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Cassazione Civile 9120/2023 – Lavoro pubblico contrattualizzato – Svolgimento non autorizzato di attività di lavoro – Recesso datoriale

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Ordinanza 9120/2023

Lavoro pubblico contrattualizzato – Svolgimento non autorizzato di attività di lavoro – Recesso datoriale

Nel lavoro pubblico contrattualizzato, lo svolgimento non autorizzato di attività di lavoro non comporta sempre il recesso datoriale in applicazione dell’art. 1, comma 61, della l. n. 662 del 1996, restando doverosa, secondo i principi generali, la valutazione di proporzionalità, il cui apprezzamento va svolto, peraltro, alla luce del disvalore del comportamento espresso dalla previsione legale e tenendo conto dell’importanza dei valori coinvolti (quali, gli obblighi di fedeltà del pubblico dipendente, rilevanti anche ai sensi dell’art. 98 della Cost.).

Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Ordinanza 31-3-2023, n. 9120   (CED Cassazione 2023)

 

 

RILEVATO CHE

(OMISSIS), dipendente I.N.P.S. con mansioni di assistente
amministrativo, ha subito l’applicazione della sanzione disciplinare
della sospensione dal servizio, con privazione della retribuzione,
per quindici giorni, per non avere chiesto preventivamente
l’autorizzazione a svolgere l’incarico esterno, negli anni 2009 e
2010, di consigliere del consiglio di amministrazione di una banca
di credito cooperativo;

la Corte d’Appello di Catanzaro, riformando la sentenza del
Tribunale della stessa sede, ha dichiarato l’illegittimità della
sanzione disciplinare, argomentando sulla sproporzione di essa in
ragione della saltuarietà dell’impegno, dell’assenza di interferenza
con il lavoro pubblico, della limitata remuneratività, della buona
fede del dipendente, iscrittosi alla gestione separata per il
trattamento previdenziale di quegli stessi compensi, valorizzando
poi la successiva richiesta di autorizzazione, in una sorta di
autodenuncia ed infine la mancanza di precedenti disciplinari;

l’I.N.P.S. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di un
motivo, resistito dal (OMISSIS) con controricorso;

CONSIDERATO CHE

l’unico motivo di ricorso denuncia (art. 360 n. 3 c.p.c.) la violazione
ed erronea applicazione dell’art. 2106 c.c., dell’art. 55, co. 2, d.
lgs. 165/2001, nonché dell’art. 1, co. 61 L. 662/1996 e del
Regolamento di disciplina dell’ente (artt. 1, co. 1, e 3 lett. g; art. 2,
co. 2), con riferimento all’art. 1362 e seguenti c.c. ed è
argomentato sostenendo che la Corte territoriale avrebbe fatto
malgoverno del principio di proporzionalità, tenuto anche conto che
la condotta era riconducibile alla previsione di cui all’art. 1, co. 61,
primo periodo, L. 662/1996, secondo cui la violazione del divieto di
svolgere qualsiasi altra attività di lavoro subordinato o autonomo in
assenza di autorizzazione, costituiva causa di decadenza
dall’impiego e dunque, in sostanza, motivo di licenziamento, sicché
non si poteva censurare la scelta dell’I.N.P.S. giunta ad applicare
una sanzione più mite;

il motivo è fondato;

è indubbio che l’illecito disciplinare contestato ricada sotto l’egida
dell’art. 1, co. 61, L. 662/1996, cit.
si tratta infatti di norma che, essendo entrata in vigore nel 1996,
non intercetta l’effetto abrogativo-disapplicativo di cui all’art. 69,
co. 1, del d.lgs. n. 165/2001, limitato alle norme vigenti al
13.1.1994 e dunque è persistentemente in vigore (v. anche Cass. 8
luglio 2011, n. 15098);

non ha poi rilievo il fatto che tale norma non sia stata richiamata
nella contestazione, in quanto i fatti che essa contempla sono
compresi in quelli addebitati dal datore di lavoro e l’applicazione di
essa ha rilievo solo sotto il profilo della sanzione applicabile e non
dunque della contestazione;

la violazione, come detto, giustificherebbe appunto anche il recesso
datoriale per giusta causa, cui va evidentemente riportata ora, nel
pubblico impiego, la decadenza sancita del comma 61 cit.;
è altrettanto indubbio che la norma non escluda, come questa S.C.
afferma costantemente (Cass. 11 settembre 2018, n. 22075; Cass.
16 aprile 2018, n. 9314; Cass. 14 dicembre 2016, n. 25750; Cass.
1 dicembre 2016, n. 24574; Cass. 19 settembre 2016, n. 18326;
Cass. 25 agosto 2016, n. 17335; Cass. 24 agosto 2016, n. 17304;
Cass. 26 gennaio 2016, n. 1351), in ciò avallata anche dalla
giurisprudenza costituzionale (Corte Costituzionale 23 giugno 2020,
n. 123) la necessaria valutazione di proporzionalità, la quale
potrebbe portare all’applicazione di una sanzione conservativa, nel
caso concreto;

sempre Corte Costituzionale 123/2020, cit., ha poi inteso la
giurisprudenza di questa S.C. nel senso che alla tipizzazione legale
essa «ricollega un’inversione dell’onere della prova, ponendo a
carico del dipendente, autore materiale del fatto tipico, l’onere di
provare la sussistenza di elementi fattuali di carattere attenuante o
esimente, idonei a superare la presunzione legale di gravità
dell’illecito», in proposito richiamando Cass. 11 luglio 2019, n.
18699; Cass. 11 settembre 2018, n. 22075; Cass. 19 settembre
2016, n. 18326 e Cass. 24 agosto 2016, n. 17304);

al di là di quest’ultimo profilo probatorio, appare inevitabile che, a
fronte di una previsione legale di licenziamento, il ragionamento
valutativo non possa prescindere da essa ed essere svolto con
totale astrattezza rispetto all’assetto valoriale che in tal modo la
norma esprime;

la Corte territoriale, invece, argomentando soltanto sulle previsioni
del Regolamento disciplinare e della clausola generale di
proporzionalità e gradualità ivi contenuta, ha completamente
trascurato di confrontarsi con tale assetto valoriale, insito nel fatto
stesso che la sanzione massima sia stabilita da una norma di legge,
con dinamica regolativa destinata a porre l’accento sulla intrinseca
gravità ed importanza della violazione per l’ordinamento in
generale ed a prescindere dai singoli settori della P.A. e delle loro
norme disciplinari di rango inferiore;

ciò vizia sotto il profilo della legittimità il ragionamento svolto solo
sulla base di una proporzionalità generica, non misurata a partire
proprio dalla base di partenza fornita dal dato normativo e
comporta l’accoglimento del motivo di ricorso e la cassazione della
sentenza;

né è fondato l’assunto del controricorrente in ordine ad
un’inammissibilità del ricorso e del motivo per il fatto di risultare
esso privo di specificazione della violazione di legge commessa e
per l’impingere di esso nella ponderazione di merito operata dal
giudice di appello;

in realtà, quest’ultima ponderazione è viziata in termini di
legittimità, per avere trascurato di considerare il parametro di base
normativo e valoriale da cui doveva invece muovere (v. anche
Cass. 26 marzo 2018, n. 7426) ed il motivo richiama a più riprese
l’art 1, co. 61, di cui assume la violazione, sicché l’eccezione va
disattesa;

non sono peraltro necessari ulteriori accertamenti di fatto e la
causa può quindi essere definita nel merito;

infatti, quanto alla tempestività della contestazione, non si può che
confermare quanto affermato dalla Corte territoriale, in quanto:

– la Direzione Generale I.N.P.S., raggiunta dalla richiesta di
autorizzazione all’incarico nel 2011, ha svolto accertamenti
presso la Banca, ottenendo, in data 28.9.2011, la conferma
che esso era iniziato nel 2009 ed informando, in data
5.10.2011, la Direzione Provinciale, la quale, il 6.10.2011, ha
trasmesso gli atti alla Direzione competente per i profili
disciplinari e, quindi, sostanzialmente, all’ufficio per i
procedimenti disciplinari;

– la contestazione si è avuta con atto del 25.10.2011 e notifica
avvenuta il 27.10.2011, sicché risulta in ogni caso rispettato
il termine di quaranta giorni desumibile dal combinato
disposto dell’art. 55-bis, co. 1, 2 e 4 d. lgs. 165/2001 nella
formulazione in allora vigente, tenuto conto dell’applicabilità
anche della sanzione espulsiva e poi, se del caso,
dell’avvenuta applicazione di una sospensione superiore ai
dieci giorni;

quanto alla proporzionalità, ritiene questa S.C. che, proprio
muovendo dalla astrattamente possibile sanzione espulsiva, pur
tenendosi conto degli elementi valutati dalla Corte di merito
(saltuarietà, scarsa remuneratività, non interferenza con i compiti
dell’ufficio, oltre che il non essersi occultato in toto il reddito,
sottoposto anzi a contribuzione previdenziale presso la gestione
separate, nonché il successivo ravvedimento e richiesta
dell’autorizzazione e l’assenza di precedenti disciplinari) non possa
dirsi che l’applicazione finale di una sanzione sospensiva per soli
quindici giorni sia sproporzionata, tenuto conto del protrarsi
dell’illecito disciplinare per un biennio;

l’impugnazione della sanzione va quindi disattesa;
l’esito alterno dei giudizi di merito consiglia la compensazione delle
spese rispetto ad essi, ponendosi a carico del (OMISSIS), stante la
soccombenza, le sole spese del giudizio di legittimità;
può anche esprimersi il seguente principio: «in ambito di lavoro
pubblico contrattualizzato e di sanzioni disciplinari per lo
svolgimento non autorizzato di attività di lavoro, la sanzione del
recesso datoriale di cui all’art. 1, comma 61 della legge n. 662 del
1996, non impone in tutti i casi il licenziamento del dipendente,
restando doverosa, secondo i principi generali, la valutazione di
proporzionalità, il cui apprezzamento non può essere tuttavia svolto
prescindendo totalmente dal disvalore del comportamento espresso
da quella previsione legale, in quanto tale valutazione va invece
sviluppata tenendo conto dell’importanza dei valori coinvolti (qui,
gli obblighi di fedeltà del pubblico dipendente, rilevanti anche ai
sensi dell’art. 98 della Costituzione), quale desumibile
dall’indicazione che le norme positive forniscono rispetto al
comportamento perseguito».

P.Q.M.

accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel
merito, rigetta l’originaria domanda. Compensa le spese dei gradi
di merito e condanna il (OMISSIS) al pagamento in favore
dell’I.N.P.S. delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in
euro 3.000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre
spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma nell’adunanza camerale del 24.01.2023.