Ordinanza 8536/2023
Efficacia dell’atto pubblico – Certificati medici rilasciati da pubblici ufficiali – CTU
I certificati medici rilasciati da pubblici ufficiali fanno fede, fino a querela di falso, limitatamente ai fatti che il sanitario rogante attesta essere avvenuti alla sua presenza o essere stati da lui compiuti, mentre, per quanto riguarda la diagnosi, essi costituiscono elementi di convincimento liberamente apprezzabili dal giudice del merito, il quale può accogliere o rigettare un’istanza di ammissione di consulenza tecnica d’ufficio sulle valutazioni mediche, senza che il relativo provvedimento possa essere censurato in sede di legittimità. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione della Corte territoriale che, nel rigettare la domanda proposta da un assicurato nei confronti della propria compagnia di assicurazione contro i rischi derivanti da malattia, aveva affermato che i certificati medici prodotti da parte attrice erano privi delle indagini diagnostiche e della documentazione clinica necessaria a provare l’esistenza della malattia e che non poteva essere disposta una c.t.u., in quanto il consulente non avrebbe potuto acquisire altri documenti rispetto a quelli ritualmente prodotti).
Cassazione Civile, Sezione 3, Ordinanza 24-3-2023, n. 8536 (CED Cassazione 2023)
Art. 2700 cc (Efficacia dell’atto pubblico) – Giurisprudenza
FATTI DI CAUSA
1. Nel 2013 (OMISSIS) convenne dinanzi al Tribunale di Roma la
società (OMISSIS) assicurazioni s.p.a., esponendo che:
-) nel 1993 aveva stipulato con la società (OMISSIS) Assicurazioni (che in
seguito si fonderà per incorporazione nella (OMISSIS) Assicurazioni s.p.a.)
un contratto di assicurazione contro i rischi di invalidità derivante da
malattia;
-) nel 2008 aveva segnalato alla società assicuratrice di essere affetta da
una malattia che aveva comportato la riduzione della capacità di
deambulare (alcaptonuria);
-) tale malattia aveva lasciato postumi permanenti nella misura del 65%,
che l’assicuratore non aveva voluto indennizzare.
Chiese pertanto la condanna della società convenuta al pagamento
dell’indennizzo contrattualmente dovuto, quantificato in euro 180.759,92.
2. La società (OMISSIS) si costituì eccependo la prescrizione del diritto,
l’inefficacia della polizza, l’esistenza di una clausola compromissoria e la
mancanza di prova del fatto costitutivo della domanda.
3. Con sentenza 10 marzo 2016 n. 4985 il Tribunale di Roma rigettò la
domanda, ritenendo la polizza non operante con riferimento al rischio
concretamente avveratosi.
La sentenza venne appellata dalla soccombente.
La (OMISSIS) resistette al gravame proponendo appello incidentale
condizionato.
4. Con sentenza 21 aprile 2021 n. 2930 la Corte d’appello di Roma rigettò
il gravame principale, e dichiarò assorbito quello incidentale.
La Corte d’appello, dopo aver premesso di voler decidere la causa in base
al criterio cosiddetto “della ragione più liquida”, ritenne che nel caso di
specie gli elementi forniti dall’attrice non consentivano di ritenere provata
l’esistenza della malattia, né l’esistenza di postumi permanenti, né
l’esistenza del nesso causale tra la prima ed i secondi.
La Corte d’appello aggiunse che i certificati rilasciati da medici liberi
professionisti prodotti dall’attrice avevano un valore meramente
indiziario; che in ogni caso i suddetti certificati erano privi delle indagini
diagnostiche di corredo e della documentazione clinica posta a
fondamento di essi; che nella suddetta situazione non poteva essere
disposta una consulenza tecnica d’ufficio, dal momento che il consulente
non avrebbe potuto acquisire altri documenti che quelli ritualmente
prodotti, i quali come detto non consentivano alcun attendibile giudizio.
5. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da Clotilde
(OMISSIS), con ricorso fondato su sei motivi.
La (OMISSIS) ha resistito con controricorso.
Ambo le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Col primo motivo (p. 43 del ricorso) la ricorrente invoca la nullità della
sentenza per mancanza della motivazione, ai sensi dell’articolo 132,
secondo comma, n. 4, c.p.c..
1.1. Il motivo è infondato, dal momento che la motivazione esiste ed è
ben chiara: la Corte d’appello ha rigettato la domanda ritenendo non
provato il fatto costitutivo di essa, e cioè l’esistenza della invalidità e la
sua derivazione causale dalla malattia, e conseguentemente non
dimostrata l’ “operatività della polizza nemmeno secondo l’interpretazione
del contratto dalla medesima [(OMISSIS)] ritenuta corretta”.
La Corte d’appello in ogni caso, contrariamente a quanto sostenuto dalla
ricorrente (p. 3 della memoria), ha espressamente dichiarato non
dimostrata l’operatività della polizza (così la sentenza impugnata, p. 12),
e tale ratio decidendi risulta non specificamente impugnata (come
conferma, indirettamente, la stessa parte ricorrente a p. 3 della
memoria). Nel ricorso, infatti, si rinviene solo qualche generico
riferimento a tale questione (ad es. a p. 52 del ricorso), mentre
l’illustrazione dei motivi si concentra su altre e diverse questioni, con
conseguenti profili di inammissibilità, sotto tale profilo, del ricorso.
2. Col secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione degli articoli
2699 e 2700 c.c., nonché dell’articolo 357 codice penale.
Il motivo investe la sentenza d’appello nella parte in cui ha ritenuto “meri
indizi” i certificati medici prodotti dalla attrice (odierna ricorrente).
Deduce che uno di essi era stato rilasciato dalla dottoressa (OMISSIS),
medico di base, e le certificazioni rilasciate dal medico di base devono
ritenersi munite di fede privilegiata ai sensi dell’articolo 2700 c.c., in
quanto rilasciate da un pubblico ufficiale.
2.1. Il motivo è inammissibile perché, quand’anche lo si volesse ritenere
fondato, non porterebbe alla cassazione sul punto della sentenza
impugnata.
La Corte d’appello, infatti, ha ritenuto che il certificato rilasciato dalla
dottoressa (OMISSIS) non fosse idoneo a dare la prova dei fatti
costitutivi della domanda in quanto privo “dei documenti che avrebbero
dovuto essere ad esso allegati stante il disposto del terzo comma
dell’articolo 8 del contratto” e che in mancanza di tali documenti la Corte
d’appello non poteva “verificare la correttezza della diagnosi formulata
dai sanitari e dei giudizi dai medesimi espressi riguardo al grado di
invalidità permanente residuato all’assicurato”.
La Corte d’appello ha dunque ritenuto irrilevanti le certificazioni
depositate dall’attrice non tanto e non solo perché “meri indizi”, ma
anche perché ritenuti oggettivamente inidonei a fornire la prova. E questa
ultima valutazione, avendo ad oggetto l’intrinseca efficacia probatoria di
un documento, è insindacabile nella presente sede.
Peraltro, come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass. Sez.
L, Sentenza n. 5707 del 12/11/1984 (e tanto va ribadito in questa sede),
“i certificati medici rilasciati da pubblici ufficiali fanno fede, fino a querela
di falso, limitatamente ai fatti che il sanitario rogante attesta essere
avvenuti alla sua presenza o essere stati da lui compiuti, mentre, per
quanto riguarda la diagnosi (…), essi costituiscono elementi di
convincimento liberamente valutabili dal giudice del merito, il quale può
accogliere o rigettare un’istanza di ammissione di consulenza tecnica
d’ufficio sulle circostanze controverse, senza che il relativo
provvedimento possa essere censurato in sede di legittimità”.
Nello stesso ordine di idee, Cass. n. 6045 del 11/05/2000 ha precisato
che la fede privilegiata che va riconosciuta al certificato redatto da un
medico convenzionato con l’INPS per il controllo della sussistenza delle
malattie del lavoratore non si estende anche ai giudizi valutativi che il
sanitario ha in quell’occasione espresso in ordine allo stato di malattia.
A quanto precede va aggiunto che il certificato di cui si discute non risulta
essere stato rilasciato dalla dott.ssa (OMISSIS) nella qualità di medico di
famiglia della ricorrente convenzionato con il servizio sanitario, né la
ricorrente ha specificato quando e in quali esatti termini ha dedotto tale
qualità della dott.ssa (OMISSIS) nel giudizio di merito, evidenziandosi che al
riguardo la parte controricorrente ha eccepito la novità della deduzione di
tale circostanza (v. controricorso, p. 19).
3. Col terzo motivo la ricorrente deduce che la Corte d’appello avrebbe
pronunciato ultra petita, nella parte in cui ha ritenuto i documenti da lei
prodotti in primo grado “inadeguati” a dimostrare l’avverarsi del rischio e
la sua indennizzabilità.
Sostiene che tale “inadeguatezza” non era stata mai eccepita dalla
controparte.
3.1. Il motivo è infondato.
La (OMISSIS), costituendosi e negando esservi prova dell’esistenza della
invalidità, ovvero della sua riconducibilità causale ad un sinistro
indennizzabile a termini di polizza, aveva, con ciò solo, contestato la
domanda attorea, e tanto bastava per ribaltare sull’attrice l’onere di
dimostrare l’esistenza della malattia e dei postumi da essa derivati.
Lo stabilire poi se un documento dia o non dia idonea dimostrazione del
fatto costitutivo della domanda o dell’eccezione è questione sottratta alla
disponibilità delle parti, rimessa al prudente apprezzamento del giudice e
insindacabile in sede di legittimità.
4. Col quarto motivo la ricorrente lamenta la violazione di quattro
differenti norme sulla interpretazione del contratto, nonché dell’articolo
35 codice del consumo.
Il motivo, seppur unitario, contiene plurime censure così riassumibili:
a) la Corte d’appello ha erroneamente ritenuto che i certificati medici
prodotti dall’attrice fossero dei “meri indizi”, nonostante nessuna clausola
contrattuale imponeva all’assicurato di inviare all’assicuratore
certificazione rilasciata da strutture pubbliche;
b) in ogni caso i suddetti certificati (tre, rilasciati da tre diversi
medici) presentavano i requisiti della gravità, precisione e concordanza di
cui all’articolo 2729 c.c.;
c) poiché il contratto prevedeva, all’articolo 9, la facoltà
dell’assicuratore di compiere gli opportuni accertamenti medici sulla
persona dell’assicurato, fu “irragionevole e contrario alle regole
interpretative”, da parte della Corte d’appello, pretendere dall’assicurato
l’invio di documentazione che avesse l’efficacia dell’atto pubblico;
d) la Corte territoriale avrebbe ritenuto legittima l’inerzia della
compagnia assicurativa a fronte delle iniziative e delle sollecitazioni
dell’assicurata e in ogni caso fu condotta contraria a correttezza e buona
fede quella della società assicuratrice, consistita nel non dare riscontro
alcuno, nella fase stragiudiziale, alle richieste dell’assicurata.
4.1. Le censure sub (a) e (b) sono inammissibili perché, al di là della loro
intitolazione formale, investono la valutazione delle prove.
Le censure sub (c) e (d) sono inammissibili perché non coerenti rispetto
al contenuto della sentenza impugnata.
La Corte d’appello, infatti, non ha affatto affermato che, per contratto,
l’assicurato fosse onerato dall’inviare all’assicuratore certificati medici
rilasciati da strutture pubbliche e minuziosamente motivati.
La Corte d’appello ha rigettato la domanda per una ragione ben diversa,
e cioè per avere ritenuto non dimostrato il fatto costitutivo della pretesa,
vale a dire l’esistenza della invalidità e la sua derivazione causale dalla
malattia.
5. Anche col quinto motivo la ricorrente prospetta plurime censure che
possono essere così riassunte:
a) i certificati medici rilasciati da liberi professionisti non avrebbero
potuto essere “svalutati” dalla Corte d’appello, in quanto anch’essi hanno
una loro “imprescindibile validità probatoria”; inoltre uno dei certificato è
stato redatto da un medico di famiglia e quindi da un pubblico ufficiale
nell’esercizio delle sue funzioni, sicché fa “piena prova sino a querela di
falso dei fatti materiali che il medico ha dichiarato di aver direttamente
percepito quali le irreversibili condizioni patologiche (rectius:
sintomatologia) e di invalidità della ricorrente”;
b) i suddetti certificati rappresentavano comunque indizi significativi,
e si sarebbero dovuti ritenere sufficienti per disporre una consulenza
tecnica d’ufficio medico legale, dal momento che l’esistenza dell’invalidità
e la sua derivazione causale dalla malattia non potevano essere provati
dall’attrice con gli ordinari mezzi di prova;
c) fu irragionevole l’argomento utilizzato dalla Corte d’appello per
negare l’ingresso alla consulenza d’ufficio (e cioè che, a causa del tempo
trascorso, la consulenza si sarebbe dovuta svolgere solo sui documenti
già prodotti in atti), perché, a tacer d’altro, tale argomento conduceva ad
un effetto “premiante” nei confronti dell’assicuratore inadempiente.
5.1. Il motivo è inammissibile perché investe in parte la valutazione delle
prove, ed in parte una scelta discrezionale riservata al giudice di merito
ed insindacabile in sede di legittimità, come quella di disporre una
consulenza tecnica d’ufficio; quanto al valore probatorio del certificato
della dott.ssa (OMISSIS) va qui ribadito quanto già in precedenza precisato.
Non viene in rilievo, inoltre, il principio invocato dalla ricorrente (per sé
corretto), secondo cui il giudice di merito ha l’obbligo di disporre una
consulenza tecnica quando quest’ultima costituisca l’unico mezzo per
dimostrare il fatto costitutivo della domanda o dell’eccezione.
Nel caso di specie, infatti, la Corte d’appello ha rigettato l’istanza di
consulenza tecnica d’ufficio sul presupposto che essa, quand’anche fosse
stata disposta, null’altro avrebbe potuto accertare o chiarire, rispetto a
quanto già acquisito agli atti: e va da sé che una consulenza tecnica
d’ufficio, quand’anche costituisca teoricamente l’unico mezzo per
acquisire la prova del fatto costitutivo della domanda, mai potrebbe
essere disposta se ritenuta improduttiva di qualsiasi effetto utile.
Lo stabilire, poi, se nel caso di specie una consulenza tecnica d’ufficio
poteva essere utile od inutile, è questione di puro fatto, riservata al
giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità.
6. Con l’ultimo motivo la ricorrente censura la liquidazione delle spese
compiuta dal giudice di merito.
Deduce che la Corte d’appello dopo aver affermato che la fase istruttoria
“non era stata espletata”, ha comunque liquidato ugualmente il
compenso dovuto alla parte vittoriosa per la suddetta fase processuale.
Con una seconda censura deduce che erroneamente la Corte d’appello
ritenne di accordare alla parte vittoriosa un compenso di euro 4.860 per
la “fase decisionale”, nonostante questa non fu preceduta dal deposito di
scritti difensivi e la discussione fu contenuta in uno spazio di soli 15
minuti complessivi.
6.1. La prima delle suesposte censure è infondata.
Sebbene non sia stata svolta la fase istruttoria, è stata comunque svolta
la fase di trattazione, e per essa il compenso era comunque dovuto.
Inammissibile è invece la seconda delle suesposte censure, in quanto lo
stabilire se il compenso dovuto alla parte vittoriosa vada parametrato al
minimo, al medio o al massimo della tariffa è valutazione di fatto
riservata al giudice di merito.
7. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza,
ai sensi dell’art. 385, comma 1, c.p.c., e sono liquidate nel dispositivo.
P.q.m.
(-) rigetta il ricorso;
(-) condanna (OMISSIS) alla rifusione in favore di (OMISSIS)
Assicurazioni s.p.a. delle spese del presente giudizio di legittimità, che si
liquidano nella somma di euro 3.500, di cui 200 per spese vive, oltre
I.V.A., cassa forense e spese forfettarie ex art. 2, comma 2, d.m.
10.3.2014 n. 55;
(-) ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà
atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da
parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis
dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile
della Corte di cassazione, addì 12 gennaio 2023.