Ordinanza 8760/2019
Eccezione di inadempimento – Effetti sospensivi e non liberatori
L’eccezione di inadempimento, anche se sollevata in buona fede, non ha effetti liberatori ma solo sospensivi; pertanto, quando ad essa faccia seguito una pronuncia di risoluzione del contratto per inadempimento della parte contro cui fu sollevata l'”exceptio inadimpleti contractus”, gli effetti risarcitori, liberatori e restitutori della risoluzione restano disciplinati dalle previsioni dell’art. 1458 c.c. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione di merito che aveva erroneamente attribuito all’eccezione ex art. 1460 c.c. un effetto liberatorio non considerando che, una volta risolto il contratto di durata, nella specie di affitto di azienda, l’effetto della risoluzione non poteva travolgere l’obbligo del pagamento dei canoni).
Sussunzione per falsa applicazione dell’art. 1460 c.c.
Costituisce vizio di sussunzione per falsa applicazione dell’art. 1460 c.c. ritenere legittimamente sollevata l’eccezione d’inadempimento da parte di chi, a fronte d’un inadempimento altrui solo parziale, rifiuti per intero di adempiere la propria obbligazione.
Corte di Cassazione, Sezione 3 civile, Ordinanza 29 marzo 2019, n. 8760 (CED Cassazione 2019)
Art. 1458 cc (Risoluzione per inadempimento) – Giurisprudenza
Art. 1460 cc (Eccezione di inadempimento) – Giurisprudenza
FATTI DI CAUSA
- Nel 2011 la società (OMISSIS) s.r.l. concesse in affitto alla società (OMISSIS) s.r.l. l’azienda commerciale di proprietà della prima, avente ad oggetto l’attività di ristorazione e gestione di un ristorante, una piscina ed un lido balneare.
Nel 2012 l’affittante convenne dinanzi al Tribunale di Tempio Pausania, sezione di Olbia, l’affittuaria, chiedendo che il Tribunale accertasse l’avvenuta risoluzione automatica del contratto, ex art. 1456 c.c., in virtù di una clausola risolutiva espressa.
Dedusse che il contratto prevedeva la risoluzione automatica nel caso di omesso pagamento del canone da parte dell’affittuaria, e che quest’ultima aveva omesso di pagare i canoni dovuti per l’anno 2012, nonchè le spese condominiali dovute per gli anni 2011 e 2012.
- La società (OMISSIS) si costituì e domandò in via riconvenzionale la risoluzione del contratto ex art. 1453 c.c., per inadempimento dell’affittante.
Espose che il 23 maggio 2012, in seguito ad una ispezione dei vigili del fuoco, era stata disposta la chiusura di una parte del complesso aziendale, ed in particolare della struttura lignea destinata a discoteca, a causa della sua inagibilità.
La convenuta chiese, altresì, la condanna della (OMISSIS) al risarcimento del danno da lucro cessante, patito in conseguenza della forzosa chiusura dell’attività commerciale.
- Con sentenza 22 ottobre 2014 n. 675 il Tribunale di Tempio Pausania:
-) dichiarò cessata la materia del contendere in ordine alle contrapposte domande di risoluzione del contratto, affermando (così si legge nella sentenza impugnata “che le parti hanno raggiunto l’accordo per la risoluzione del contratto ed il rilascio dell’azienda, impregiudicate le ulteriori domande”);
-) rigettò la domanda formulata dalla (OMISSIS) di condanna della convenuta al pagamento dei canoni insoluti e delle spese condominiali, sul presupposto che (OMISSIS) legittimamente avesse sospeso tali pagamenti, a causa della inagibilità di una parte dell’immobile facente parte dell’azienda data in affitto;
-) ritenne sussistente l’inadempimento della (OMISSIS), e la condannò al risarcimento del danno in favore della (OMISSIS), danno stimato in Euro 205.680,99.
Tale danno venne ravvisato dal Tribunale:
(a) nelle spese sostenute dalla (OMISSIS) per l’avvio dell’azienda;
(b) nei mancati guadagni conseguiti alla forzosa chiusura dell’azienda.
- La sentenza venne appellata dalla (OMISSIS).
Con sentenza 17 giugno 2016 n. 293, la Corte d’appello di Cagliari,
sezione di Sassari, accolse parzialmente il gravame.
La Corte d’appello ritenne che:
-) la (OMISSIS) sin dal 2006 (e dunque ben prima della stipula del contratto di affitto di azienda, avvenuto come detto nel 2011), sapeva che una parte dell’immobile aveva problemi di inagibilità, ed omise di riferirlo alla (OMISSIS) (così la sentenza, pagina 3);
-) di conseguenza l’affittante non adempì l’obbligo di consegnare un bene idoneo all’uso convenuto, e tale inadempimento giustificava, ai sensi dell’art. 1460 c.c., il mancato pagamento del canone per l’anno 2012 da parte dell’affittuaria;
-) gli altri inadempimenti ascritti all’affittuaria (mancato pagamento delle spese condominiali; mancata prestazione della fideiussione) non avevano invece il requisito della gravità di cui all’art. 1455 c.c.;
-) corretta, perciò, fu la decisione del Tribunale di rigettare la domanda di “risoluzione per inadempimento” (così la qualificò la Corte d’appello) proposta dalla (OMISSIS);
-) la (OMISSIS) non aveva contestato, se non tardivamente, le fatture depositate dalla (OMISSIS), con le quali quest’ultima società aveva inteso dimostrare l’entità delle spese inutilmente sostenute per avviare l’attività commerciale che poi dovette suo malgrado chiudere;
-) la società (OMISSIS) aveva domandato il risarcimento del danno consistito nella perdita degli utili per la sola stagione 2012, ed a tale periodo andava perciò limitata la condanna.
- La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione dalla (OMISSIS), con ricorso fondato su sei motivi ed illustrato da memoria.
L’intimata non si è difesa.
Il Procuratore Generale presso questa Corte ha depositato conclusioni scritte con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
- Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1455, 1456 e 1460 c.c.; artt. 115 e 116 c.p.c..
Il motivo, se pur formalmente unitario, contiene tre distinte censure.
1.1.1. Con una prima censura la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 1460 c.c..
Deduce che erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto legittima, da parte dell’affittuario, la sospensione del pagamento del canone.
Osserva che la sospensione totale del pagamento del canone sarebbe stata legittima solo a fronte di un inadempimento dell’affittante che avesse comportato l’impossibilità totale di fruizione del complesso aziendale nella sua interezza.
Nel caso di specie, invece, fu dichiarata inagibile dai vigili del fuoco solo una parte delle strutture aziendali concesse in affitto, ed in particolare quella destinata a discoteca. Ciò non impediva dunque all’affittuaria l’esercizio dell’azienda. Da un lato, infatti, l’attività di discoteca non era prevista nel contratto di affitto di azienda; dall’altro lato l’inagibilità della discoteca non rendeva impossibile l’esercizio delle altre attività aziendali, quali la gestione della piscina, la gestione vi della spiaggia, la gestione del ristorante, della pizzeria e del bar.
1.1.2. Con una seconda censura la ricorrente lamenta la violazione, da parte della sentenza impugnata, dell’art. 1455 c.c..
Sostiene che l’inadempimento il quale giustifica l’esercizio dell’eccezione di inadempimento, di cui all’art. 1460 c.c., deve avere i requisiti di gravità prescritti dall’art. 1455 c.c., e tale gravità deve essere valutata considerando sia l’entità dell’inadempimento, sia l’atteggiamento soggettivo delle parti.
Nel caso di specie, invece, secondo la ricorrente la Corte d’appello avrebbe reputato “grave” l’inadempimento della (OMISSIS), sebbene esso non fosse tale nè dal punto di vista oggettivo, nè da quello soggettivo.
Sotto il profilo oggettivo deduce la ricorrente che il preteso inadempimento aveva avuto per effetto l’impossibilità per l’affittuaria di godere d’una parte soltanto del complesso aziendale, e per di più d’una parte (la discoteca) che non formava nemmeno oggetto del contratto di affitto di azienda.
Sotto il profilo soggettivo, poi, la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere che la (OMISSIS) fosse a conoscenza delle condizioni di inagibilità della struttura lignea ricompresa nel complesso aziendale e destinata a discoteca. Deduce la ricorrente che tale circostanza era emersa da una perizia stragiudiziale depositata dalla (OMISSIS), perizia che tuttavia era stata eseguita su incarico del condominio “Punta Marana”, e dalla quale non era possibile desumere che tali condizioni di inagibilità fossero note alla (OMISSIS); in ogni caso – conclude la ricorrente – tale circostanza non era stata mai nemmeno allegata dalla convenuta.
Conclude dunque la ricorrente osservando che, a fronte d’un inadempimento non grave, la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere legittima, da parte dell’affittuario, la sospensione ex art. 1460 c.c., del pagamento del canone.
1.1.3. Con una terza censura, infine, la ricorrente deduce che erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto “non gravi” gli inadempimenti dell’affittuaria alle proprie obbligazioni.
Deduce che, invece, l’inadempimento della (OMISSIS) si sarebbe dovuto considerare prevalente rispetto a quello della (OMISSIS) per due ragioni:
-) sia perchè il contratto prevedeva che il mancato pagamento anche di una sola rata avrebbe provocato la risoluzione ipso iure del negozio, ai sensi dell’art. 1456 c.c.; ed in presenza di una clausola risolutiva espressa la Corte d’appello non avrebbe dovuto indagare sulla gravità dell’inadempimento della (OMISSIS);
-) sia perchè l’inadempimento dell’obbligo di pagare le spese condominiali e il canone di affitto era addirittura anteriore alla emersione della inagibilità di parte del complesso aziendale.
1.2. La prima delle suesposte censure è fondata; l’esame delle altre due resta di conseguenza assorbito.
1.3. L’art. 1460 c.c., consente, a chi abbia vanamente atteso l’esatto adempimento della prestazione contrattuale dovutagli, di rifiutare l’adempimento della propria prestazione sino a quando il contraente infedele non adempia od offra di adempiere la propria.
L’istituto previsto dall’art. 1460 c.c. è retaggio del principio emerso nel diritto intermedio fides non est servanda ei qui frangit (idem, e in sintonia con tale millenaria tradizione – non può essere invocato quomodolibet, ma è soggetto alla condizione che il rifiuto di adempiere, opposto da chi solleva l’eccezione di inadempimento, non sia contrario a buona fede “avuto riguardo alle circostanze”.
Da più di mezzo secolo la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che la buona fede di cui è menzione nell’art. 1460 c.c., è la buona fede in senso oggettivo, cioè una condotta qualificabile come corretta alla stregua dell’idem sentire comune.
L’opponibilità dell’eccezione di inadempimento prescinde invece dalla sussistenza della buona fede in senso soggettivo, cioè dell’ignoranza di ledere l’altrui diritto (così già Cass. 2.10.1951 n. 2595; in seguito nello stesso senso, ex permultis, Sez. 2, Sentenza n. 1308 del 21/02/1983, Rv. 426104 – 01, ove il tema è ampiamente trattato; nonchè, in termini più sintetici, Sez. 2 -, Ordinanza n. 21315 del 14/09/2017, Rv. 645426 – 01; Sez. L, Sentenza n. 11430 del 16/05/2006, Rv. 589056 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 1690 del 26/01/2006, Rv. 587847 – 01).
1.4. Per stabilire in concreto se l’eccezione di inadempimento sia stata sollevata in buona fede oppur no, è altrettanto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che il giudice di merito deve verificare “se la condotta della parte inadempiente, avuto riguardo all’incidenza sulla funzione economico-sociale del contratto, abbia influito sull’equilibrio sinallagmatico dello stesso, in rapporto all’interesse perseguito dalla parte, e perciò abbia legittimato, causalmente e proporzionalmente, la sospensione dell’adempimento dell’altra parte” (massima reiterata: ex multis, Sez. 1, Sentenza n. 2720 del 04/02/2009, Rv. 606502 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 16822 del 10/11/2003, Rv. 567989 – 01).
1.5. Lo stabilire se l’eccezione di inadempimento sia stata sollevata in buona fede forma oggetto d’un apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità.
È tuttavia sindacabile in sede di legittimità, perchè non costituisce un esame di fatto, ma un sindacato sulla falsa applicazione della legge, l’ipotesi in cui il giudice di merito, accertata in facto l’esistenza d’una condotta oggettivamente e di per sè contraria a buona fede da parte dell’eccipiente, ritenga legittimo l’esercizio, da parte di questi, dell’eccezione di inadempimento. In questo caso, infatti, quel che viene sindacato non è la ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di merito, ma la corretta individuazione della norma che andava applicata a quel fatto così come accertato. Applicare, infatti, ad una fattispecie concreta una norma dettata per disciplinare ipotesi diverse costituisce una falsa applicazione della legge, usualmente definita “vizio di sussunzione”.
In un vizio di sussunzione siffatto è effettivamente incorsa, ad avviso di questa Corte, la sentenza impugnata.
1.6. La Corte d’appello, infatti, ha accertato in punto di fatto che l’azienda commerciale concessa in affitto dalla (OMISSIS) alla (OMISSIS) aveva ad oggetto “la somministrazione al pubblico di cui alle licenze di ristorante, pizzeria, bar, gelateria, pasticceria, focacceria” (così la sentenza impugnata, p. 3, secondo capoverso).
Ha, altresì, accertato che dell’intero complesso aziendale soltanto la struttura destinata a discoteca venne dichiarata inagibile dai vigili del fuoco (così la sentenza impugnata, p. 3, terzo capoverso).
Dopo avere accertato questi due elementi di fatto, la Corte d’appello ha reputato “grave” l’inadempimento della (OMISSIS), consistito nel concedere in affitto una struttura parzialmente inagibile, e di conseguenza non contrario a buona fede il rifiuto della (OMISSIS) di sospendere del tutto il pagamento del cannone d’affitto.
Ciò sul presupposto che l’inagibilità accertata dai vigili del fuoco rendeva non accessibile un’area di 300 metri quadrati, sui 729 metri quadrati complessivi sui quali si estendeva il complesso aziendale.
Questa statuizione costituisce, tuttavia, una falsa applicazione dell’art. 1460 c.c., per due ragioni.
1.7. La prima ragione è che il legittimo esercizio dell’exceptio inadimpleti contractus di cui all’art. 1460 c.c., come accennato, si fonda sulla regola della buona fede oggettiva.
La buona fede oggettiva, tra le sue tante declinazioni, vanta anche questa: che la difesa sia proporzionata all’offesa. Dunque in tanto il rifiuto di pagamento integrale del canone poteva dirsi conforme a buona fede, in quanto l’inadempimento dell’affittante avesse impedito il godimento integrale dell’azienda.
Nel caso di specie, per contro, l’inadempimento della (OMISSIS), per come accertato in fatto dalla Corte d’appello, non impedì del tutto l’esercizio dell’azienda. Dinanzi a questo inadempimento, tuttavia, la Corte d’appello ha reputato legittima la sospensione, da parte dell’affittuaria, del pagamento dell’intero canone d’affitto.
La Corte d’appello, così giudicando, ha accertato in facto una situazione di sproporzione tra l’inadempimento della (OMISSIS) (che fu parziale) e la reazione “difensiva” della (OMISSIS), che consistette in un inadempimento totale; ed ha reputato in iure che l’eccezione di inadempimento fosse legittima, e dunque conforme a buona fede.
Questa valutazione costituì perciò una violazione dell’art. 1460 c.c., perchè ha ritenuto applicabile tale norma in un caso in cui l’oggettiva sproporzione tra i contrapposti inadempimenti rendeva la difesa non proporzionata all’offesa, e quindi non conforme a buona fede.
Resta solo da aggiungere che la valutazione compiuta dalla Corte d’appello, consistita nel valutare la gravità dell’inadempimento della (OMISSIS) comparando la superficie aziendale dichiarata inagibile dai vigili del fuoco, e quella complessiva, non solo non esclude la falsa applicazione dell’art. 1460 c.c., ma anzi la aggrava.
Per effetto del contratto di affitto di azienda, infatti, l’affittante assume come obbligazione principale quella di garantire all’affittuario l’esercizio dell’azienda. La disponibilità degli immobili aziendali costituisce ovviamente un corollario di tale obbligazione, ma non è dessa lo scopo essenziale del contratto.
Ne consegue che, per valutare l’inadempimento della gravità della (OMISSIS), si sarebbe dovuto valutare non in che misura l’intervento dei vigili del fuoco impediva la praticabilità dell’immobile, ma piuttosto in che misura l’intervento dei vigili del fuoco impediva l’esercizio dell’azienda. E va da sè che le due grandezze non sono tra loro commensurabili, posto che un avviato esercizio commerciale può esercitarsi anche in pochi metri quadrati, così come, all’opposto, la disponibilità di vasti immobili aziendali non garantisce indefettibilmente un florido avviamento.
1.8. V’è poi, come accennato, una seconda e più profonda ragione per la quale deve ritenersi che la Corte d’appello sia effettivamente incorsa nella falsa applicazione degli artt. 1455 e 1460 c.c.. L’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c., è un rimedio necessariamente temporaneo, in quanto delle tre l’una:
-) se l’inadempimento che l’ha provocata persiste, esso condurrà alla risoluzione del contratto, e l’eccipiente sarà liberato dalla propria obbligazione;
-) se l’inadempimento che l’ha provocata cessa, cessa anche il diritto di autotutela dell’eccipiente, il quale sarà perciò obbligato all’adempimento;
-) se l’inadempimento che l’ha provocata non esisteva, ovvero non era tale da giustificarla, l’eccezione fu malamente sollevata, ed anche in questo caso l’eccipiente sarà tenuto all’adempimento, ovvero sarà esposto all’azione di risoluzione per inadempimento.
L’exceptio inadimpleti contractus non può, di conseguenza, mai avere effetti liberatori, ma solo effetti sospensivi transeunti della “forza di legge” del contratto. Gli effetti liberatori potranno scaturire solo dalla risoluzione del contratto, sia essa giudiziale, automatica o consensuale.
Ebbene, nel caso di specie la Corte d’appello ha ritenuto l’inadempimento della (OMISSIS) talmente grave da giustificare l’eccezione di inadempimento da parte della (OMISSIS). Tuttavia non ha considerato che, una volta risolto il contratto, essendo quest’ultimo un contratto di durata, si sarebbe dovuto applicare l’art. 1458 c.c., con la conseguenza che la risoluzione non poteva travolgere le obbligazioni sorte nel periodo in cui il contratto ebbe esecuzione.
Nè rileva che la risoluzione fu consensuale: avendo infatti le parti dichiarato di lasciare “impregiudicate” le questioni conseguenziali alla risoluzione (adempimento, restituzioni, risarcimento), la questione concernente l’obbligo di pagamento dei canoni si sarebbe dovuta risolvere in base all’art. 1458 c.c., sopra ricordato.
Pertanto la Corte d’appello, rigettando la domanda della (OMISSIS) e reputando giustificato il rifiuto della (OMISSIS) di pagare il canone per intero, ha attribuito all’eccezione di inadempimento un effetto liberatorio che l’istituto non ha.
L’erroneità di tale conclusione risulta evidente dal risultato paradossale cui la sentenza d’appello ha condotto: ovvero che l’affittuaria ha tratto maggior vantaggio dall’inadempimento della controparte, che dalla regolare esecuzione del contratto.
In caso di regolare esecuzione, infatti, la società (OMISSIS) avrebbe realizzato l’utile d’impresa, ma avrebbe dovuto pagare il canone, gli oneri condominiali e le spese per l’avvio dell’impresa.
Per effetto della sentenza oggi in esame, invece, l’affittuaria da un lato è stata dichiarata liberata dall’obbligo di pagamento del canone, e dall’altro ha ottenuto il rimborso delle spese sostenute per avviare l’azienda, ed il ristoro del mancato guadagno.
1.9 La seconda e la terza censura contenute nel primo motivo di ricorso, ed in precedenza illustrate (supra, §§ 1.1.2 ed 1.1.3.), restano assorbite dall’accoglimento della prima censura del primo motivo.
1.10. La sentenza impugnata va dunque cassata con rinvio sul punto qui in esame. Il giudice del rinvio, nel riesaminare l’appello della (OMISSIS), applicherà i seguenti principi di diritto:
(a) costituisce falsa applicazione dell’art. 1460 c.c., ritenere legittimamente sollevata l’eccezione d’inadempimento da parte di chi, a fronte d’un inadempimento altrui solo parziale, rifiuti per intero di adempiere la propria obbligazione;
(b) l’eccezione di inadempimento, anche quando sia sollevata in buona fede, non ha effetti liberatori ma solo sospensivi; pertanto, quando ad essa faccia seguito una pronuncia di risoluzione del contratto per inadempimento della parte contro cui fu sollevata l’exceptio inadimpleti contractus, gli effetti risarcitori, liberatori e restitutori della risoluzione restano disciplinati dalle previsioni dell’art. 1458 c.c.“.
- Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Il secondo motivo di ricorso è articolato in due censure.
Con una prima censura la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, che la Corte d’appello sarebbe incorsa nel vizio di omessa pronuncia.
Sostiene che la Corte d’appello ha omesso di pronunciarsi sul motivo di gravame con il quale l’affittante aveva censurato la sentenza di primo grado, nella parte in cui aveva ritenuto che le spese di ricostruzione della struttura dichiarata inagibile fossero a carico dell’affittante (OMISSIS), e non dell’affittuaria (OMISSIS).
2.2. Con una seconda censura la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 1362, 1363, 1366 e 1367 c.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3.
Deduce la ricorrente che il contratto di affitto di azienda poneva a carico dell’affittuaria (OMISSIS) “la straordinaria manutenzione dei locali, delle attrezzature degli arredi dovuti dall’usura della locazione”. Soggiunge che l’affittuaria, al momento della stipula del contratto, aveva dichiarato di aver visto l’immobile e di averlo trovato di proprio gradimento. Pertanto, conclude la ricorrente, in presenza di tali patti, la Corte d’appello avrebbe dovuto trarre la conclusione che la società (OMISSIS) si era obbligata alla manutenzione straordinaria dell’immobile, le cui condizioni le erano ben note, ed avesse in sostanza accettato le deficitarie condizioni in cui versava l’area destinata a discoteca.
2.3. La prima delle suesposte censure è infondata, sebbene la motivazione della Corte d’appello debba essere, sul punto, corretta. La Corte d’appello ha infatti ritenuto, con accertamento di fatto non sindacabile in questa sede, che l’inagibilità di parte della struttura aziendale risaliva addirittura a cinque anni prima della stipula del contratto di affitto di azienda (così la sentenza impugnata, p. 3, quinto e sesto capoverso).
L’affittuario, però, sia per legge che per contratto era tenuto a sostenere le spese di manutenzione rese necessarie dall’uso del bene durante la locazione, mentre non assunse affatto l’obbligo di restaurare un immobile che gli era stato consegnato già pericolante. Pertanto il dispositivo della sentenza impugnata su questo punto fu conforme a diritto, là dove escluse che le spese di manutenzione straordinaria fossero addebitabili all’affittuario.
2.4. Anche la seconda delle censure in cui si articola il secondo motivo di ricorso è infondata.
Il contratto di affitto d’azienda, infatti, espressamente poneva a carico dell’affittuaria gli oneri di straordinaria manutenzione resi necessari “dall’usura della locazione”, mentre nel nostro caso la Corte d’appello ha accertato, con valutazione di fatto non sindacabile in questa sede, che l‘inagibilità della struttura adibita a discoteca non fu affatto causata dalla locazione, ma era addirittura preesistente a quest’ultima.
- Il terzo motivo di ricorso.
3.1. Col terzo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1576, 1577, 1578, 1621, 1175 e 1375 c.c..
Nell’illustrazione del motivo la ricorrente sostiene una tesi così riassumibile: anche ad ammettere che gli oneri di manutenzione straordinaria dell’immobile fossero a carico dell’affittante, l’adempimento di tali oneri presupponeva comunque che la (OMISSIS) fosse a conoscenza della inagibilità dell’immobile; ed era preciso dovere della affittuaria dare avviso all’affittante della suddetta inagibilità.
La società (OMISSIS), invece, violando il dovere di correttezza e buona fede, non aveva mai dato avviso all’affittante della situazione di inagibilità dell’immobile.
3.2. Il motivo è manifestamente infondato.
Anche a prescindere da qualsiasi rilievo circa la novità della relativa deduzione, quel che rileva è che la Corte d’appello ha accertato, con valutazione di fatto non sindacabile in questa sede, che la (OMISSIS), già prima della stipula del contratto, fosse a conoscenza della inagibilità dell’immobile. La ricorrente, di conseguenza, non può oggi dolersi di non essere stata avvisata d’una circostanza di fatto che, per statuizione ormai passata in giudicato, era invece bene a sua conoscenza.
- Il quarto motivo di ricorso.
4.1. Col quarto motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto tardiva la contestazione, da parte della (OMISSIS), dei documenti con i quali la società (OMISSIS) aveva inteso dimostrare l’entità delle spese sostenute per l’avvio dell’attività aziendale poi forzosamente interrotta e, di conseguenza, il relativo ammontare dei danni subiti.
Deduce che il giudice di merito, dopo aver convertito le forme processuali da quelle del rito sommario ex art. 702 bis c.p.c., a quelle del processo del lavoro (rito locatizio), non le concesse il termine di 10 giorni per il deposito di una memoria allo scopo di replicare alla domanda riconvenzionale formulata dalla convenuta. In mancanza della fissazione di tale termine, sostiene la ricorrente, correttamente essa aveva contestato i documenti prodotti dalla controparte nella propria comparsa conclusionale, dal momento che nessun altro atto processuale prima di quello poteva consentire la contestazione.
4.2. Il motivo è manifestamente infondato.
Risulta dalla sentenza impugnata che il giudizio di primo grado si protrasse per sette udienze, durante le quali nulla la (OMISSIS) mai osservò in merito alla documentazione prodotta dalla controparte.
Solo in articulo mortis, all’udienza di precisazione delle conclusioni, avvenne la suddetta contestazione.
La contestazione fu dunque tardivamente compiuta ai sensi dell’art. 416 c.p.c., così come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, le quali ormai da molti hanno stabilito che nel rito del lavoro il difetto di specifica contestazione dei fatti dedotti dall’attore (ovvero da chi abbia formulato domanda riconvenzionale, ovvio essendo che reus in excipiendo fit actor) rende inutile provare i fatti non contestati (Sez. U, Sentenza n. 761 del 23/01/2002, Rv. 551789 – 01).
Nè rileva la circostanza che non fosse stato fissato dal giudice un termine per consentire alla (OMISSIS), attrice, di controdedurre per iscritto alla domanda riconvenzionale formulata dalla (OMISSIS).
Da un lato, infatti, la trattazione del processo civile, in tutte le sue forme, resta pur sempre orale (art. 180 c.p.c.), e dunque non v’era affatto bisogno di un atto scritto per contestare l’efficacia probatoria dei documenti prodotti ex adverso, ma avrebbe dovuto e potuto la (OMISSIS) formulare le proprie deduzioni a verbale in udienza; dall’altro lato, è infondata invenzione dell’odierna ricorrente che la contestazione dei fatti dedotti a fondamento d’una domanda riconvenzionale debba avvenire “nel primo scritto defensionale utile”. All’opposto, la contestazione dei fatti dedotti ex adverso sarebbe dovuta avvenire nella prima difesa utile, non nel primo scritto utile; e la prima difesa utile fu l’udienza successiva alla formulazione della – domanda riconvenzionale.
- Il quinto motivo di ricorso.
5.1. Col quinto motivo di ricorso la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1223 e 1372 c.c..
Sostiene che il contratto di affitto di azienda stipulato tra le parti vietava all’affittuaria di apportare migliorie ed addizioni all’azienda senza il previo consenso scritto dell’affittante.
Pertanto, anche a voler ritenere dimostrata l’effettuazione di spese da parte della (OMISSIS) per la messa in esercizio dell’azienda presa in affitto, tali spese non erano state autorizzate dall’affittante, ed erroneamente la Corte d’appello ritenne perciò che esse costituissero un danno risarcibile.
5.2. Il motivo resta assorbito dal rigetto del quarto motivo di ricorso. Infatti, una volta stabilito che la (OMISSIS) non contestò tempestivamente la domanda riconvenzionale formulata dalla (OMISSIS), ed avente ad oggetto la rifusione delle spese sostenute per l’avvio della azienda, diviene irrilevante lo stabilire se le suddette spese fossero state autorizzate o meno.
- Il sesto motivo di ricorso.
6.1. Col sesto motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1223, 1225 e 1372 c.c.; artt. 115 e 116 c.p.c..
L’illustrazione del motivo contiene una tesi così riassumibile:
-) la Corte d’appello ha liquidato il danno da lucro cessante patito dalla società (OMISSIS) nel periodo dal 23 maggio al 30 settembre 2012;
-) tuttavia nel 2011, anno precedente i fatti di causa, la società (OMISSIS) aveva esercitato la propria attività soltanto dal 5 luglio al 31 agosto; nè nel presente giudizio aveva mai dedotto l’esistenza di speciali ragioni che, soltanto nell’anno 2011, le avrebbero imposto un’apertura ritardata ed una chiusura anticipata.
Di conseguenza – questo il nucleo della censura – si sarebbe dovuto ritenere che anche nell’anno 2012 l’azienda, se non fosse stata chiusa, sarebbe stata in esercizio solo a luglio ed agosto.
L’illustrazione del motivo prosegue pervenendo ad adombrare (a pagina 36, punto 34 del ricorso), il vizio di ultrapetizione, là dove si sostiene che la circostanza che (OMISSIS) esercitasse la propria attività soltanto nei mesi di luglio ed agosto fosse “pacifica tra le parti”.
6.2. Nella parte in cui lamenta – con un solo e fugace accenno – la non coerenza della statuizione impugnata con i fatti non contestati tra le parti, il motivo è inammissibile, perchè in violazione dell’onere di allegazione ed indicazione di cui all’art. 366 c.p.c., la ricorrente non espone, nè trascrive, nè riassume, i termini in cui la società (OMISSIS) dedusse e descrisse, nel giudizio di merito, il danno da lucro cessante di cui chiedeva il risarcimento. Sicchè, in mancanza di tale allegazione, non è possibile stabilire, in base alla sola lettura del ricorso, se davvero la circostanza che (OMISSIS) svolgesse l’attività soltanto per due mesi l’anno fosse “pacifica tra le parti” oppure no.
6.3. Nella parte restante il motivo è inammissibile.
La ricorrente, infatti, lamenta nella sostanza una sovrastima del danno, che il giudice di merito avrebbe liquidato in misura non coerente con le prove raccolte e con i fatti non contestati.
Detto dell’inammissibilità del motivo sotto quest’ultimo profilo (fatti non contestati), esso lo è anche nella parte in cui lamenta una valutazione dei fatti non coerente con le prove raccolte.
Una censura di questo tipo infatti cozza contro il consolidato e pluridecennale orientamento di questa Corte, secondo cui non è consentita in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito (ex permultis, Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612747; Sez. 3, Sentenza n. 13954 del 14/06/2007, Rv. 598004; Sez. L, Sentenza n. 12052 del 23/05/2007, Rv. 597230; Sez. 1, Sentenza n. 7972 del 30/03/2007, Rv. 596019; Sez. 1, Sentenza n. 5274 del 07/03/2007, Rv. 595448; Sez. L, Sentenza n. 2577 del 06/02/2007, Rv. 594677; Sez. L, Sentenza n. 27197 del 20/12/2006, Rv. 594021; Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006, Rv. 589557; Sez. L, Sentenza n. 12446 del 25/05/2006, Rv. 589229; Sez. 3, Sentenza n. 9368 del 21/04/2006, Rv. 588706; Sez. L, Sentenza n. 9233 del 20/04/2006, Rv. 588486; Sez. L, Sentenza n. 3881 del 22/02/2006, Rv. 587214; e così via, sino a risalire a Sez. 3, Sentenza n. 1674 del 22/06/1963, Rv. 262523, la quale affermò il principio in esame, poi ritenuto per sessant’anni: e cioè che “la valutazione e la interpretazione delle prove in senso difforme da quello sostenuto dalla parte è incensurabile in Cassazione”).
- Le spese.
Le spese del presente grado di giudizio saranno liquidate dal giudice del rinvio.
P.Q.M.
la Corte di cassazione:
(-) accoglie il primo motivo di ricorso; rigetta il secondo, il terzo ed il quarto; dichiara assorbito il quinto; dichiara inammissibile il sesto;
-) cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Cagliari, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile della Corte di cassazione, addì 14 giugno 2018.