Ordinanza 8861/2021
Responsabilità civile per diffamazione – Pregiudizio all’onore ed alla reputazione – Onere della prova
In tema di responsabilità civile per diffamazione, il pregiudizio all’onore ed alla reputazione, di cui si invoca il risarcimento, non è “in re ipsa”, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le conseguenze di tale lesione, sicchè la sussistenza di siffatto danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, anche attraverso presunzioni, assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima.
Cassazione Civile, Sezione 6, Ordinanza 31-3-2021, n. 8861 (CED Cassazione 2021)
Art. 2697 cc (Onere della prova) – Giurisprudenza
Art. 2043 cc (Risarcimento per fatto illecito) – Giurisprudenza
Art. 2059 cc (Danni non patrimoniali) – Giurisprudenza
CONSIDERATO CHE
Il ricorrente, Co. Ca., ha agito in giudizio nei confronti di Do. Br. sostenendo che quest’ultimo aveva affisso un manifesto diffamatorio della sua persona, e che per tale azione era stato condannato con sentenza definitiva nella quale il giudice penale ha rimesso al giudizio civile la quantificazione dei danni.
Il Ca. ha dunque iniziato la causa civile nella quale ha chiesto il risarcimento del danno non patrimoniale, che però il Tribunale ha ritenuto sprovvisto di prova, anche in termini presuntivi.
Su impugnazione del ricorrente, la corte di appello ha confermato la decisione di primo grado.
La corte ha ritenuto che non si è formato giudicato sulla responsabilità civile e che dunque nel giudizio civile il danno andava provato e non lo è stato. In particolare, la corte di appello, pur ammettendo che il danno non patrimoniale si prova anche per presunzioni, ha ritenuto che alcun elemento da cui poter presumere il danno è stato allegato dal danneggiato, che si è limitato ad invocare il fatto illecito come prova delle sue conseguenze dannose. Ricorre con tre motivi il Ca.. Non v’è costituzione dell’intimato.
RITENUTO CHE
Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’articolo 651 c.p.c..
Sostiene che la sentenza penale contiene la condanna al risarcimento, salvo il rinvio al giudice civile per la determinazione dell’ammontare; che dunque è errata l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui il giudicato penale lascia aperta la valutazione dei danni e la loro stima, ed in particolare l’accertamento della loro derivazione causale dal fatto giudicato in sede penale. Andava invece ritenuto come accertato il danno risarcibile.
Il motivo è infondato.
Intanto non coglie la ratio della decisione impugnata, che non sta nel ritenere rimesso al giudice civile il giudizio sull’obbligo di risarcimento del danno, pur in presenza di un giudicato penale che lo accerta; sta nel ritenere non provato l’ammontare, poiché altra è l’affermazione che in astratto si è prodotto un danno risarcibile, altra l’affermazione che occorre la prova del suo ammontare.
La corte ha rigettato la domanda ritenendo non provato il danno, ossia ritenendo non fornita la prova che da quel fatto, accertato dal giudice penale, è derivato effettivamente un danno non patrimoniale.
E’ in secondo luogo infondato il motivo nella parte in cui sembra assumere che l’accertamento della illiceità penale e la pronuncia generica al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede costituisca “prova” del fatto che un danno si è verificato.
Va infatti ribadito che nei reati di danno, la decisione di condanna generica al risarcimento emessa dal giudice penale contiene implicitamente l’accertamento del danno evento e del nesso di causalità materiale tra questo e il fatto-reato, ma non anche quello del danno conseguenza, per il quale si rende necessaria un’ulteriore indagine, in sede civile, sul nesso di causalità giuridica fra l’evento di danno e le sue conseguenze pregiudizievoli (Cass. 8477/ 2020).
Con la conseguenza che l’accertamento dell’evento, in sede penale, non esimeva il ricorrente dalla prova delle conseguenze pregiudizievoli. 5.- Il secondo ed il terzo motivo possono valutarsi congiuntamente.
Il secondo motivo denuncia violazione degli articoli 2697, 2727, 2729, 1223 e 1226 c.c. . Il terzo motivo denuncia violazione degli articoli 112,113,115 c.p.c.
I due motivi costituiscono l’uno l’aspetto sostanziale, l’altro quello processuale della medesima questione.
In sostanza, il ricorrente dopo avere precisato che onere della allegazione ed onere della prova sono elementi distinti e che la corte avrebbe invece confuso l’una, con l’altra, ritiene che vi fossero gli indici da cui presumere il danno non patrimoniale e che tali indici stessero, per l’appunto, nella allegazione della parte.
Ossia: la corte avrebbe potuto e dovuto ricavare per presunzioni il danno, ed il suo ammontare, da quanto accertato nella sentenza penale circa la diffusione della notizia diffamante ed il tenore della medesima.
La corte avrebbe poi invertito l’onere della prova richiedendo che ai fini della dimostrazione del danno rilevasse la prova che la reputazione non era già compromessa, ossia che la notizia diffamante non era già nota e quindi tale da non arrecare autonomo ed ulteriore pregiudizio.
I motivi sono fondati.
E’ regola che il danno all’onore ed alla reputazione, di cui si invoca il risarcimento, non è “in re ipsa”, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le conseguenze di tale lesione, sicché la sussistenza di siffatto danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, anche attraverso presunzioni, assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima (Cass. 25420/ 2017; Cass. 4005/ 2020).
La diffusione dello scritto, dunque, unitamente alla rilevanza dell’offesa ed alla posizione sociale della vittima sono elementi da cui presumere il danno derivante da diffamazione.
Nella fattispecie, questi elementi erano stati allegati e si potevano ricavare dalla decisione penale, nella quale era accertato il numero di manifesti affissi per tutta la città, oltre 100 copie, (dunque la diffusione della notizia), nonché era allegato il contenuto del manifesto diffamatorio, della cui rilevanza illecita la stessa corte di merito non ha dubitato, ed era nota la posizione sociale della vittima (avvocato inserito nell’ambiente delle controversie nautiche).
La sentenza penale, se non vale come giudicato, vale come prova atipica, o come indizio da cui risalire al fatto ignoto. Resta evidente che il giudizio sulla concludenza di quegli elementi è affidato al giudice di merito, che dovrà valutare se essi indicano un pregiudizio oppure no, ma non si può affermare che non siano in astratto elementi sufficienti per un giudizio induttivo.
Altro è negare che vi siano elementi da cui presumere, altro è ovviamente ritenere (ed è accertamento di fatto rimesso al giudice di merito) che si tratta di elementi non indicativi del danno invocato. E ciò a prescindere dal quantum, posto che la ratio della decisione impugnata è incentrata sul difetto di prova dell’an, ossia della stessa esistenza di conseguenze dannose risarcibili, aspetto su cui verte il ricorso, il cui accoglimento non pregiudica ovviamente la questione della stima, eventuale, ove il giudice ritenga che quegli elementi sono sufficienti ad una prova presuntiva dell’an.
Infine, errata sotto il profilo dell’onere della prova è l’attribuzione al danneggiato della dimostrazione che non v’erano fattori capaci di escludere la natura pregiudizievole della divulgazione della notizia (ossia, una reputazione già compromessa) in quanto si tratta di un elemento negativo della pretesa attorea, la cui allegazione e dimostrazione grava sul convenuto danneggiante.
P.Q.M.
La Corte accoglie secondo e terzo motivo, rigetta il primo. Cassa la decisione impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Bari, in diversa composizione anche per le spese.
Roma 26.1.2021