orale chiesta sul punto, riguardando la stessa, proprio la lettera.

La congruità di tale statuizione, rende prive di decisività le censure relative alla sussistenza del potere del direttore generale di impegnare l’Azienda con la suddetta lettera, mentre la censura relativa alla mancata ammissione della prova per testi, si palesa inammissibile in quanto del tutto generica.

  1. Con il sesto motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 2126 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

Assume il ricorrente che nella fattispecie in esame sarebbe pienamente applicabile l’art. 2103 c.c., nonchè l’art. 2126 c.c., non sussistendo illiceità e atteso il carattere retributivo delle somme – giugno dicembre 2006 – in questione.

  1. Il motivo non è fondato in ragione delle argomentazioni già poste alla base del rigetto e della inammissibilità dei precedenti motivi di ricorso, in particolare con riguardo alla ritenuta sussistenza di indebito oggettivo.

Va osservato, che la Corte d’Appello, correttamente, oltre a ritenere non compatibile l’indebito oggettivo con la previsione dell’art. 2103 c.c., ha affermato, in relazione alla non applicabilità dell’art. 2126 c.c., peraltro con valutazione di fatto adeguatamente motivata e che si sottrae a censura in sede di legittimità, che il contratto transattivo non contemplava, in relazione al periodo cd. transitorio, lo svolgimento di alcuna specifica attività da parte del (OMISSIS), per cui le somme erogate dalla (OMISSIS), in assenza di prestazione lavorativa corrispettiva, non costituivano retribuzione.

  1. Con il settimo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).

Il ricorrente deduceva che la domanda di restituzione era stata effettuata dalla (OMISSIS), oltre che per le spese legali, con riguardo all’eccedenza rispetto alla retribuzione di 250.000,00 Euro lordi annui, così stabilita, tuttavia, in modo unilaterale e del tutto arbitrario dalla (OMISSIS) medesima, non derivando la stessa dal contratto di lavoro, nè da accordi intercorsi dalle parti. La domanda di restituzione della (OMISSIS), quindi, non poteva essere accolta in quanto fondata su una determinazione della retribuzione annua del (OMISSIS) effettuata dalla (OMISSIS) in modo arbitrario e unilaterale. Assume di aver sin dal giudizio di primo grado contestato tale circostanza, riportando uno stralcio delle memorie di costituzione nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo.

Analogamente, quanto alle spese legali, le stesse erano state corrisposte direttamente ai legali e non ad esso (OMISSIS), che era rimasto estraneo alla determinazione di tali compensi.

  1. Il motivo è in parte inammissibile e in parte non fondato. Ed infatti, proprio dalla lettura degli stralci delle suddette memorie, si rileva che, con le stesse, il (OMISSIS) contestava che dal dicembre 2006, in ragione di Delib. gennaio 2007, la retribuzione veniva riparametrata nella misura di Euro 250.000,00, annui lordi, rispetto a quanto stabilito nell’accordo transattivo, ma non contestava che detta somma di Euro 250.000,00 non fosse quella prevista per la qualifica di capo redattore che gli veniva confermata.

Le doglianze riguardavano la unilaterale riduzione da parte della (OMISSIS) della retribuzione, in violazione degli accordi di cui al verbale di conciliazione, ma non la corrispondenza di detta retribuzione annua lorda, come riparametrata, a quella per le funzioni di capo-redattore.

Quanto alle spese legali, la deduzione è generica, non essendovi richiami a precedenti atti difensivi in cui sarebbe stata introdotta in modo circostanziato tale doglianza.

Pertanto, correttamente la Corte d’Appello riteneva la tardività del gravame relativamente alla determinazione del quantum richiesto dalla (OMISSIS) in via riconvenzionale.

  1. Il ricorso deve essere rigettato.
  2. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio nei confronti della (OMISSIS) spa che liquida in Euro cento per esborsi, Euro undicimila per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15 per cento e accessori di legge. Nulla spese per l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 16 dicembre 2015