Sentenza 9904/2016
Lavoro subordinato – Apparecchiatura di controllo dell’entrata ed uscita dall’azienda
La rilevazione dei dati di entrata ed uscita dall’azienda mediante un’apparecchiatura predisposta dal datore di lavoro (nella specie, un “badge” elettronico idoneo a rilevare non solo la presenza ma anche le sospensioni, i permessi e le pause, ed a comparare nell’immediatezza i dati di tutti i dipendenti) ove sia utilizzabile anche in funzione di controllo a distanza del rispetto dell’orario di lavoro e della correttezza dell’esecuzione della prestazione, si risolve in un accertamento sul “quantum” dell’adempimento, sicché è illegittima ai sensi dell’art. 4, comma 2, della l. n. 300 del 1970se non concordata con le rappresentanze sindacali, ovvero autorizzata dall’ispettorato del lavoro, dovendosi escludere che l’esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti possa assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore.
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza 13 maggio 2016, n. 9904 (CED Cassazione 2016)
FATTO
Con sentenza 28 dicembre 2012, la Corte d’appello di Napoli respingeva (compensando le spese tra le parti) l’appello proposto da (OMISSIS) s.p.a. avverso la sentenza di primo grado, che, in accoglimento della domanda, a seguito di ricorso in via d’urgenza ai sensi dell’art. 700 c.p.c., di (OMISSIS) (suo dipendente di 2 livello con funzioni di controllo della manutenzione), ne aveva accertato l’illegittimità del licenziamento intimatogli il 3 giugno 2010 per giusta causa dalla predetta società datrice, che aveva condannato alla reintegrazione nel posto di lavoro e nelle mansioni e al pagamento, a titolo risarcitorio, di indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto, pari a Euro 2.755,21 mensili dalla data del licenziamento a quella di effettiva reintegrazione, oltre interessi e rivalutazione.
A motivo della decisione, la Corte territoriale condivideva la decisione del Tribunale sull’essenziale rilievo dell’inutilizzabilità dei dati acquisiti a giustificazione del licenziamento intimato (per rilevazione di anomalie, per non coincidenza delle timbrature del lavoratore in entrata e in uscita rispetto agli effettivi orari osservati, in accordo con altri quattro colleghi per la sistematica registrazione dal primo ad arrivare in azienda del badge anche per gli altri ed analogamente dall’ultimo ad uscire, così da far figurare per tutti una presenza superiore a quella reale), per l’illegittimità dell’impianto di rilevazione aziendale, realizzante in concreto un controllo a distanza dei lavoratori, in violazione della L. n. 300 del 1970, art. 4, comma 2, in assenza di alcun accordo scritto (nell’inidoneità di uno in forma tacita) con le rappresentanze sindacali aziendali o con la commissione interna ovvero, in difetto, di autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro.
Con atto notificato il 27 giugno 2013, (OMISSIS) s.p.a. ricorre per cassazione con due motivi, cui resiste (OMISSIS) Esposito con controricorso contenente ricorso incidentale su unico motivo e condizionato articolato su quattro motivi; entrambe le parti hanno comunicato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per la non integrazione del badge elettronico aziendale in dotazione ai propri dipendenti di un dispositivo rientrante nella previsione della norma denunciata, siccome nè di controllo a distanza (in quanto mera evoluzione del cartellino marcatempo, di rilevazione di un dato fornito dallo stesso lavoratore con posizionamento a circa 3 cm. dal lettore e digitazione della causale della timbratura, senza alcuna possibilità di verifica della sua presenza reale, in assenza di tornelli o di videocamere, come risultante dalla modalità di rilevazione dei fatti contestati, in esito ad accertamento investigativo della durata di quindici giorni), nè dell’attività lavorativa (ossia di controllo sulle modalità di svolgimento delle mansioni dal dipendente e non di semplice rilevazione della sua presenza in azienda), con erronea interpretazione pertanto sia letterale che della ratio della norma, avente ad oggetto quale bene protetto una supervisione invasiva dell’attività lavorativa in luogo diverso da quello di ubicazione del lavoratore, con sua memorizzazione e riproduzione in un secondo momento; nella sufficienza, in ogni caso, per i controlli cd. preterintenzionali, nel contemperamento delle ragioni di tutela del lavoratore con quelle organizzative datoriali, di un accordo con le r.s.a. anche tacito, invece drasticamente esclusa dalla Corte territoriale.
Con il secondo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.p.c., art. 115 c.p.c., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 4, per l’erroneo e contraddittorio assunto, nella sentenza impugnata, dell’idoneità del sistema alla rilevazione dei movimenti del personale, all’interno ed all’esterno della struttura, senza alcuna collaborazione del singolo dipendente, per la sua attivazione con illuminazione, pur in assenza di avvicinamento del badge: circostanza non provata ed anzi contestata, in riferimento alla quale pure offerta tempestiva deduzione probatoria nel senso della mera registrazione dell’orario di entrata e di uscita con avvicinamento del badge a meno di 3 cm. dal lettore.
A propria volta con il primo motivo, (OMISSIS) deduce, in via di ricorso incidentale condizionato, violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, artt. 2 e 3 ed omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5, per illegittimo controllo occulto in virtù di impiego di personale di vigilanza esterno alla struttura operativa aziendale, i cui nominativi neppure noti agli interessati, con attività anche all’esterno dei luoghi di lavoro a mezzo di strumenti tecnici di registrazione.
Con il secondo, egli deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 ed omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5, per mancata affissione, prima della contestazione del 25 marzo 2010 (n quanto coincidente con essa), del codice disciplinare in luogo accessibile a tutti con specificazione della fattispecie sanzionata.
Con il terzo, egli deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 e delle dispositive integrative aziendali dell’art. 216, comma 2 e art. 217, punti 4 e 5 CCNL di categoria ed omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5, per applicazione del licenziamento disciplinare, in contrasto con le previsioni di processo sanzionatorio in progress e di provvedimento conservativo almeno per cinque volte in ciascun anno solare, fino ad ulteriore e grave recidiva.
Con il quarto, egli deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 ed omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5, per non immediatezza delle contestazioni, comunque infondate nel merito. Con unico motivo, egli deduce, in via di ricorso incidentale (non condizionato), violazione e falsa applicazione degli artt. 90, 91, 92 e 93 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per erronea compensazione delle spese, in violazione del principio di soccombenza, anche tenuto conto della complessità della vicenda.
Il primo motivo principale, relativo a violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 4, per la non integrazione del badge elettronico aziendale in dotazione ai dipendenti di (OMISSIS) s.p.a. di un dispositivo di controllo a distanza dell’attività lavorativa, è infondato.
Ed infatti, anche la rilevazione dei dati di entrata ed uscita dall’azienda mediante un’apparecchiatura di controllo predisposta dal datore di lavoro, sia pure per il vantaggio dei dipendenti, ma utilizzabile anche in funzione di controllo dell’osservanza dei doveri di diligenza nel rispetto dell’orario di lavoro e della correttezza dell’esecuzione della prestazione lavorativa, non concordata con le rappresentanze sindacali, nè autorizzata dall’ispettorato del lavoro, si risolve in un controllo sull’orario di lavoro e in un accertamento sul quantum della prestazione, rientrante nella fattispecie prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 4, comma 2 (Cass. 17 luglio 2007, n. 15892). Nè l’esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore, quando, però, tali comportamenti riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, e non, invece, quando riguardino la tutela di beni estranei al rapporto stesso: con la conseguenza che esula dal campo di applicazione della norma il caso in cui il datore abbia posto in essere verifiche dirette ad accertare comportamenti del prestatore illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale (Cass. 27 maggio 2015, n. 10955; Cass. 23 febbraio 2012, n. 2722; Cass. 23 febbraio 2010 n. 4375).
Nel caso di specie, la Corte territoriale ha fatto esatta applicazione della norma di diritto denunciata, avendo ritenuto, con accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità, in quanto congruamente e logicamente argomentato (per le ragioni illustrate a pg. 4 della sentenza impugnata), che il badge in uso presso (OMISSIS) s.p.a., con tecnologia RFID puntualmente ivi illustrata, consistente in un chip RFID contenuto nel badge e in un lettore badge collegato per mezzo della rete lan all’ufficio del personale di Roma, consenta la trasmissione, mediante sistema on line, alla centrale operativa di Roma di “tutti i dati acquisiti tramite la lettura magnetica del badge del singolo lavoratore, riguardanti non solo l’orario di ingresso e di uscita, ma anche le sospensioni, i permessi, le pause”: così realizzando “in concreto, il controllo costante e a distanza circa l’osservanza da parte degli stessi” (dipendenti) “del loro obbligo di diligenza, sotto il profilo del rispetto dell’orario di lavoro”, rientrante nella fattispecie prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 4, comma 2. Sicchè, la Corte partenopea ha convenuto “con il primo giudice che si tratta di strumento di controllo a distanza e non di mero rilevatore di presenza, tenuto anche conto che il sistema in oggetto consente di comparare immediatamente i dati di tutti i dipendenti, realizzando così un controllo continuo, permanente e globale”.
E ciò nella verificata inesistenza di alcun accordo con le rappresentanze sindacali, nè autorizzazione dall’ispettorato del lavoro: che, integrando una garanzia procedurale a contemperamento dell’esigenza di tutela del diritto dei lavoratori a non essere controllati a distanza e quello del datore di lavoro o, se si vuole, della stessa collettività, relativamente alla organizzazione, produzione e sicurezza del lavoro, individuando una precisa procedura esecutiva e gli stessi soggetti ad essa partecipi (Cass. 1 ottobre 2012, n. 16622; Cass. 17 luglio 2007, n. 15892), non può che risultare in forma scritta e non in forma tacita, come esattamente ritenuto dalla Corte territoriale (per le ragioni esposte ai primi due capoversi di pg. 5 della sentenza).
In ogni caso, la doglianza di omesso esame della circostanza dell’allegato tacito accordo sindacale, è inammissibile per la mancata trascrizione e neppure specifica indicazione dei fatti dedotti dalla difesa del ricorrente (come genericamente esposto in fine del punto 7, a pg. 15 del ricorso): così palesemente violando il principio di autosufficienza del ricorso, che impone, a norma dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, in modo da permettere la valutazione della fondatezza delle ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e quindi ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito (Cass. 9 aprile 2013, n. 8569; Cass. 16 marzo 2012, n. 4220; Cass. 17 luglio 2007, n. 15952).
Il secondo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.p.c., art. 115 c.p.c., comma 1, per l’erroneo e contraddittorio assunto della Corte partenopea di idoneità del sistema alla rilevazione dei movimenti del personale, all’interno ed all’esterno della struttura, senza alcuna collaborazione del singolo dipendente, è inammissibile.
Non si configurano, infatti, le denunciate violazioni di norme di legge, per insussistenza dei requisiti loro propri di verifica di correttezza dell’attività ermeneutica diretta a ricostruire la portata precettiva delle norme, nè di sussunzione del fatto accertato dal giudice di merito nell’ipotesi normativa, nè tanto meno di specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata motivatamente assunte in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 28 novembre 2007, n. 24756; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984).
Ed infatti, il mezzo si risolve piuttosto nella sollecitazione di una rivisitazione del merito accertato dalla Corte territoriale e della sua valutazione probatoria, per giunta a fronte della corretta ed argomentata motivazione offerta, già richiamata sopra (e pure tenuto conto della marginalità, nel complessivo ragionamento logico e giuridico compiuto, del passaggio argomentativo censurato: nella seconda parte del primo periodo di pg. 5 della sentenza), inammissibile nell’odierno giudizio di legittimità, nel quale sono deducibili soltanto eventuali vizi del percorso formativo del convincimento del giudice, libero di attingerlo dalle prove che gli paiano più attendibili, senza alcun obbligo di esplicita confutazione degli elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694; Cass. 5 ottobre 2006, n. 21412).
Dalle superiori argomentazioni discende coerente il rigetto del ricorso, assorbente l’esame dei quattro motivi di ricorso incidentale condizionato.
Infine, il quinto (in realtà unico) motivo di ricorso incidentale, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 90, 91, 92 e 93 c.p.c., per erronea compensazione delle spese, è inammissibile.
La statuizione del giudice è, infatti, insindacabile, se non nei limiti dell’accertamento della violazione del principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa; così esulando da tale sindacato, piuttosto rientrando nell’esclusivo potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione di opportunità della compensazione totale o parziale delle spese di lite, nelle ipotesi sia di soccombenza reciproca, sia di concorso di altri giusti motivi (Cass. 19 giugno 2013, n. 15317;Cass. 5 aprile 2003, n. 5386): nel caso di specie adeguatamente individuati nella “peculiarità delle questioni”.
La soccombenza assolutamente prevalente di (OMISSIS) s.p.a. giustifica la posizione delle spese del presente giudizio a suo carico.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale; dichiara inammissibile l’incidentale; assorbito l’incidentale condizionato; condanna (OMISSIS) s.p.a. alla rifusione, in favore del controricorrente e ricorrente incidentale, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 100,00 per esborsi e Euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.