Sentenza 9867/2017
Licenziamento individuale – Applicazione della tutela reale o obbligatoria – Riparto degli oneri probatori
In tema di riparto dell’onere probatorio, ai fini dell’applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia accertata l’invalidità, sono fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività e, sul piano processuale, dell’azione di impugnazione del licenziamento, esclusivamente l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto espulsivo, mentre le dimensioni dell’impresa, inferiori ai limiti stabiliti dall’art. 18 st.lav., costituiscono, insieme al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi che devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro. L’assolvimento di un siffatto onere probatorio consente a quest’ultimo di dimostrare, ex art. 1218 c.c., che l’inadempimento degli obblighi derivatigli dal contratto non è a lui imputabile e che, comunque, il diritto del lavoratore a riprendere il suo posto non sussiste, con conseguente necessità di ridurre il rimedio da lui esercitato al risarcimento pecuniario, perseguendo, inoltre, la finalità di non rendere troppo difficile l’esercizio del diritto del lavoratore, il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della “disponibilità” dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell’impresa.
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza 19-4-2017, n. 9867 (CED Cassazione 2017)
Art. 2697 cc (Onere della prova) – Giurisprudenza
Art 1218 cc (Responsabilità del debitore) – Giurisprudenza
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza n. 263/2015, depositata il 19/6/2015, la Corte di appello di Caltanissetta, in riforma della sentenza del Tribunale di Gela, dichiarava illegittimo il licenziamento intimato ad (OMISSIS), con lettera del 23/9/2013, dalla (OMISSIS) s.n.c. a motivo di “continue assenze” del lavoratore; sul piano delle conseguenze, condannava la società a reintegrare il (OMISSIS) nel posto di lavoro e a corrispondergli, a titolo di risarcimento, una indennità pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, dedotto quanto lo stesso aveva percepito nel periodo di estromissione per lo svolgimento di altre attività lavorative.
La Corte riteneva, diversamente dal giudice di primo grado, di non poter condividere la tesi della società, secondo cui le prestazioni di lavoro sarebbero state rese nell’ambito di un rapporto societario di fatto, oggetto di accordo simulatorio tra il (OMISSIS) e il reclamante, per la gestione di un impianto di distribuzione di carburanti in (OMISSIS), rilevando, in particolare, come la società non avesse prodotto alcuna scrittura privata, dalla quale risultasse l’esistenza del contratto dissimulato, nè dimostrato di essere stata solo formalmente titolare dell’impianto (mentre la titolarità effettiva sarebbe stata in capo alla società di fatto), nè allegato, e poi chiesto di dimostrare, l’esistenza dì un patto sociale ed i suoi elementi costitutivi, quali la creazione di un fondo comune o il riparto dei guadagni e delle perdite; nè la prova della natura simulata dell’instaurato rapporto di lavoro poteva desumersi dalle risultanze delle prove per testi, che avevano fornito elementi di segno contrario, o dalla circostanza che per un anno e mezzo il (OMISSIS) non avesse percepito le retribuzioni, pur essendo stati regolarmente versati all’INPS i contributi dovuti, potendo la circostanza spiegarsi con la destinazione delle relative somme alla copertura dei costi di costituzione della società con il (OMISSIS) e di trasferimento ad essa del contratto di gestione dell’impianto.
La Corte escludeva, quindi, che il licenziamento potesse qualificarsi, così come dedotto in via principale, di natura ritorsiva, trattandosi invece di licenziamento illegittimo per insussistenza del fatto materiale contestato, non essendo nè ingiustificato nè contrario a buona fede il rifiuto del lavoratore di adempiere a fronte del mancato pagamento delle retribuzioni. Quanto infine alle conseguenze del licenziamento, la Corte le individuava nella disciplina di cui alla L. n. 92 del 2012, articolo 18, comma 4, non avendo la società datrice di lavoro dimostrato di essere un’impresa in regime di tutela obbligatoria.
Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la (OMISSIS) s.n.c. con sei motivi; il (OMISSIS) ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, deducendo violazione degli articoli 1414 e 1417 c.c. nonchè, e per l’effetto, del disposto di cui all’articolo 2094 c.c. e articolo 409 c.p.c., la società ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la Corte territoriale, omettendo di compiere un esame globale e complessivo di tutte le risultanze istruttorie considerate nel loro insieme, erroneamente ritenuto di dover individuare riscontri in ordine all’accordo simulatorio e agli elementi caratterizzanti il negozio dissimulato anzichè in ordine alla coincidenza o meno fra le manifestazioni di volontà, di cui al contratto stipulato dalle parti, e la reale volontà delle medesime.
Il motivo è inammissibile.
Come, infatti, più volte precisato da questa Corte, con orientamento consolidato, “in materia di procedimento civile, nel ricorso per cassazione il vizio della violazione e falsa applicazione della legge di cui all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione”: Cass. n. 16038/2013 (ord.); conformi, fra le più recenti: Cass. n. 25419/2014 (ord.); Cass. n. 287/2016.
Nella specie la società ricorrente si è limitata ad enucleare una parte della motivazione (cfr. ricorso, p. 18) dal più ampio e articolato complesso argomentativo in cui essa si articola, nell’ambito di una censura rivolta sostanzialmente a sollecitare a questa Corte di legittimità una non consentita rivisitazione del merito della controversia e comunque senza specificare se, e in quali termini, i rilievi in tal modo estrapolati contenessero affermazioni in diritto contrastanti con le norme denunciate.
Con il secondo motivo, deducendo vizio di motivazione, la società ricorrente si duole che la sentenza abbia omesso l’esame di fatti accertati e rilevanti ai fini del decidere. Con il terzo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, articolo 5 e degli articoli 2697 c.c. e 2119 c.c., nonchè vizio di motivazione, la ricorrente si duole che la sentenza abbia, in particolare, omesso di esaminare, quale fatto decisivo per il giudizio e oggetto di discussione, l’accordo secondo cui le parti avevano deciso di accantonare la retribuzione nel fondo comune destinato alla costituzione della nuova società e al trasferimento ad essa del contratto di impianto con (OMISSIS).
I motivi in esame possono essere esaminati congiuntamente, in quanto entrambi denunciano il vizio di cui all’articolo 360, n. 5 e rivolgono alla sentenza impugnata censure di carenze motivazionali (anche, il 3, sub specie di violazione delle regole di riparto dell’onere della prova).
Gli stessi risultano inammissibili, non conformandosi allo schema normativo del nuovo vizio “motivazionale”, quale risultante a seguito delle modifiche introdotte con il Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134, pur a fronte di sentenza depositata il 19 giugno 2015, e, pertanto, in epoca successiva all’entrata in vigore (11 settembre 2012) della novella legislativa.
Al riguardo, le Sezioni Unite di questa Corte, con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014, hanno precisato che l’articolo 360 c.p.c., n. 5, come riformulato a seguito dei recenti interventi, “introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia)”; con la conseguenza che “nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e articolo 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”.
In particolare, e diversamente da quanto dedotto, la Corte territoriale ha esaminato in modo specifico talune delle circostanze, che la ricorrente assume essere state omesse, e così il versamento, da parte del reclamante, della somma di Euro 75.000,00 per la costituzione della nuova società (cfr. sentenza, pp. 15-16) e, pur nell’ambito di una ricostruzione fattuale diversa da quella prospettata dalla società, la destinazione di somme corrispondenti alle mancate retribuzioni alla “copertura” dei relativi costi (p. 15); nè risulta spiegata dalla ricorrente la “decisività”, quale idoneità a determinare un esito diverso della controversia, dell’esercizio, da parte del reclamante, del potere di determinare la retribuzione degli altri addetti all’impianto o della sua presenza in quest’ultimo fin dalla data di apertura, a fronte di una valutazione complessiva della deposizione del teste (OMISSIS) che ha posto in rilievo, attraverso elementi concreti e convergenti, la mancanza nel (OMISSIS) di effettivi poteri di gestione (pp. 13-14).
Con il quarto motivo, deducendo violazione della L. n. 300 del 1970, articolo 18, L. n. 604 del 1966, articolo 8, articoli 2697 e 1218 c.c., la ricorrente censura la sentenza impugnata, nella parte in cui ha disposto la reintegra, erroneamente ritenendo di attribuire al datore di lavoro l’onere della prova di essere un’impresa in regime di tutela obbligatoria.
Il motivo è infondato.
Al riguardo, ritiene questa Corte di confermare il principio di diritto affermato con la sentenza delle Sezioni Unite 10 gennaio 2006 n. 141, la quale ha stabilito che “in tema di riparto dell’onere probatorio in ordine ai presupposti di applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia accertata l’invalidità, fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività e, sul piano processuale, dell’azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto espulsivo, mentre le dimensioni dell’impresa, inferiori ai limiti stabiliti dalla L. n. 300 del 1970, articolo 18 costituiscono, insieme al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi del suddetto diritto soggettivo del lavoratore e devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro. Con l’assolvimento di quest’onere probatorio il datore dimostra – ai sensi della disposizione generale di cui all’articolo 1218 c.c. – che l’inadempimento degli obblighi derivatigli dal contratto di lavoro non è a lui imputabile e che, comunque, il diritto del lavoratore a riprendere il suo posto non sussiste, con conseguente necessità di ridurre il rimedio esercitato dal lavoratore al risarcimento pecuniario. L’individuazione di siffatto onere probatorio a carico del datore di lavoro persegue, inoltre, la finalità di non rendere troppo difficile l’esercizio del diritto del lavoratore, il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della “disponibilità” dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell’impresa”.
Con il quinto motivo, deducendo violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, articolo 18, comma 4, la ricorrente censura nuovamente la sentenza impugnata, nella parte in cui ha disposto la reintegra del lavoratore, sul rilievo che, sussistendo il fatto materiale delle assenze, la tutela applicabile non era quella reale, di cui al comma 4 della disposizione richiamata, ma quella indennitaria, di cui al successivo comma 5.
Il motivo è infondato.
Premesso che la sentenza impugnata ha ritenuto legittimamente esercitato, da parte del (OMISSIS), il potere di autotutela ex articolo 1460 c.c., riconosciuto al lavoratore a fronte del mancato pagamento delle retribuzioni, ritiene questa Corte di dare continuità al recente orientamento, per il quale “l’insussistenza del fatto contestato, di cui all’articolo 18 St. lav., come modificato dalla L. n. 92 del 2012, articolo 1, comma 42, comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicchè in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità”: Cass. n. 20540/2015; conforme Cass. n. 18418/2016.
Con il sesto motivo, denunciando violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, articolo 18, comma 4, la ricorrente si duole che la Corte di appello, nel pronunciare la condanna al risarcimento del danno subito dal lavoratore, abbia dedotto soltanto quanto dal medesimo percepito nel periodo di estromissione (aliunde perceptum) e non anche quanto egli avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione (aliunde percipiendum).
Il motivo è inammissibile.
La ricorrente, infatti, pur denunciando, con il motivo in esame, un vizio di violazione o falsa applicazione di norma di legge, non ha specificamente indicato quali affermazioni in diritto della sentenza impugnata si porrebbero in contrasto con la disposizione che regola la fattispecie (L. n. 300 del 1970, articolo 18, comma 4), a fronte di una pronuncia che ha comunque accertato, senza alcuna censura sul punto, lo svolgimento di attività lavorativa da parte del reclamante nel periodo di estromissione dal posto di lavoro in precedenza occupato e conseguentemente disposto che dall’indennità risarcitoria fossero detratte le retribuzioni percepite per la prestazione di tale attività; nè il ricorso dà conto, mediante la riproduzione delle parti corrispondenti dell’atto di appello, di avere sottoposto, e in quali termini, alla cognizione della Corte la questione oggetto del motivo in esame.
Il ricorso deve, pertanto, essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 100,00 per esborsi e in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 23 novembre 2016.