Ordinanza 9304/2023
Espropriazione per pubblica utilità – Domanda di retrocessione – Decorrenza del trasferimento della proprietà – Mancato pagamento del prezzo
In materia di espropriazione per pubblica utilità, qualora venga accolta la domanda giudiziale di retrocessione proposta dal privato espropriato, con determinazione del relativo prezzo, l’effetto reale del trasferimento della proprietà si determina “ex nunc” nel momento del passaggio in giudicato della sentenza, indipendentemente dal pagamento del prezzo suddetto, con la conseguenza che, laddove il privato sia rimasto nel possesso del bene durante lo svolgimento della procedura di espropriazione e del successivo giudizio di retrocessione, il mancato pagamento, da parte sua, del prezzo stabilito nella menzionata sentenza integra un inadempimento, ma non esclude il venir meno del carattere abusivo di tale occupazione, ai fini del risarcimento del danno spettante alla Pubblica Amministrazione.
Danno da occupazione senza titolo di immobile – Peculiare natura del bene – Monumenti dall’indiscutibile rilevanza storica – Prova presuntiva
Con riguardo ad immobili del tutto peculiari (quali, ad esempio, monumenti dall’indiscutibile rilevanza storica), il danno patrimoniale da occupazione “sine titulo” può ritenersi dimostrato in virtù della prova presuntiva discendente dalle stesse particolari caratteristiche del bene. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva quantificato il danno per l’occupazione, a partire dal 1985, di una porzione di 160,40 mq. delle Mura Aureliane di Roma, in euro 399.664,83, condannando altresì gli occupanti a pagare al Comune l’ulteriore somma di euro 1.477,49 mensili, fino al rilascio della stessa).
Cassazione Civile, Sezione 3, Ordinanza 4-4-2023, n. 9304 (CED Cassazione 2023)
Art. 2043 cc (Risarcimento per fatto illecito)
FATTI DI CAUSA
1. Il Comune di Roma convenne in giudizio, davanti al
Tribunale di Roma, (OMISSIS) in (OMISSIS),
(OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS)
e (OMISSIS), tutti in qualità di eredi di
(OMISSIS) – dopo aver dato atto della pendenza, a quel
tempo, di un giudizio cominciato dai convenuti, davanti allo stesso
Tribunale, volto ad ottenere la retrocessione delle porzioni
immobiliari (di mq 109,73) di cui erano proprietari prima
dell’esproprio, in quanto non utilizzate dal Comune per la
realizzazione dell’opera pubblica – chiedendo la condanna dei
convenuti al rilascio dei beni ed al risarcimento dei danni per
illegittima occupazione, oltre rivalutazione ed interessi.
Espose il Comune, a sostegno della domanda, di aver
espropriato con decreto del Prefetto della Provincia di Roma n.
16583 del 13 dicembre 1965, in danno di (OMISSIS),
alcuni immobili di proprietà di quest’ultimo, adiacenti alle
Mura Aureliane, in prossimità dell’attuale Piazza Fiume, per la
sistemazione stradale prevista dagli strumenti urbanistici all’epoca
vigenti. Aggiunse che, pur avendo avuto il provvedimento di
esproprio un’attuazione pressoché integrale, i convenuti
continuavano ad occupare, senza corrispondere alcun corrispettivo
al Comune, alcune porzioni residue degli immobili di cui erano
proprietari prima dell’espropriazione.
La domanda di rilascio aveva ad oggetto, tra l’altro, le porzioni
delle Mura Aureliane (in totale di mq 160,40 convenzionali) che i
convenuti detenevano senza titolo, avendo creato dei collegamenti
tra gli immobili che occupavano (e di cui erano precedentemente
proprietari) e le ulteriori porzioni delle Mura Aureliane da loro
occupate. Il Comune chiese la condanna dei convenuti al
risarcimento dei danni cagionati dall’arbitraria occupazione di
queste ulteriori porzioni e dall’illegittima effettuazione di lavori
all’interno delle Mura.
Si costituirono in giudizio tutti i convenuti, tranne
(OMISSIS) in (OMISSIS) rimasta contumace,
domandando, preliminarmente, la sospensione del giudizio ex art.
39 cod. proc. civ., in quanto gli immobili in questione erano oggetto
dell’autonomo giudizio sulla retrocessione, ed eccependo, poi,
l’inefficacia del decreto di esproprio, stante il lungo lasso di tempo
trascorso. I convenuti chiesero poi che venisse accertato l’acquisto
della proprietà di quelle porzioni immobiliari che, non costituendo
beni demaniali, erano suscettibili di usucapione. Con riguardo,
invece, alla domanda risarcitoria, preliminarmente eccepirono la
prescrizione del relativo diritto e nel merito ne contestarono la
fondatezza.
Il Tribunale accolse la domanda per quanto di ragione e
condannò i convenuti al rilascio della parte di immobile costruita
sopra lo sperone delle Mura Aureliane (per la quale, trattandosi di
accessorio a bene demaniale, non avrebbe potuto invocarsi
l’intervenuta usucapione) e della porzione di Mura, di mq 127,70
convenzionali, al cui interno era stato realizzato un passaggio,
creando ambienti comunicanti in sequenza gli uni agli altri.
Il Tribunale condannò quindi i convenuti, in solido, al
risarcimento dei danni, liquidati in due diverse voci, l’una pari ad
euro 399.664,83 e l’altra pari ad euro 221.020,39. Con la prima
voce venne risarcito il danno per un’area della superficie
convenzionale di mq 160,40, non oggetto della domanda di
retrocessione, con gli interessi a decorrere dal 1985, posto che i
convenuti avevano eccepito la prescrizione quinquennale e il
Comune non aveva dimostrato l’esistenza di atti interruttivi. Con la
seconda voce, invece, venne risarcito il danno per un’area della
superficie convenzionale di mq 109,73 in relazione alla quale i
convenuti avevano vittoriosamente concluso il giudizio di
retrocessione. A proposito di questa seconda voce, il Tribunale
ritenne che il risarcimento dovesse decorrere dal 1985 fino al 23
agosto 2003, data in cui era stata pronunciata la sentenza
definitiva che aveva riconosciuto il diritto alla retrocessione
(sentenza 5 agosto 2003, n. 11839, della Corte di cassazione).
In aggiunta, il Tribunale condannò i convenuti al pagamento
dell’indennità da occupazione mensile, fissata in euro 1.477,49 al
mese, oltre interessi legali, in riferimento alla suindicata area di mq
160,40, decorrente dalla data di deposito della sentenza fino al
rilascio effettivo di quelle porzioni immobiliari (ai sensi dell’art.
1591 cod. civ.).
Il giudice di primo grado, infine, respinse la domanda di
risarcimento dei danni proposta dal Comune sia per l’arbitraria
effettuazione, da parte dei convenuti, di lavori all’interno delle Mura
Aureliane sia per l’effettuazione di lavori necessari al ripristino,
nonché per il danno all’immagine del Comune.
2. Avverso tale sentenza sono stati proposti separati appelli da
parte di (OMISSIS) ed (OMISSIS),
nonché con successivo atto da parte di (OMISSIS);
deceduta quest’ultima nelle more del giudizio, si è costituita la sua
erede (OMISSIS). Si sono poi costituiti nel giudizio di
appello (OMISSIS), in qualità di erede di
(OMISSIS), e (OMISSIS), quale erede di
(OMISSIS), i quali hanno aderito ai motivi di appello formulati dai
loro familiari e hanno chiesto, previo rinnovo della c.t.u., la riforma
della sentenza impugnata e l’integrale rigetto delle domande
avanzate dal Comune di Roma.
Nel giudizio si è costituita anche Roma Capitale (già Comune di
Roma), proponendo un appello incidentale tardivo ed un appello
incidentale condizionato.
Con sentenza del 12 giugno 2018 la Corte d’appello di Roma,
dopo aver disposto la riunione dei due appelli principali, li ha
rigettati entrambi e, accogliendo un solo motivo dell’appello
incidentale tardivo di Roma Capitale (nella parte in cui chiedeva
che l’indennità di occupazione fosse corrisposta non già fino al 23
agosto 2003, bensì fino alla data dell’impugnata sentenza del
Tribunale), ha riformato in parte la sentenza impugnata,
determinando nella maggior somma di euro 273.411,61, oltre
interessi dalla pronuncia di primo grado, il danno risarcibile relativo
alla porzione immobiliare addossata alle Mura Aureliane oggetto di
retrocessione in favore degli appellanti principali, regolando le
spese.
Ai limitati fini che interessano in sede di ricorso, si rileva che la
Corte territoriale ha trattato i motivi del gravame principale
ritenendo in essi assorbiti quelli del secondo appello, perché
sostanzialmente ripetitivi.
Ritenuta infondata la questione preliminare, posta dagli
appellanti, per cui il Comune di Roma non avrebbe esteso la
domanda risarcitoria agli immobili oggetto di retrocessione
nell’altro giudizio, limitando le proprie pretese risarcitorie ai soli
immobili oggetto della domanda di rilascio, la Corte d’appello ha
ritenuto infondata anche la questione di merito, posta nei gravami
principali, sulla genericità delle opere da loro effettuate all’interno
delle Mura Aureliane, e ha aggiunto che gli appellanti non potevano
vantare alcun interesse ad impugnare quel capo della pronuncia in
cui non erano soccombenti, visto che la sentenza del Tribunale non
aveva statuito sulle spese necessarie alla rimessione in pristino di
tale locale delle Mura.
La Corte territoriale ha ritenuto infondata la doglianza degli
appellanti principali relativa all’entità dei danni liquidati dal
Tribunale per l’abusiva occupazione della porzione immobiliare
addossata alle Mura Aureliane di mq 109,37 oggetto di
retrocessione. Ha affermato il giudice d’appello, a questo proposito,
la natura di sentenza costitutiva della pronuncia con cui si è
statuito sul diritto potestativo di retrocessione e ha chiarito che
l’effetto non può essere retroattivo, dovendo valere a partire dalla
statuizione definitiva sul punto ovvero dal concreto esercizio di tale
diritto per come costituito. E poiché quella porzione immobiliare,
benché oggetto di esproprio e poi di retrocessione, era sempre
rimasta nel possesso degli appellanti principali, la sentenza ha
stabilito che quella detenzione doveva considerarsi abusiva «fino
alla statuizione definitiva sulla domanda di retrocessione».
Esaminando tale questione, oggetto anche di uno dei motivi
dell’appello incidentale tardivo di Roma Capitale, la Corte romana
ha specificato che il diritto alla retrocessione dei beni espropriati,
che ha natura di diritto potestativo, «porta all’emissione di una
sentenza costitutiva che concretizza un nuovo atto di trasferimento
dei beni immobili, con evidente irretroattività della stessa
pronuncia, emessa ex nunc». Sulla base di questa premessa, la
sentenza ha accolto il motivo di appello del Comune, rilevando che
il risarcimento del danno relativo ai beni oggetto di retrocessione
non poteva essere limitato, come aveva fatto il Tribunale, al
periodo che va fino al 23 agosto 2003, data di pubblicazione della
citata sentenza della Corte di cassazione, ma doveva essere
calcolato tenendo presente che al momento del deposito della
sentenza di primo grado la retrocessione non era, in effetti,
avvenuta, perché il prezzo non era stato pagato. Per cui
l’occupazione di quella porzione doveva ritenersi abusiva almeno
fino al deposito della sentenza del Tribunale, cioè per un periodo di
22 anni, 6 mesi e 15 giorni. La relativa voce risarcitoria è stata
quindi rideterminata nella somma, già indicata, di euro 273.411,61,
oltre interessi.
La Corte d’appello, infine, ha rigettato i motivi quinto, sesto e
settimo degli appelli principali, aventi ad oggetto la liquidazione del
danno relativo alle porzioni di immobili non oggetto di
retrocessione. Ha rilevato, a questo proposito, che il danno era
stato determinato dal Tribunale in euro 15.000 a metro quadrato
con somma attualizzata al 1999, e quindi su valori medi tra la data
di inizio della causa e quella di pronuncia della sentenza. In
riferimento, poi, all’indennità di occupazione mensile dalla data
della sentenza e fino al rilascio (sempre in riferimento alla
superficie suindicata di mq 160,40), la sentenza ha osservato che
tale indennità (pari ad euro 1.477,49) aveva ad oggetto beni
immobili occupati dagli appellanti «senza alcun titolo, malgrado la
indiscussa natura di bene demaniale della storica cinta muraria
della città». Non sussisteva, quindi, «alcuna assenza di domanda di
Roma Capitale», avendo quest’ultima chiesto il risarcimento a
partire dall’occupazione del bene, avvenuta nel 1930, danno
limitato a decorrere dal 1985 a causa dell’eccepita prescrizione.
Quanto, infine, alla presunta eccessività del quantum liquidato
(settimo motivo), la Corte capitolina l’ha rigettato rilevando che la
contestazione non teneva in alcun conto la grande durata
dell’occupazione e la particolarità del bene storico in questione.
3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Roma
propongono ricorso principale (OMISSIS),
(OMISSIS), (OMISSIS), quale erede di
(OMISSIS), (OMISSIS), quale erede di
(OMISSIS), e (OMISSIS), quale erede di (OMISSIS),
con un unico atto affidato a quattro motivi e affiancato
da memoria.
Resiste Roma Capitale con un controricorso contenente ricorso
incidentale affidato a tre motivi.
I ricorrenti principali resistono con controricorso al ricorso
incidentale di Roma Capitale.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo del ricorso principale si lamenta, in
riferimento all’art. 360, primo comma, n. 4), cod. proc. civ., nullità
della sentenza per omessa pronuncia sul gravame relativo alla
prescrizione dedotto con l’appello, in violazione dell’art. 112 cod.
proc. civ., per non aver la Corte territoriale esaminato il motivo di
impugnazione relativo all’intervenuta prescrizione del diritto al
risarcimento del danno.
2. Con il secondo motivo del ricorso principale i ricorrenti
propongono la medesima censura di cui al primo motivo, sotto il
profilo della violazione o falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc.
civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ.,
per omessa pronuncia sul motivo d’appello relativo all’intervenuta
prescrizione del diritto al risarcimento dei danni.
3. Osservano i ricorrenti che il giudice d’appello, dopo aver
ritenuto assorbiti i motivi del secondo gravame principale, in
quanto sostanzialmente ripetitivi di quelli dedotti con il primo
gravame principale, avrebbe omesso del tutto di pronunciarsi sulla
domanda formulata, nel secondo appello principale, da Maria
(OMISSIS) in relazione all’omessa pronuncia del Tribunale
sull’eccezione di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni
sollevata dai convenuti in primo grado, con ciò violando l’art. 112
cod. proc. civ.
Secondo quanto sostenuto dai ricorrenti, nessuna richiesta
risarcitoria avrebbe potuto avanzare il Comune di Roma, perché
ampiamente prescritta, ai sensi dell’art. 2947 cod. civ., in assenza
di validi atti interruttivi.
4. Osserva la Corte che i due motivi, da trattare
congiuntamente in considerazione dell’evidente connessione tra
loro esistente, sono privi di fondamento.
La Corte d’appello (pag. 5 della sentenza impugnata,
terzultimo e penultimo capoverso) ha rilevato che la domanda di
risarcimento dei danni era stata proposta dal Comune di Roma a
far data dal 1930 e che il Tribunale aveva limitato l’accoglimento
della stessa entro il termine quinquennale della prescrizione,
calcolando perciò il risarcimento a decorrere dal 1985, posto che il
giudizio era cominciato nel 1990. Gli stessi ricorrenti ne danno atto
nel ricorso a pag. 5, ultimo capoverso. Tale decisione è corretta,
perché il danno da occupazione temporanea costituisce illecito che
si rinnova de die in diem.
La Corte d’appello, pur avendo ammesso che, come sostenuto
dai ricorrenti, nel secondo appello principale era stata dedotta
l’omessa pronuncia del Tribunale sull’eccezione di prescrizione
(omessa pronuncia che, per le ragioni appena esposte, non c’è,
visto che il Tribunale aveva accolto tale eccezione), ha comunque
confermato quanto statuito dal giudice di primo grado; per cui non
può parlarsi di omessa pronuncia, ma, tutt’al più, di rigetto
implicito, derivante dal complesso delle argomentazioni contenute
nella sentenza impugnata.
Non senza osservare che i motivi in esame, di per sé non
molto chiari nella formulazione, non consentono di comprendere
quale ulteriore eccezione di prescrizione avrebbe dovuto essere
accolta.
5. Con il terzo motivo del ricorso principale si lamenta, in
riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ.,
violazione o falsa applicazione dell’art. 2043 cod. civ. e degli artt.
46 e 47 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, riguardo all’abusiva
occupazione dei beni retrocessi.
I ricorrenti sostengono che la Corte d’appello avrebbe errato
nel condannarli al risarcimento dei danni per l’illegittima
occupazione dei beni oggetto di retrocessione, in quanto il fatto
stesso che la Corte di cassazione abbia costituito, nel 2003, con
sentenza, il diritto di retrocessione in loro favore dimostrerebbe che
l’occupazione di quelle porzioni immobiliari era legittima.
In particolare, i ricorrenti censurano la sentenza del giudice di
secondo grado sia nella parte in cui ha rigettato l’appello principale
dei (OMISSIS), volto a contestare il carattere abusivo
dell’occupazione, sia nella parte in cui ha accolto l’appello
incidentale tardivo di Roma Capitale, teso a chiedere il risarcimento
dei danni per occupazione abusiva di quella porzione immobiliare
anche dopo la sentenza della Corte di cassazione, che aveva
statuito la retrocessione dei beni, fino alla sentenza del giudice di
prime cure nel presente giudizio. La censura osserva che
l’intervenuta decadenza della dichiarazione di pubblica utilità fa
venire meno il titolo giuridico di Roma Capitale su quei beni, con
conseguente infondatezza di ogni pretesa risarcitoria. Nella specie,
poiché il giudizio per la retrocessione era cominciato nel 1973, il
Comune non potrebbe lucrare un risarcimento per tutta la durata
dello stesso, conclusosi con la sentenza n. 11839 del 2003 di
questa Corte.
6. Ragioni di ordine logico impongono di esaminare questo
motivo del ricorso principale insieme al primo motivo del ricorso
incidentale di Roma Capitale, nel quale si lamenta, in riferimento
all’art. 360, primo comma, n. 4), cod. proc. civ., nullità della
sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per
aver omesso il giudice d’appello di pronunciarsi sul motivo di
appello incidentale, contrassegnato con la lettera c) delle
conclusioni, proposto dallo stesso Comune, con cui si chiedeva la
condanna di tutti gli appellanti e di tutti gli altri convenuti nel
giudizio di primo grado e dei loro eredi a corrispondere una somma
di denaro mensile a titolo di indennità o di risarcimento dei danni
per l’abusiva occupazione delle porzioni immobiliari di mq 109,73,
poi oggetto di retrocessione, non solo fino alla pubblicazione della
sentenza del Tribunale, ma anche fino all’effettivo rilascio degli
immobili o alla concreta corresponsione del prezzo di retrocessione.
Ritiene il ricorrente incidentale che l’occupazione abusiva
continui a perpetrarsi anche dopo la sentenza del Tribunale e che,
di conseguenza, la Corte territoriale – avendo ritenuto abusiva
l’occupazione dei (OMISSIS) per mancato pagamento del prezzo di
retrocessione e dato che tale pagamento non era ancora stato
eseguito, come ammesso anche dai ricorrenti principali – avrebbe
dovuto accogliere anche quell’ulteriore motivo di appello,
ampliando il relativo risarcimento. Ciò in quanto il Comune
dovrebbe essere considerato ancora proprietario fino a quando il
prezzo di retrocessione non verrà corrisposto.
7. Questi due motivi vanno evidentemente trattati insieme,
perché hanno ad oggetto il medesimo problema, visto da
angolazioni opposte.
I ricorrenti principali ritengono che, una volta intervenuta la
pronuncia di accoglimento della domanda di retrocessione,
l’originaria espropriazione diventerebbe retroattivamente
illegittima, con conseguente infondatezza della relativa pretesa
risarcitoria di Roma Capitale, nonostante la pacifica permanenza
degli stessi ricorrenti nei beni originariamente espropriati.
Roma Capitale, viceversa, sostiene una tesi uguale e contraria,
e cioè che l’obbligazione risarcitoria permarrebbe in capo agli
espropriati, nonostante la sopravvenuta decisione irrevocabile di
accoglimento della domanda di retrocessione, fino a quando il
prezzo di quest’ultima non venga effettivamente pagato.
La Corte d’appello ha seguito una tesi intermedia, estendendo
l’obbligazione risarcitoria – che il Tribunale aveva fatto terminare
alla data del passaggio in giudicato della sentenza di questa Corte
che rendeva irrevocabile l’accoglimento della domanda di
retrocessione – fino al deposito della sentenza di primo grado.
7.1. I due motivi di ricorso ora sunteggiati pongono una serie
di questioni concatenate.
In particolare, il problema di fondo sul quale questa Corte è
chiamata a pronunciarsi consiste nello stabilire se la retrocessione
si perfezioni con la pronuncia della sentenza definitiva che tale
diritto riconosca, a prescindere dal pagamento del prezzo da parte
dei privati, oppure se tale retrocessione non possa considerarsi
perfezionata fin tanto che non venga pagato il relativo prezzo. Nel
caso specifico, poi, la questione è resa più complessa dal fatto che,
mentre normalmente i privati che agiscono per la retrocessione
hanno dismesso il possesso dei beni oggetto di espropriazione e
attendono la retrocessione per ripristinarlo, nella vicenda che ci
occupa è pacifico che i privati, cioè gli odierni ricorrenti principali,
sono rimasti nel possesso di quella parte dei beni loro espropriati
dei quali hanno poi ottenuto la retrocessione. Per cui si è posto ai
giudici di merito il problema di stabilire fino a quando i privati
debbano essere ritenuti occupanti illegittimi, con conseguente
obbligo risarcitorio nei confronti di Roma Capitale.
7.2. Giova innanzitutto premettere che la presente causa è
regolata, ratione temporis, dalle norme della legge 25 giugno 1865,
n. 2359 (artt. 60-63), anche se il meccanismo delineato dagli artt.
46 e 47 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, attualmente vigente, ne
ripercorre, in sostanza, le medesime caratteristiche fondamentali.
Deve essere in proposito ricordato che la giurisprudenza di
questa Corte ha da tempo stabilito che la retrocessione dei beni
espropriati attua, nel concorso delle condizioni previste dalla legge,
un nuovo trasferimento di proprietà, con efficacia ex nunc, del bene
espropriato e non utilizzato dall’espropriante, in conseguenza
dell’esercizio del diritto potestativo dell’espropriato di ottenere il
ritrasferimento mediante una sentenza costitutiva che modifichi la
situazione giuridica posta in essere dal provvedimento
espropriativo; ne consegue che il prezzo di retrocessione va
determinato con riferimento al momento della pronuncia di
retrocessione, costituendo essa il titolo di trasferimento del bene
espropriato (così le Sezioni Unite, sentenza 8 giugno 1998, n.
5619, ribadita, tra le altre, dalla sentenza 24 maggio 2004, n.
9899, e dalle ordinanze 8 marzo 2018, n. 5574, e 23 settembre
2021, n. 25825).
La giurisprudenza, del resto, già prima della decisione delle
Sezioni Unite ora richiamata, aveva affermato che la retrocessione,
lungi dal porre nel nulla il decreto di espropriazione, ne presuppone
la perdurante operatività, senza eliminarne gli effetti ma
producendone di nuovi; effetti che si determinano, appunto, ex
nunc nel momento in cui viene pronunciata la sentenza che, in
difetto di accordo amichevole, tenga luogo della volontà delle parti
e determini il relativo prezzo (sentenze 6 marzo 1992, n. 2715, e
20 febbraio 1998, n. 1776).
In piena sintonia con questa giurisprudenza è anche la già
citata sentenza n. 11839 del 2003 pronunciata nella vicenda
odierna, nella quale questa Corte rigettò il ricorso proposto dagli
eredi (OMISSIS), odierni ricorrenti principali, rendendo
irrevocabile la sentenza 28 giugno 1999 della Corte d’appello di
Roma che aveva determinato nella somma di lire 556.349.000 il
prezzo della retrocessione.
7.3. Il consolidato principio giurisprudenziale ora ricordato, al
quale l’odierna pronuncia intende dare ulteriore continuità e che è
stato seguito anche dalla Corte d’appello di Roma, non risolve però
del tutto il problema in esame, che il Collegio ritiene debba essere
affrontato avvalendosi dei principi generali contenuti nel codice
civile, non essendoci alcuna specifica previsione sul punto né nella
legge n. 2359 del 1865 né nel d.P.R. n. 327 del 2001.
È certo che la retrocessione non richiede necessariamente la
pronuncia di una sentenza, posto che sia l’art. 60, secondo comma,
della legge n. 2359 del 1865 sia l’art. 48, comma 1, del d.P.R. n.
327 del 2001 prevedono la possibilità che il prezzo sia determinato
amichevolmente ovvero in via concordata tra le parti. Se però,
com’è avvenuto nel caso di specie, tale accordo non c’è – tanto che
gli eredi (OMISSIS) hanno dovuto promuovere un lungo giudizio
per vedersi riconoscere il loro diritto alla retrocessione – la
giurisprudenza suindicata stabilisce che in tal caso il prezzo debba
essere determinato dal giudice nella sentenza; ed è quanto si è
verificato anche nel caso odierno. Deve quindi muoversi dal
presupposto secondo cui il passaggio in giudicato della sentenza
che riconosce irrevocabilmente la fondatezza della domanda dei
privati espropriati di ottenere la retrocessione tiene luogo, per così
dire, del mancato accordo tra le parti; di talché il diritto insorge nel
momento in cui tale passaggio in giudicato si perfeziona. Gli
sviluppi successivi devono svolgersi nel rispetto delle regole
generali, fra le quali in primo luogo quella contenuta nell’art. 1376
cod. civ., secondo cui nei contratti con effetti reali «la proprietà o il
diritto si trasmettono e si acquistano per effetto del consenso delle
parti legittimamente manifestato». E poiché non c’è stato un
contratto con una manifestazione di consenso, la sentenza
sostituisce a tutti gli effetti il mancato consenso; per cui l’effetto
reale consegue alla definitività della pronuncia (v. in tal senso già
la sentenza 27 gennaio 1998, n. 771).
D’altra parte, assumendo come riferimento, solo ai fini di un
inquadramento sistematico della vicenda, le norme sul contratto di
compravendita, al quale consegue il trasferimento della proprietà di
una cosa o il trasferimento di un altro diritto (art. 1470 cod. civ.),
si ha che il pagamento del prezzo costituisce una delle obbligazioni
del compratore (art. 1498 cod. civ.), che però non pospone ad un
momento successivo il trasferimento della proprietà o del diritto in
oggetto. Da un punto di vista giuridico, il vittorioso esperimento del
diritto potestativo di retrocessione dei beni espropriati determina
un nuovo trasferimento della proprietà del bene; da ciò consegue
l’obbligazione, per il privato, di pagare il prezzo stabilito in
sentenza. Se tale obbligazione non viene adempiuta, il privato sarà
inadempiente, ma non per questo potrà essere considerato un
occupante illegittimo ai fini dell’obbligazione risarcitoria, perché il
passaggio di proprietà si è ormai perfezionato e l’espropriazione
giuridicamente non esplica più alcun effetto.
Il Collegio non ritiene, pertanto, di poter condividere il remoto
precedente di cui alla sentenza 3 settembre 1994, n. 7628 – unico,
a quanto consta, ad aver affrontato il problema – secondo cui il
riacquisto del diritto di proprietà si verrebbe a determinare solo
dopo che, determinato il prezzo, esso sia stato pagato. Nella citata
sentenza, infatti, tale conclusione non risulta motivata ex professo,
posto che la decisione è centrata sull’affermazione, del tutto
condivisibile, per cui la retrocessione ha effetto ex nunc; ma non
pone alcuna argomentazione a supporto dell’ulteriore (non
condiviso) passaggio.
Alla luce del complesso di tali considerazioni emerge come sia
sostanzialmente irrilevante il problema, del quale le parti hanno
pure lungamente dibattuto, dell’individuazione di chi sia
“responsabile” del mancato pagamento del prezzo di retrocessione.
La vicenda in esame, infatti, ha ad oggetto la necessità di stabilire
il momento a partire dal quale gli odierni ricorrenti principali non
possono più essere considerati occupanti abusivi; e tale momento
deve coincidere, come correttamente aveva stabilito il Tribunale di
Roma, con la data del passaggio in giudicato della sentenza che
stabilisce in via definitiva il riconoscimento del diritto alla
retrocessione.
Consegue da quanto detto che il terzo motivo del ricorso
principale è fondato nei sensi qui chiariti, perché Roma Capitale
avrà diritto al risarcimento fino al momento in cui la retrocessione
non sia divenuta irrevocabile e non dopo; mentre il primo motivo
del ricorso incidentale deve specularmente essere rigettato.
8. Con il quarto motivo del ricorso principale si lamenta, in
riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ.,
violazione o falsa applicazione degli artt. 1226, 2043, 2056 e 2697
cod. civ., in relazione al danno da illegittima occupazione dei beni
espropriati.
Il motivo censura il fatto che la sentenza impugnata abbia
riconosciuto a favore del Comune un danno da occupazione abusiva
senza porsi il problema dell’effettiva dimostrazione dello stesso.
Viene richiamata, su questo punto, la giurisprudenza anche recente
che esclude la configurabilità di un danno in re ipsa in relazione
all’occupazione abusiva di beni immobili, specificando che il
Comune non avrebbe non solo provato il danno, ma neppure
allegato la sua esistenza.
8.1. Il Collegio rileva, innanzitutto, che questo motivo non è
chiarissimo nella sua formulazione, perché sembra porre in dubbio
l’esistenza del diritto di Roma Capitale al risarcimento del danno
per tutti i beni oggetto di espropriazione. Dal testo della sentenza
impugnata e dall’impostazione complessiva del ricorso principale
deve ritenersi pacifico, invece, che la contestazione riguarda la
condanna, pronunciata dal Tribunale e confermata dalla Corte
d’appello, al pagamento della somma di euro 399.664,83 per
l’occupazione di un’area della superficie convenzionale di mq
160,40, non oggetto della domanda di retrocessione, nonché quella
al pagamento dell’indennità da occupazione mensile, fissata in euro
1.477,49 al mese, oltre interessi legali, in riferimento alla stessa
area di mq 160,40, decorrente dalla data di deposito della sentenza
fino al rilascio effettivo di quelle porzioni immobiliari (ai sensi
dell’art. 1591 cod. civ.). Tale deduzione si impone perché il danno
relativo alla parte dei beni oggetto della retrocessione è stato
oggetto del precedente motivo di ricorso.
Va poi rigettata l’eccezione, sollevata da Roma Capitale,
secondo cui il motivo in esame sarebbe inammissibile per essere
passata in giudicato la sentenza di primo grado in ordine alla
sussistenza dell’an del diritto al risarcimento del danno, avendo i
privati asseritamente censurato soltanto l’esistenza di una prova
sul quantum. L’eccezione, pure in astratto condivisibile, è destituita
di fondamento nel caso specifico, poiché dal complessivo tenore
della sentenza impugnata e degli atti difensivi delle parti risulta
palese che la contestazione degli eredi (OMISSIS) era su questo
punto globale, di talché non potrebbe ritenersi esistente un
giudicato sull’an.
8.2. Ciò premesso, la Corte ritiene che la censura sia priva di
fondamento.
Com’è stato rilevato dai ricorrenti principali nella memoria
difensiva di cui all’art. 378 cod. proc. civ., la questione posta dal
motivo in esame è stata affrontata nella recente sentenza 15
novembre 2022, n. 33645, delle Sezioni Unite di questa Corte.
La citata decisione ha enunciato, tra l’altro, il principio di
diritto secondo cui, in tema di risarcimento del danno da
occupazione senza titolo di un bene immobile da parte di un terzo,
il proprietario è tenuto ad allegare, quanto al danno emergente, la
concreta possibilità di godimento perduta e, quanto al lucro
cessante, lo specifico pregiudizio subito (sotto il profilo della perdita
di occasioni di vendere o locare il bene a un prezzo o a un canone
superiore a quello di mercato), di cui, a fronte della specifica
contestazione del convenuto, è chiamato a fornire la prova anche
mediante presunzioni o il richiamo alle nozioni di fatto rientranti
nella comune esperienza. In caso di impossibilità di provare tale
danno nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con
valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del
canone locativo di mercato.
Le Sezioni Unite avevano in esame un caso in cui la
controversia era tra due parti private. Tant’è che la stessa
decisione ha avuto cura di precisare (v. punto 4.8. della
motivazione) come la situazione sia diversa in relazione alla
fattispecie di cui all’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001, nella
quale la determinazione forfettaria dell’indennizzo trova il suo
fondamento nel rapporto «fra privato e pubblica amministrazione,
istituzionalmente asimmetrico dal punto di vista del potere». Il
passaggio ora menzionato, però, non può essere utilmente seguito
ai fini della risoluzione del problema oggi in esame, perché le
Sezioni Unite fanno chiaro riferimento ad un’ipotesi in cui è la
Pubblica Amministrazione ad arrecare il danno al privato, mentre
nella vicenda odierna la situazione è capovolta, perché è Roma
Capitale a lamentare il danno conseguente al protrarsi
dell’illegittima occupazione da parte dei privati. Devono quindi
valere le regole generale di cui alla citata pronuncia, alla quale va
data continuità.
La sentenza impugnata, però, benché motivata in modo molto
stringato (e non solo su questo punto), resiste alle censure dei
ricorrenti in considerazione dell’assoluta particolarità della vicenda.
Non si sta discutendo, infatti, di un immobile qualsiasi per il
quale il privato è tenuto a dimostrare l’effettiva esistenza di un
danno conseguente all’occupazione senza titolo da parte del terzo.
L’immobile in questione è costituito da un segmento del complesso
delle Mura Aureliane della città di Roma, monumento unico e di
rilevanza storica indiscutibile, in relazione al quale si è protratta per
un tempo lunghissimo – e, a quanto pare, dura ancora – una
situazione di abusiva occupazione da parte degli odierni ricorrenti
principali. La sentenza impugnata ha affermato, dimostrando piena
consapevolezza del problema, la «particolare difficoltà di elaborare
un valore in assenza di parametri di riferimento (valori locatizi),
non essendovi ovviamente un immobile simile oggetto di
locazione». Come correttamente ha osservato Roma Capitale nel
suo controricorso, è impensabile che le Mura Aureliane possano
essere gestite e utilizzate come un immobile qualunque; così com’è
evidente che un ente territoriale come Roma Capitale non può
avviare trattative come un qualsiasi privato, e men che meno fino a
quando il bene è occupato.
Ne consegue che, in considerazione della particolarità del
bene, dell’estrema difficoltà di dimostrare l’entità del danno
economico derivante dall’occupazione senza titolo, della
complessità delle procedure alle quali gli enti territoriali devono
fare ricorso in simili casi e di tutti gli elementi della vicenda,
globalmente considerati, il danno debba considerarsi dimostrato in
modo sufficiente attraverso la prova presuntiva, che è
implicitamente ma chiaramente individuata nella motivazione della
Corte d’appello.
Dal che deriva il rigetto del quarto motivo.
9. Con il secondo motivo di ricorso incidentale Roma Capitale
lamenta nullità della sentenza, in relazione all’art. 360, primo
comma, n. 4) cod. proc. civ., per violazione dell’art. 112 cod. proc.
civ., per aver omesso il giudice d’appello di pronunciarsi sul motivo
d’appello incidentale, contrassegnato con la lettera d) delle
conclusioni, proposto dallo stesso Comune al fine di chiedere la
condanna, in solido, di tutti gli appellanti nonché di tutti gli altri
convenuti nel giudizio di primo grado e dei loro eredi al pagamento
di una somma da valutare equitativamente, ex art. 1226 cod. civ.,
sia per l’arbitraria effettuazione di lavori di chiusura delle Mura
Aureliane ed all’interno delle stesse sia per l’effettuazione dei lavori
di ripristino dello status quo ante, nonché per il danno da lesione
dell’immagine del Comune, cagionato dall’effettuazione di tali lavori
ed opere abusivi.
Secondo il ricorrente incidentale, la Corte territoriale avrebbe
omesso di pronunciarsi su questo motivo di appello. Nonostante la
testimonianza e la c.t.u. nel corso del giudizio di primo grado
abbiano confermato che tutti i convenuti, sfruttando l’aderenza
dell’immobile da loro occupato con le Mura Aureliane, abbiano
ricavato ulteriori superfici, il Tribunale avrebbe errato nel ritenere
non provato il danno da parte del Comune e nel non quantificarlo in
via equitativa ex art. 1226 cod. civ.; e la Corte d’appello avrebbe
omesso di pronunciarsi sulla censura dallo stesso Comune proposta
in relazione a questo punto.
9.1. Il motivo è fondato.
È vero, come osservano i ricorrenti principali nel controricorso
al ricorso incidentale, che la sentenza sembra aver affrontato il
punto nel secondo e terzo capoverso di p. 4 della motivazione.
La Corte rileva, però, che, anche volendo trascurare l’estrema
stringatezza dei passaggi ivi contenuti, trascritti nel controricorso
degli eredi (OMISSIS) – stringatezza che non consente di capire
affatto di quali beni e di quale domanda si stia parlando – resta il
fatto decisivo che quella parte della motivazione ha ad oggetto gli
appelli principali, cioè quelli dei privati espropriati. Dal testo residuo
della motivazione non risulta, invece, che la Corte d’appello si sia
occupata del diverso problema – che Roma Capitale aveva posto
come motivo di appello incidentale (lettera d) – costituito dalla
domanda di risarcimento dei danni per l’arbitraria effettuazione di
lavori di chiusura e di modifica dell’interno delle Mura Aureliane
asseritamente compiuti dagli odierni ricorrenti principali, nonché
del danno all’immagine arrecato.
La domanda era stata esaminata e rigettata dal Tribunale, ma
l’appello incidentale non risulta aver avuto una risposta, quale che
sia; né può parlarsi di rigetto implicito, perché le argomentazioni
utilizzate non consentono di fare riferimento a simile ipotesi.
L’omissione di pronuncia impone, dunque, l’accoglimento del
motivo in esame.
10. Con il terzo motivo del ricorso incidentale si lamenta, in
relazione all’art. 360, primo comma, n. 4) cod. proc. civ.,
violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per aver la Corte d’appello
omesso di pronunciarsi sulla richiesta di stralcio ritualmente
formulata nel giudizio d’appello.
Il Comune di Roma chiede la cassazione della sentenza
impugnata nella parte in cui avrebbe omesso di pronunciarsi sulla
richiesta di stralcio, formulata nel giudizio d’appello, della
documentazione tardivamente depositata nel giudizio d’appello in
data 21 dicembre 2015, unitamente alle comparse di costituzione e
risposta, nonché nell’ulteriore documentazione depositata,
anch’essa tardivamente, all’udienza del 24 febbraio 2016.
10.1. Il motivo è inammissibile.
Osserva la Corte che, anche volendo trascurare l’irritualità del
modo col quale la questione è stata posta (v. ricorso incidentale di
Roma Capitale a p. 24, dove si sta rispondendo, in effetti, al terzo
motivo del ricorso principale), la censura è del tutto generica in
quanto priva di specificità; e comunque non vi è prova certa del
fatto che la questione sia stata posta davvero nel giudizio di
merito.
11. In conclusione, sono rigettati i motivi primo, secondo e
quarto del ricorso principale e il primo motivo del ricorso
incidentale; è dichiarato inammissibile il terzo motivo del ricorso
incidentale; sono accolti il terzo motivo del ricorso principale, nei
sensi di cui in motivazione, e il secondo motivo del ricorso
incidentale.
La sentenza impugnata è cassata in relazione e il giudizio è
rinviato alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione
personale, la quale deciderà il merito attenendosi al seguente
principio di diritto:
«In materia di espropriazione per pubblica utilità, qualora
venga accolta la domanda giudiziale di retrocessione proposta dal
privato espropriato, con determinazione del relativo prezzo,
l’effetto reale del trasferimento della proprietà si determina ex nunc
nel momento del passaggio in giudicato della sentenza che accoglie
tale domanda e a prescindere dal pagamento del relativo prezzo.
Ne consegue che, ove il privato espropriato sia rimasto nel
possesso del bene durante lo svolgimento della procedura di
espropriazione e del successivo giudizio di retrocessione, il mancato
pagamento, da parte sua, del prezzo stabilito in sentenza
costituisce inadempimento, ma non impedisce il venire meno del
carattere abusivo di tale occupazione ai fini del risarcimento del
danno spettante alla Pubblica Amministrazione».
Al giudice di rinvio è demandato anche il compito di liquidare
le spese del presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta i motivi primo, secondo e quarto del ricorso
principale e il primo motivo del ricorso incidentale; dichiara
inammissibile il terzo motivo del ricorso incidentale; accoglie il
terzo motivo del ricorso principale, nei sensi di cui in motivazione,
e il secondo motivo del ricorso incidentale, cassa la sentenza
impugnata in relazione e rinvia alla Corte d’appello di Roma, in
diversa composizione personale, anche per le spese del giudizio di
cassazione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza
Sezione Civile, il 10 febbraio 2023.