Ordinanza 8593/2022
Lite tra comproprietari – Domanda di accertamento della natura comune di un bene proposta da alcuni condomini – Litisconsorzio necessario di tutti i condomini – Configurabilità
Poichè la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dei litisconsorti pretermessi deve essere valutata non “secundum eventum litis”, ma al momento in cui essa sorge, sussiste il litisconsorzio necessario nei confronti di tutti i condomini quando nel giudizio promosso da alcuni di loro per l’accertamento della natura comune di un bene i convenuti, costituendosi in giudizio, abbiano chiesto in via riconvenzionale di esserne dichiarati proprietari esclusivi a titolo derivativo o, in subordine, a titolo originario, in virtù di usucapione abbreviata.(Nel caso di specie, nessuna delle parti in causa aveva prospettato la natura condominiale del lastrico di copertura, rivendicandone la proprietà esclusiva, peraltro, senza darne la prova, con la conseguenza che la corte di merito ha ritenuto la proprietà comune del lastrico di copertura di un immobile in capo ai partecipanti al condominio secondo la previsione di legge).
Cassazione Civile, Sezione 2, Ordinanza 16.3.2022, n. 8593 (CED Cassazione 2022)
Art. 948 cc (Azione di rivendicazione) – Giurisprudenza
Art. 1117 cc (Parti comuni dell’edificio) – Giurisprudenza
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione ritualmente notificato Bu. Gi. evocava in giudizio Dr. Da. innanzi il Tribunale di Roma, invocando l’accertamento della sua proprietà esclusiva di una parte del terrazzo di copertura dello stabile sito in Roma, via (OMISSIS), scala G, al cui interno sono collocati gli appartamenti di proprietà, rispettivamente, di attore e convenuta, entrambi siti al piano attico.
Si costituiva in giudizio la Dr., resistendo alla domanda, allegando di aver titolo per vantare identico diritto sulla porzione oggetto di causa, ed invocando in via riconvenzionale l’accertamento dell’usucapione della stessa.
Con sentenza n. 20591/2009 il Tribunale rigettava tanto la domanda principale, per mancato superamento della presunzione di condominialità della porzione contesa, che quella riconvenzionale, per carenza di prova circa i presupposti per l’usucapione. Interponeva appello avverso detta decisione il Bu. e si costituiva in seconde cure, per resistere al gravame, la Dr..
Con la sentenza impugnata, n. 1849/2016, la Corte di Appello rigettava l’impugnazione. Propone ricorso per la cassazione di detta decisione il Bu., affidandosi a cinque motivi, contraddistinti da lettere. Resiste con controricorso Dr. Da.. La parte ricorrente ha depositato memoria in prossimità dell’adunanza camerale.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 101, 107, 183, 354 c.p.c. e 2909 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe omesso di statuire a quale dei due contendenti appartenesse la porzione di lastrico oggetto di causa, affermandone la natura condominiale, senza tuttavia estendere preventivamente il contraddittorio nei confronti del condominio. In tal modo, secondo il ricorrente, la Corte distrettuale avrebbe adottato una pronuncia in favore di un soggetto che non aveva preso parte alla causa.
La censura è infondata.
Va premesso che la natura condominiale di un bene non è oggetto di presunzione, ma piuttosto conseguenza di una regola di attribuzione della proprietà, che ammette la prova contraria.
Secondo l’insegnamento di questa Corte, infatti, “In tema di condominio negli edifici, l’individuazione delle parti comuni, come le terrazze di copertura, risultante dall’art. 1117 cod. civ. –il quale non si limita a formulare una mera presunzione di comune appartenenza a tutti i condomini, vincibile con qualsiasi prova contraria– può essere superata soltanto dalle opposte risultanze di un determinato titolo e non opera con riguardo a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, risultino destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 7449 del 07/07/1993, Rv. 483033; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 24189 del 08/09/2021, Rv. 662169).
L’art. 1117 c.c., dunque, non introduce una presunzione di appartenenza comune di determinati beni a tutti i condomini, ma fissa un criterio di attribuzione della proprietà del bene (“Sono oggetto di proprietà comune….”), che è suscettibile di essere superato mediante la produzione di un titolo che dimostri la proprietà esclusiva di quel bene in capo ad un condomino, o a terzi, ovvero attraverso la dimostrazione che, per le sue caratteristiche strutturali, la res sia materialmente asservita a beneficio esclusivo di una o più unità immobiliari.
In relazione ai lastrici, in particolare, si è ritenuto che “In tema di condominio degli edifici, qualora non intervenga una volontà derogatoria degli interessati sul regime di appartenenza, i beni e i servizi elencati dall’art. 1117 cod. civ., in virtù della relazione di accessorietà o di collegamento strumentale con le singole unità immobiliari, sono attribuiti ex lege in proprietà comune per effetto dell’acquisto della proprietà dei piani o porzioni di piano; pertanto, il lastrico solare è oggetto di proprietà comune se il contrario non risulta dal titolo, per tale intendendosi gli atti di acquisto delle altre unità immobiliari nonché il regolamento di condominio accettato dai singoli condomini” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 13279 del 16/07/2004, Rv. 574665; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 27363 del 08/10/2021, Rv. 662361).
Il lastrico, in definitiva, assolve alla primaria funzione di copertura dell’edificio e rientra dunque nel novero delle parti comuni, salva la prova contraria, la quale, nel caso di specie, non è stata ritenuta raggiunta dalla Corte di Appello, all’esito di un accertamento in punto di fatto, non implausibile e non utilmente censurabile in sede di legittimità. Di conseguenza, la Corte capitolina ha ritenuto la proprietà comune del lastrico di cui è causa in capo ai partecipanti al condominio secondo la previsione di legge. In aggiunta, la Corte distrettuale ha ricostruito la storia dell’immobile, affermando che esso apparteneva in origine ad un unico proprietario ed era stato poi, nelle sue porzioni corrispondenti alle attuali proprietà delle parti in causa, oggetto di successivi atti di disposizione; ed ha evidenziato che nessuno dei due contendenti aveva allegato l’esistenza di un titolo contrario, idoneo a dimostrare la sua proprietà esclusiva dell’area in discussione. In tal modo, il giudice di merito ha escluso entrambe le condizioni che, ai sensi dell’art. 1117 c.c., consentono il superamento della regola di attribuzione della proprietà dei beni elencati dalla norma. Da quanto precede discende l’infondatezza della censura proposta dall’odierno ricorrente, con la quale quest’ultimo invoca, in sostanza, una ricostruzione alternativa rispetto a quella proposta dal giudice di merito, senza considerare che l’accertamento della funzione dell’area controversa costituisce, come già detto, il frutto di una valutazione in punto di fatto.
Inoltre, va considerato che la Corte di Appello ha ritenuto che, in presenza di due contrapposte domande di rivendicazione della proprietà esclusiva di un determinato bene, per accogliere l’una o l’altra di esse occorresse escludere la natura condominiale del bene conteso. Anche su questo punto la decisione appare coerente con i principi affermati da questa Corte, secondo cui “In tema di condominio negli edifici, per tutelare la proprietà di un bene appartenente a quelli indicati dall’art. 1117 cod. civ. non è necessario che il condominio dimostri con il rigore richiesto per la rivendicazione la comproprietà del medesimo, essendo sufficiente, per presumerne la natura condominiale, che esso abbia l’attitudine funzionale al servizio o al godimento collettivo e cioè sia collegato, strumentalmente, materialmente o funzionalmente con le unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini, in rapporto con queste da accessorio a principale, mentre spetta al condomino che ne affermi la proprietà esclusiva darne la prova” (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 20593 del 07/08/2018, Rv. 650001; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11195 del 07/05/2010, Rv. 613094 e Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 3852 del 17/02/2020, Rv. 657106).
Nè si poneva alcun problema di completezza del contraddittorio, posto che nessuna delle parti aveva dedotto la natura condominiale del bene controverso, e l’eventuale integrazione del contraddittorio va ordinato non “secundum eventum litis” ma con riferimento alla prospettazione iniziale delle parti (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15547 del 25/07/2005, Rv. 582919, secondo cui “… sussiste il litisconsorzio necessario nei confronti di tutti i condomini quando nel giudizio promosso da alcuni di loro per l’accertamento della natura comune di un bene i convenuti, costituendosi in giudizio, abbiano chiesto in via riconvenzionale di esserne dichiarati proprietari esclusivi a titolo derivativo o, in subordine, a titolo originario, in virtù di usucapione abbreviata”). Anche sotto questo profilo, dunque, la decisione della Corte di Appello è corretta.
2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 101 e 354 c.p.c. e la nullità della sentenza, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c., perché il Giudice di merito avrebbe deciso la causa sulla base di una questione rilevata d’ufficio, in relazione alla quale non avrebbe invitato le parti a dedurre, assegnando alle stesse un termine allo scopo. Il rilievo della proprietà condominiale dell’area in contestazione, secondo il ricorrente, sarebbe infatti stato operato dalla Corte territoriale in difetto di richiesta di una delle parti.
La censura è infondata.
La causa non è stata decisa sulla base di una questione rilevata di ufficio, posto che la proprietà dello spazio in contestazione costituiva sin dal primo momento l’oggetto delle due contrapposte domande di rivendicazione. Il giudice di merito, affermando che non era stata superata la regola di attribuzione della proprietà condominiale dell’area contesa, non ha rilevato nulla ex officio, ma ha soltanto ritenuto non conseguita la prova contraria prevista dalla norma di cui all’art. 1117 c.c. (cfr. Cass. Cass. Sez. U, Sentenza n. 7449 del 07/07/1993, Rv. 483033; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 24189 del 08/09/2021, Rv. 662169, già citate).
Va in proposito ribadito che “Il giudice d’appello può qualificare il rapporto dedotto in giudizio in modo diverso rispetto a quanto prospettato dalle parti o ritenuto dal giudice di primo grado, purché non introduca nel tema controverso nuovi elementi di fatto, lasci inalterati il petitum e la causa petendi ed eserciti tale potere-dovere nell’ambito delle questioni, riproposte con il gravame, rispetto alle quali la qualificazione giuridica costituisca la necessaria premessa logico-giuridica, dovendo, altrimenti, tale questione preliminare formare oggetto di esplicita impugnazione ad opera della parte che risulti, rispetto ad essa, soccombente” (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 12875 del 15/05/2019, Rv. 653896).
Più precisamente, il giudice ha l’obbligo di rilevare d’ufficio l’esistenza di una norma di legge idonea ad escludere, alla stregua delle circostanze di fatto già allegate ed acquisite agli atti di causa, il diritto vantato dalla parte, e ciò anche in grado di appello, senza che su tale obbligo possa esplicare rilievo la circostanza che, in primo grado, le questioni controverse abbiano investito altri e diversi profili di possibile infondatezza della pretesa in contestazione e che la statuizione conclusiva di detto grado si sia limitata solo a tali diversi profili, atteso che la disciplina legale inerente al fatto giuridico costitutivo del diritto è di per se sottoposta al giudice di grado superiore, senza che vi ostino i limiti dell’effetto devolutivo dell’appello; il giudizio di appello, pur limitato all’esame delle sole questioni oggetto di specifici motivi di gravame, si estende infatti ai punti della sentenza di primo grado che siano, anche implicitamente, connessi a quelli censurati, derivandone che non viola il principio del tantum devolutum quantum appellatum il giudice di appello che fondi la propria decisione su ragioni diverse da quelle svolte dall’appellante nei suoi motivi, ovvero esamini questioni non specificamente da lui proposte o sviluppate, le quali però appaiano in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi, e come tali comprese nel thema decidendum (in questo senso, cfr. Cass. Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 7789 del 05/04/2011, Rv. 617414; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11287 del 10/05/2018, Rv. 648501; Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 9202 del 13/04/2018, Rv. 648592).
3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 948, 1117, 1372 e 2907 c.c., 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ravvisato la proprietà condominiale della porzione del lastrico oggetto di causa, a prescindere dall’esistenza di una domanda di una delle parti in tal senso, e rigettato quindi la domanda di rivendicazione proposta dal Bu., senza considerare che la cd. presunzione di condominialità non opera per i beni che, per le loro caratteristiche, sono oggettivamente destinati all’uso esclusivo di una o più proprietà individuali.
La censura è inammissibile, in quanto l’oggettiva destinazione del bene a servizio di una o più proprietà individuali, idonea a superare la regola generale di attribuzione della proprietà di cui all’art. 1117 c.c., costituisce oggetto di un accertamento di fatto riservato al giudice di merito. Il ricorrente, peraltro, neppure deduce di aver posto, nel corso del giudizio di merito, la questione dell’oggettiva destinazione dell’area contesa a servizio esclusivo della sua proprietà individuale: si limita ad affermare, piuttosto, che ciascuna delle parti in causa aveva allegato un titolo contrattuale idoneo a superare la regola di cui all’art.1117 c.c., e che dunque entrambi avrebbero acquistato dal loro comune dante causa la proprietà della porzione di terrazzo oggetto di causa. Ciò, tuttavia, non equivale ad affermare – come sembrerebbe voler fare il ricorrente – che il bene conteso fosse a servizio esclusivo ed oggettivo delle due proprietà individuali delle parti in causa: la destinazione oggettiva del bene va infatti accertata in relazione alla situazione di fatto, e non sulla base dei titoli. Sulla base di questi ultimi, piuttosto, si può escludere la natura comune di un determinato spazio, ma in tal caso l’esclusione prescinde dalla sua oggettiva destinazione a servizio di una o più proprietà individuali, e si fonda, appunto, sull’esistenza di un titolo contrario. Il motivo, dunque, confonde le due ipotesi previste dalla norma, ben distinte tra loro e fondate su diversi presupposti di fatto e diritto.
4. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 948, 2697 e 2909 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte distrettuale non avrebbe operato, in favore del Bu., l’attenuazione dell’onere probatorio prevista quando il convenuto in rivendicazione resiste alla domanda invocando, in via riconvenzionale, l’usucapione del bene immobile.
La censura è infondata.
L’attenuazione dell’onere probatorio si giustifica, nel caso in cui la domanda di rivendicazione sia contrapposta da riconvenzionale di usucapione, sulla base della considerazione che quest’ultima presuppone logicamente l’alienità originaria del bene oggetto del possesso ultraventennale. In quel caso, l’attore non deve risalire sino ad un acquisto a titolo originario, ma soltanto dimostrare la sua proprietà da data anteriore a quella in cui il convenuto deduca di aver iniziato a possedere. Nel caso di specie, tuttavia, la Corte di Appello ha ritenuto che, in base alle caratteristiche dell’area (lastrico), essa fosse soggetta alla regola di cui all’art. 1117 c.c. e che tale criterio attributivo della proprietà non fosse stato vinto da alcuna delle parti mediante la produzione di un titolo contrario, precedente al sorgere del condominio (cfr. pagg. 8 e 9 della sentenza). Tale statuizione, coerente con gli insegnamenti di questa Corte, già in precedenza richiamati (cfr. ancora Cass. Sez. U, Sentenza n. 7449 del 07/07/1993, Rv. 483033 e Cass. Sez. 2, Sentenza n. 24189 del 08/09/2021, Rv. 662169, citate), esclude che si possa configurare riconosciuta la proprietà originaria dell’area oggetto della domanda di usucapione in capo alla parte nei cui confronti detto modo di acquisto è fatto valere; di conseguenza, ove detta parte agisca per la rivendicazione del bene immobile oggetto della domanda di usucapione, non si configurano i presupposti per l’attenuazione dell’onere della prova a suo carico.
5. Con il quinto motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1101 c.c., 99 e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché il giudice di secondo grado avrebbe dovuto accogliere la domanda di reintegrazione nel compossesso dell’area oggetto di causa ed esaminare l’istanza di risarcimento del danno conseguente all’indisponibilità dell’area contesa, che erano state ambedue proposte dal Bu. in prime cure, e devolute alla Corte di Appello con apposito motivo di gravame.
La censura è fondata.
Dall’esame della sentenza e del ricorso risulta che l’odierno ricorrente aveva proposto, nel giudizio di merito, tanto domanda di reintegrazione nel possesso o compossesso della porzione di lastrico oggetto di causa, quanto domanda di risarcimento del danno derivate dal suo mancato godimento. La Corte di Appello ha esaminato la sola domanda di reintegrazione nel possesso, o compossesso, del bene oggetto di causa, e l’ha respinta, ritenendo che essa fosse stata proposta in conseguenza della domanda di rivendicazione. Tuttavia, una volta accertata la natura condominiale dell’area oggetto di causa, la domanda predetta avrebbe dovuto essere valutata in un’ottica diversa, cioè in relazione al diritto dell’odierno ricorrente di esercitare il compossesso sul bene condominiale.
La domanda di risarcimento del danno dipendente dal mancato godimento dello spazio oggetto del giudizio, invece, non risulta neppure esaminata dalla Corte di Appello.
In relazione a tale motivo, la sentenza va cassata.
In definitiva, vanno rigettati il primo, secondo e quarto motivo, va dichiarato inammissibile il terzo, mentre va accolto il quinto, e la sentenza impugnata va cassata in relazione alla censura accolta, con rinvio alla Corte di Appello di Roma, in differente composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.
PQM
La Corte Suprema di Cassazione rigetta il primo, secondo e quarto motivo di ricorso, dichiara inammissibile il terzo ed accoglie il quinto. Cassa la sentenza impugnata, in relazione alla censura accolta, e rinvia la causa alla Corte di Appello di Roma, in differente composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Seconda Sezione Civile, in data 16 febbraio 2022.