Roma, Via Valadier 44 (00193)
o6.6878241
avv.fabiocirulli@libero.it

Cassazione Civile 8092/2016 – Fallimento – Termine annuale entro il quale l’imprenditore individuale che abbia cessato la sua attività può essere dichiarato fallito

Richiedi un preventivo

Sentenza 8092/2016

Fallimento – Termine annuale entro il quale l’imprenditore individuale che abbia cessato la sua attività può essere dichiarato fallito

Il termine di un anno, entro il quale l’imprenditore individuale che abbia cessato la sua attività può essere dichiarato fallito ai sensi dell’art. 10 l.fall. (nel testo modificato dal d.lgs. n. 5 del 2006 e dal d.lgs. n. 169 del 2007), decorre dalla cancellazione dal registro delle imprese, senza possibilità per l’imprenditore medesimo di dimostrare il momento anteriore dell’effettiva cessazione dell’attività.

Cassazione Civile, Sezione 1, Sentenza 21 aprile 2016, n. 8092  (CED Cassazione 2016)

 

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 15 settembre 2010, la Corte d’appello di Napoli ha respinto il reclamo proposto da (OMISSIS) avverso la sentenza del Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi del 7 aprile 2010, la quale ne aveva dichiarato il fallimento.

La corte territoriale ha ritenuto, per quanto ancora rileva, infondato il motivo di nullità della sentenza di primo grado, in cui veniva dedotta la mancanza assoluta di motivazione, essendo la stessa strettamente collegata al decreto della Corte d’appello il quale, a seguito di gravame L. Fall., ex art. 22, avverso la precedente sentenza del tribunale, aveva rimesso gli atti ad esso per la pronuncia del fallimento: onde le motivazioni fondanti tale pronuncia erano da ritenere già contenute nel decreto della corte territoriale.

Ha, inoltre, ritenuto esatta l’indicazione del soggetto dichiarato fallito, senza alcuna confusione tra le due imprese cui aveva dato avvio (OMISSIS), trattandosi della prima delle due, posto che l’insolvenza fa capo all’impresa individuale a cui si riferisce il credito vantato dalla (OMISSIS) s.p.a.; tale impresa non è mai stata cancellata dal registro imprese, ma si era trattato di una mera trasformazione, onde il termine di cui alla L. Fall., art. 10, non è mai iniziato a decorrere.

Infine, ha reputato provato lo stato di insolvenza, secondo le ragioni già evidenziate dalla medesima Corte d’appello nel proprio decreto L. Fall., ex art. 22, ed inammissibili le richieste istruttorie.

Avverso questa sentenza viene proposto ricorso, sulla base di otto motivi.

Resistono con distinti controricorsi la curatela e la suddetta creditrice.

MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. – La ricorrente propone avverso la sentenza impugnata otto motivi di ricorso, che possono essere come di seguito riassunti:

1) violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 16, art. 132 c.p.c., comma 2 e art. 111 Cost., comma 4, ed omessa pronuncia su un motivo di gravame, per non avere la corte territoriale ritenuto la mancanza assoluta di motivazione della sentenza del tribunale dichiarativa del fallimento, posto che la L. Fall., art. 22, attribuisce valore solo processuale al decreto di accoglimento del reclamo;

2) omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione al riguardo;

3) violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 2 e art. 10, commi 1 e 2, artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 2697, 2699, 2700, 2727 e 2728 c.c., nonchè omessa pronuncia sulla censura di non fallibilità L. Fall., ex art. 1, comma 2, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, in quanto (OMISSIS) è coltivatrice diretta, come tale sottratta all’obbligo di tenuta delle scritture contabili ed alla fallibilità; in ogni caso, essa ha prodotto in giudizio la relazione del commercialista, non esaminata dalla corte territoriale, da cui risultava come negli anni 2007 e 2008 il volume di affari non avesse mai superato la soglia di Euro 7.000,00; la cessazione della precedente attività commerciale sin dal 31 dicembre 2005, sebbene poi l’impresa non fosse stata cancellata dal registro relativo, non aveva reso possibile produrre una situazione economico finanziaria aggiornata relativa agli ultimi tre esercizi; la creditrice aveva prodotto una sola fattura relativa al 2006, ma riferita all’anno precedente; la seconda attività svolta dalla (OMISSIS) non era una prosecuzione della prima cessata; la mancata cancellazione dal registro delle imprese dell’imprenditore individuale permette sempre al medesimo la prova della cessazione dell’attività ad una certa data;

4) omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione al riguardo;

5) violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 5, ed omessa pronuncia, con riguardo allo stato di insolvenza, posto che l’impresa cessata non avrebbe potuto essere dichiarata fallita, non sussistendo alcuna insolvenza;

6) omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione al riguardo;

7) violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 2697, 2699 e 2700 c.c., per la mancata ammissione delle richieste orali, oltre che di c.t.u., del fascicolo fallimentare dell’attività alla data del istruttorie documentali ed e della mancata acquisizione per provare la cessazione 31 dicembre 2005, da cui la decorrenza del termine annuale L. Fall., ex art. 10;

8) omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione al riguardo.

Infondati ed in parte inammissibili, per la mancanza di decisività.

  1. – Il primo motivo è infondato.

La L. Fall., art. 22, comma 4, nella parte in cui prevede che “se la corte d’appello accoglie il reclamo del creditore ricorrente o del pubblico ministero richiedente, rimette d’ufficio gli atti al tribunale, per la dichiarazione di fallimento”, non ha inciso sull’attribuzione della cognizione in ordine ai requisiti di fallibilità alla corte d’appello, cui è tuttora inderogabilmente devoluta.

Dunque, la cognizione sui presupposti della dichiarazione di fallimento, giunti ormai a tale fase, spetta, inderogabilmente e funzionalmente al giudice del reclamo, vero dominus della stessa.

Ne deriva, pertanto, che la pronuncia del tribunale è, nei casi ordinari di cui si discute, automatica, ossia vincolata al dictum della corte d’appello.

A questi principi si è attenuta la sentenza impugnata, la quale, laddove ha ravvisato l’assenza di vizio di omessa motivazione con riguardo alla declaratoria di fallimento, non merita dunque censura.

  1. – Il secondo, quarto, sesto ed ottavo motivo sono inammissibili, posto che essi censurano i medesimi profili degli altri motivi, ma sotto l’egida del vizio di motivazione sotto ogni profilo: ma la decisione del giudice di secondo grado, che non esamini e non decida un motivo di censura della sentenza del giudice di primo grado, non è impugnabile per cassazione per omessa o insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia, restando un simile motivo, ove il vizio sia denunciato ai sensi dell’art.360 c.p.c., comma 1, n. 5, inammissibile (Cass. 15 maggio 2013, n. 11801; 4 giugno 2007, n. 12952).
  2. – Il terzo motivo è infondato.

La corte territoriale ha esaurientemente chiarito che non vi fu mai cancellazione dal registro delle imprese, ma mera modificazione dell’oggetto dell’attività d’impresa, e che il fallimento è stato pronunciato nei confronti della titolare.

Da un lato, ai fini della L. Fall., art. 10, non sussiste cessazione dell’attività dell’imprenditore individuale allorquando quest’ultimo ne muti l’oggetto, non consentendo la predetta norma di distinguere l’una o l’altra delle attività dal medesimo esercitate (Cass. 8 novembre 2013, n. 25217).

Dall’altro lato, è sufficiente ricordare che, a norma della L. Fall., art. 10, gli imprenditori individuali possono essere dichiarati falliti entro un anno che decorre non già dalla cessazione dell’attività, bensì dalla cancellazione dal registro delle imprese. Nè giova all’imprenditore la natura dichiarativa della pubblicità del registro delle imprese, che tutela invece – secondo i principi ordinari della materia – i terzi.

Come questa Corte ha già chiarito (Cass. 17 luglio 2012, n. 12214), il capoverso della citata disposizione – nel testo risultante dalla modifica apportata dal Decreto Legislativo 12 settembre 2007 n. 169, applicabile al caso in esame – fa salva, infatti, solo “per il creditore o per il pubblico ministero” (e non per l’imprenditore) la facoltà di dimostrare il momento dell’effettiva cessazione dell’attività da cui decorre il termine annuale.

Il motivo, pertanto, deve essere respinto in applicazione del principio di diritto secondo cui il termine di un anno, entro il quale l’imprenditore individuale che abbia cessato la sua attività può essere dichiarato fallito, decorre dalla cancellazione dal registro delle imprese, senza possibilità per l’imprenditore medesimo di dimostrare il momento anteriore dell’effettiva cessazione dell’attività.

Avendo la corte del merito fatto corretta applicazione di tale principio, il motivo va disatteso.

Nè sussiste il vizio di omessa pronuncia denunziato. Ogni altra questione è di puro fatto, non ammissibile in questa sede.

  1. – Il quinto motivo è inammissibile.

Sotto il formale richiamo alla violazione della L. Fall., art. 5, invero, la ricorrente intende censurare l’accertamento, in puro fatto, relativo alla sussistenza del proprio stato di insolvenza, interamente però rimesso al giudice del merito.

Nè sussiste l’omessa pronuncia, avendo la corte del merito esaurientemente risposto al motivo di appello relativo, mentre la ricorrente si limita alla generica contestazione dell’esito interpretativo della sentenza impugnata.

  1. – Il settimo motivo è infondato.

Da un lato, della pretesa di provare una cessazione anteriore dell’attività si è già detto; dall’altro lato, non è sindacabile la mancata ammissione di prove, che rientra nella discrezionalità del giudice del merito, ed esse sono carenti del requisito della decisività. Invero, come da tempo chiarito (cfr. Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178), in tal caso il ricorrente ha l’onere di dimostrare sia l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza e l’errore addebitato al giudice, sia che la pronuncia, senza quell’errore, sarebbe stata diversa, così da consentire al giudice di legittimità un controllo sulla decisività delle prove.

  1. – Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, che liquida, in favore di ciascun controricorrente, in Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie ed agli accessori come per legge, da distrarsi – quanto alla curatela del Fallimento (OMISSIS) – in favore dell’avv. (OMISSIS), dichiaratasi antistataria.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 1° marzo 2016.